La Storia di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Un Viaggio tra Leggende, Luoghi e Libri.
Merlino, Myrddin in gallese, ci porta in uno degli altri luoghi della leggenda, Carmarthen, la città dove sembrerebbe esser nato e dove si trovano ancor oggi tracce della sua mitica presenza, come la collina che porta il suo nome.
Merlino, che secondo le leggende ha una doppia natura e anche una doppia storia. Lo racconta sempre Ciampi nel suo libro, con parole che ne descrivono tutta la natura più profonda.
Per gli antichi gallesi, infatti, esiste «Merlino il Selvaggio, che è un bardo precipitato negli orrori della guerra. Dopo una delle Tre Futili Battaglie dell’isola di Britannia si allontana e comincia a vagare nella foresta. Perde il senno, ma in cambio acquista il dono della profezia». C’è poi «Merlino il Saggio, detto anche Merlino Ambrosio, che sa diventare consigliere del sovrano e porsi al servizio della pace e della giustizia, con i suoi consigli prima ancora che con i suoi poteri.
Il saggio e il selvaggio: la prima parola è contenuta nella seconda. Come due lati della stessa medaglia. O meglio, come se la saggezza non possa che essere figlia dei tormenti della mente, del buio delle foreste».
Quella che si conosce, la figura che è stata tramandata fino al presente è sicuramente più vicina all’immagine del Saggio, ma contiene in sé anche alcuni aspetti del secondo personaggio. Non si scordi che il mago è figlio di una donna mortale e del Diavolo.
Ebbene, anche John Steinbeck sembra tornare a riflettere sull’importanza dei luoghi nelle lettere
scritte prima e durante la stesura del suo libro, “Le gesta di re Artù e dei nobili cavalieri”, testimonianze dense delle sue appassionate ricerche. La vera scintilla è racchiusa in questa corrispondenza diventata appendice del romanzo.
In una lettera del 1958 alla sua agente letteraria, Elizabeth Otis, si legge: «L’anno scorso ho trascorso un periodo di tempo in Inghilterra, come tu ben sai, recandomi in numerose località cui si farà riferimento nel libro, per assorbire la sensazione fisica dei posti. Credevo di essermi documentato in questo senso abbastanza bene. E soltanto continuando a leggere constato che vi sono vuoti nelle informazioni di cui dispongo. Troverò necessario tornare in Inghilterra. Credo che il momento migliore per partire sarebbe il primo giugno. Devo andare a trascorrere un po’ di tempo a Glanstonbury, a Colchester e in località della Cornovaglia, nei dintorni di Tintagel e poi di nuovo a nord per trattenermi a Alnwick e a Bamborough Castle, in Northumberland. Le fotografie non servono a nulla. Recandosi laggiù ci si può assicurare una forte carica».
Il romanzo di Steinbeck (incompleto e pubblicato postumo nel 1976) è una delle varie rivisitazioni moderne della leggenda di Artù e dei suoi cavalieri: nello specifico il testo si basa sull’opera di Thomas Malory (XV secolo) che a sua volta attinge a racconti precedenti.
Tutte queste narrazioni compongono, infatti, un corpus davvero complesso: un’abbondante materia letteraria, ricchissima di tanti fili narrativi che si sviluppano ormai da secoli e si passano il testimone pure all’interno di uno stesso ciclo, anche secondo una tecnica denominata entrelacement (Ferdinand Lot). Cercando di riassumerne il meccanismo, si tratta di un procedimento che vede lo sviluppo di più racconti: per favoleggiare le gesta di un personaggio se ne lascia in sospeso un altro e così via, passando da una storia ad un’altra per poi ritornare ai fili narrativi precedenti. Questo fa sì che si crei un insieme in cui tutte le parti per funzionare hanno bisogno delle altre ed infatti «in un racconto efficacemente entrelacé, diventa impossibile eliminare uno dei fili senza guastare tutto il tessuto narrativo». Come ricorda Claudio Lagomarsini nella sua guida ai romanzi francesi del Duecento, questa tecnica non è del tutto nuova, già l’epica classica l’aveva sperimentata con successo. Sicuramente, però, viene migliorata e raffinata in uno dei grandi cicli che raccoglie le leggende sui Cavalieri della Tavola Rotonda e del Graal: “il ciclo del Lancillotto-Graal”.
Ma volendo procedere con ordine, prima di tutto è necessario comprendere come siano cronologicamente e tematicamente organizzati i materiali di contenuto “arturiano”.
Sono moltissimi i testi scritti, poi riscritti e rimaneggiati con questi temi, dal Medioevo ad oggi.
Esiste poi tutta una letteratura sulle avventure dei cavalieri che hanno preso parte alla Tavola Rotonda, come ad esempio il “Sir Galvano e il Cavaliere Verde”, poema cavalleresco del XIV secolo, o anche “Il Tristano in prosa”, composto tra il 1230 e il 1235, circa. Tutte narrazioni che affondano le radici nel folklore popolare, nella cultura inglese, in particolare gallese, e in quella celtica.
Che si sappia, il primo a citare il personaggio di re Artù fu Nennio, un monaco gallese vissuto nel IX secolo, di cui si hanno così poche notizie, e le poche dubbie, al punto che l’opera più famosa a lui attribuita non può dirsi certamente sua. Si tratta della “Historia Brittonum”, un manoscritto che ripercorre la storia dell’Inghilterra ed in cui appunto si parla di un certo Artù, fautore della vittoria contro i Sassoni nella battaglia di Monte Badon, nel 500 d.C. Di fatto, comunque, questo testo è la fonte da cui hanno preso vita le successive elaborazioni, oltre che gli ampliamenti della leggenda arturiana. Sempre nel Medioevo, infatti, a riprendere e sviluppare questo soggetto è un altro autore di origine gallese (non si sa con certezza se monaco anch’egli oppure no): Goffredo di Monmouth, artefice della “Storia dei re di Britannia”. In quest’opera sono raccolti molti miti, leggende e racconti legati alla Britannia, oltre alla storia delle vicende dei re che l’hanno guidata per circa duemila anni.
Con Goffredo siamo nel XII secolo. In poco tempo l’insieme di queste narrazioni, dette anche “Ciclo bretone”, “Ciclo arturiano” o “materia di Bretagna”, si diffonde e giunge in Francia: i testi così tradotti finiscono tra le mani di Chrétien de Troyes, grande interprete dei valori delle corti feudali e dell’epica cavalleresca. A lui si deve la trilogia di “Yvain, il cavaliere del leone”, “Lancillotto o il cavaliere della carretta” e “Perceval o il racconto del Graal”, che pare sia il primo a raccontare della sacra coppa.
A livello temporale s’inserisce qui il suddetto ciclo del Lancilloto-Graal che «riunisce in un insieme globalmente coerente e coeso un numero sbalorditivo di avventure e peripezie». (Lagomarsini)
Per chiarezza, si elencano in ordine i romanzi che lo compongono, in modo che i soggetti tramandati possano essere intellegibili: “Storia del Santo Graal”, “Merlino”, “Seguito del Merlino”, “Lancillotto”, “Ricerca del Santo Graal”, “La morte di Artù”.
È proprio quest’ultimo componimento che permette di oltrepassare i confini cronologici e culturali del medioevo. Nel XV secolo, infatti, Thomas Malory scrive “La morte di re Artù” che si basa appunto su tutti i racconti a lui giunti e si nutre in particolare dei contenuti del ciclo del Lanciolloto-Graal.
Va detto che la rielaborazione di Malory è quella che ha portato alla versione tutt’oggi più conosciuta, nel senso che ha consentito il passaggio da un racconto medioevale ad una variante più moderna della storia: in molti hanno continuato, infatti, a riproporre adattamenti e interpretazioni, fino ai contemporanei, tra cui ad esempio, Steinbeck o Barjavel.
Il romanzo di Barjavel, “Il mago M.”, compone insieme più tradizioni e racconta con mirabile finezza i destini di Merlino, Artù, Parsifal, Viviana, Lancillotto, Ginevra, Morgana, e di tutti coloro che fanno parte della Grande Avventura. Ogni capitolo segue una delle sorti, portandoci tra Camelot, castelli incantati, nel regno sottoterra popolato dai Giganti, in mezzo a duelli, tornei e battaglie, sulle sponde di un lago dove vive una Dama…
La Famosa Dama del Lago, Viviana, che ama Merlino e che lui ricambia.
Tra le tante rimodulazioni delle storie del ciclo bretone, questa di Barjavel effonde una vera e propria malia. Che si tratti di legami tra madri e figli, d’unioni difficili, separazioni, ricongiungimenti e rapporti al di là del tempo, dalla storia affiora un racconto dell’amore di potente grazia.
Il protagonista del romanzo è Merlino, anche se compare a volte solo come un bagliore. È il fil rouge, che tiene unite le varie storie, aiutando e consigliando prima un cavaliere, poi materializzandosi sotto mentite spoglie, apparendo in momenti cruciali.
Così inizia:
«Più di mille anni fa, in Bretagna, viveva un mago di nome Merlino. Era giovane e bello, aveva lo sguardo vivace e malizioso, un sorriso vagamente beffardo, le mani sottili, la grazia di un ballerino, la noncuranza di un gatto, la vivacità di una rondine. Lo scorrere del tempo non lo sfiorava, sua era la giovinezza eterna delle foreste. Possedeva i poteri e li utilizzava solo per il bene (o per quello che riteneva essere il bene). Ma talvolta capitava anche a lui di commettere un errore: non era un uomo come tutti gli altri, certo che no, ma era pur sempre umano. Per gli uomini era l’amico, colui che dà conforto, che condivide gioie e dolori, che aiuta senza calcoli. E che non tradisce mai. Per le donne era il sogno […] ma era troppo bello, inaccessibile. Era come un angelo. Soltanto Viviana lo amò e ciò fu cagione di felicità, forse di tristezza, o di entrambe le cose, per l’uno e per l’altra».
Merlino appare, quindi, a volte, come un ragazzo ed altre volte, come un anziano; ha la capacità di trasformarsi e di cambiare sembianza, e questo potere, come altri, gli deriva dal padre. Il Diavolo l’ha concepito come sua opera e lo vuole al suo servizio. Ma il mago, per natura, oltre che per scelta, decide di seguire un’altra via.
E sarà così che cercherà di salvare sé stesso ed i cavalieri, guidandoli alla ricerca del Graal.
«Voci giunte dalla notte dei tempi lascerebbero supporre che Merlino avesse già spedito parecchie volte degli uomini sulle tracce del Graal, già ben prima della Tavola Rotonda. Perché se è vero che nessuno sa cosa contenga il Graal, è altrettanto vero che quando gli uomini se ne distolgono perdono la gioia di esistere poiché non sanno più chi sono, né perché sono. Pur restando in vita cessano di essere davvero delle creature viventi. Allora un profeta o un mago li rimette alla ricerca del tesoro perduto. Un tesoro difficilissimo da trovare, senza il quale le sventure si abbattono sulla Terra e in Cielo».
Il ciclo arturiano, ed anche questa rivisitazione di Barjavel, hanno come tema centrale la ricerca di questo oggetto meraviglioso.
La parola, come ricordano più studiosi, tra cui Marc Rolland, viene dal latino cratalis, e non indica propriamente una coppa, ma più precisamente un “piatto fondo”: in questo modo la storia si ricollega anche all’episodio dell’Ultima Cena.
Di racconto in racconto, però, la leggenda arriva ad utilizzare ed eternare il simbolo della coppa, la cui essenza può esser scorta solo da chi è degno di vedere al suo interno, colui che occupa il così detto “Seggio Periglioso” della Tavola Rotonda: il cavaliere più puro, ma anche colui che ha il coraggio di questa Visione, è l’unico che potrà mettere fine alla Ricerca e ricevere così quell’iniziazione che riporterà la Verità nel mondo.
I cavalieri viaggiano in ogni dove, mettono a rischio la loro vita, spesso la perdono per questa conquista, e solo pochissimi riescono ad avvicinarsi al Calice: Parsifal, ad esempio, dopo innumerevoli dimostrazioni di valore, è quasi sul punto di compiere l’Impresa, ma fallisce. Sarà Galaad a realizzarla. Nome vero di Lancillotto e di suo figlio, colui che avrà la forza di scorgere il vero.
L’Avventura così prende vita e si sviluppa, piena di simbologie ricchissime di significati (la stessa Tavola Rotonda, ad esempio) e di sapienti riflessioni sulla vita e sul senso del destino.
“Poca importanza ha la sorte per il saggio”, scriveva Epicuro.
Ma non per gli amanti.
A costoro spetta una ventura impossibile da controllare con la ragione. Così, tra battaglie, ricerche, e sortilegi, due personaggi incontrano “il proprio destino nella via che s’era presa per evitarlo” (J. de La Fontaine).
Accade infatti che Ginevra e Lancillotto si innamorano.
Pochissime parole a descrivere questa galassia, tutto quello che si può scrivere non servirebbe: tanto è vero che Barjavel più avanti lascerà una pagina bianca, lo spazio e il tempo in cui quell’amore prende forma.
Artù, il povero Artù, non avrebbe mai potuto nulla contro questo, e neppure Merlino, il potentissimo Mago. Sfortunato Artù. Quell’unione fatta di rispetto, ammirazione, sostegno, valori inestimabili coltivati tra lui e la sua regina, svanisce all’improvviso, perché la natura è più forte, anche quando si tratta del vincolo più onesto ed onorevole.
Lancillotto non vuole tradire la fiducia del suo re. Così Ginevra. Da sempre un sentimento ambivalente accompagna la visione di questo amore. Possibile non riuscire a domare l’emozione per le sorti di un intero Regno?
Ma questa storia non è il racconto di una delle tante passioni nate sotto il Cielo. Ha più a che fare con quella forza che, detta alla Salinger, tiene insieme l’Universo.
Ginevra e Lancillotto si amano, semplice e stupefacente al tempo stesso.
La Sorte ha scelto loro per mostrare questa possibilità d’eternità al mondo.
E così anche l’unione di Merlino e Viviana, la Dama del Lago, ha il respiro esteso della bellezza.
Leggere della scena che li vede parlarsi mentalmente a distanza, lei nella foresta e lui altrove, è come contemplare la perpetuità di un’opera d’arte.
«Mormorò il nome di Viviana e lei lo sentì e pronunciò il nome di Merlino con la stessa tenerezza. Il mago le disse:
Ti regalo la foresta nella notte di San Giovanni…
Viviana fluttuò su un mare di foglie, se ne lasciò travolgere, divenne lei stessa foresta, le sue dita aperte fiorirono…».
La metamorfosi che costella i più noti miti dalla notte dei tempi.
Ma d’altronde le storie e tutti i cicli delle Avventure dei Cavalieri della Tavola Rotonda compongono insieme un grande mito, un incessante ed inesauribile racconto che accompagna tutti da sempre.
Ed i miti, come scriveva Camus, «sono fatti perché l’immaginazione li animi».
Ginevra e Lancillotto Tra Leggenda e Realtà
Le figure di Ginevra e Lancillotto sono da sempre in bilico tra fantasia e leggenda, e rimane sempre il dubbio che vi sia stato qualcosa di reale. Tanto la loro storia influenzò poeti e letterati, che affascinò anche Dante Alighieri.
Ginevra e Lancillotto, chi sono?
Cominciamo da Ginevra. Di lei e dello sposo, Re Artù, si è parlato anche nelle leggende del Ciclo Arturiano: ma pare che un personaggio simile fosse davvero esistito, nel V o VI secolo, in Britannia. In ogni caso, se dovessimo seguire il filone leggendario (decisamente più affascinante) dovremmo spiegare che Ginevra era una principessa, figlia del Re dei Nani, e che sposò Artù portando in dote la famosa Tavola Rotonda. Quanto a Lancillotto, sulla sua storia sussistono diverse versioni, ma di certo fu il cavaliere più valoroso al servizio di re Artù, tanto da salvare la vita alla stessa regina. Da qui, pare, cominciò tutto.
Un Amore Scandaloso
Essendo, come detto, il più coraggioso cavaliere della Tavola Rotonda, Lancillotto godeva della massima fiducia da parte del suo Re. E senza dubbio quest’ultimo non avrebbe mai immaginato che proprio il suo fido compagno si fosse perdutamente innamorato della sua sposa, e lei di lui. Nonostante la prudenza dei due amanti, quindi, il Re li scoprì e li separò. Condannò a morte Ginevra, mentre Lancillotto riuscì a fuggire progettando di attaccare Camelot, nella speranza di salvarla. La battaglia rase al suolo la città e re Artù rimase ucciso, ma Ginevra era già morta: Lancillotto, nella sua disperazione, decise di dedicarsi alla vita spirituale.
Versioni Alternative
Questa è solo una delle versioni della storia: un’altra vede il Re perdonare infine la sua sposa, e graziarla, vivendo con lei fino ad un’età avanzata. Dopo la sua morte Ginevra avrebbe rivisto Lancillotto, ma avrebbe finito col morire lontana da lui, nel tentativo di redimere l’anima di entrambi. Sarebbe poi stato lui a seppellirla, chiudendosi infine in convento.
Nella Divina Commedia
Come dicevamo all’inizio, la storia dei due amanti dovette colpire anche la fantasia di Dante Alighieri. Parlava infatti di loro il libro che Paolo e Francesca, incontrati nel Canto V del Girone dei Lussuriosi, stavano leggendo quando la passione li colse, condannandoli a morte. Forse l’Alighieri non conosceva esattamente il testo del romanzo cortese su Lancillotto e Ginevra, ma sapeva che la loro vicenda era l’esempio perfetto dell’amore cortese. Per questo, probabilmente, li aveva citati.
Jon Steimbeck descrive in un suo bellissimo libro le gesta di re Artù e dei suoi cavalieri. Ho voluto estrapolare un mio pensiero per descrivere le tentazioni a cui è sottoposto Lancillotto, il più famoso dei cavalieri di Artù, da parte di quattro regine o meglio streghe, che innamorate dell’eroe cercano di convincerlo ad amare loro e non Ginevra, moglie dello stesso re, che lui segretamente ama. Ecco la risposta di Lancillotto alle profferte d’amore delle quattro streghe:
“Io sono Lancillotto del lago, figlio di re Ban di Benwick,
mi inchino davanti a voi regine, che sedete su troni
tempestati di pietre preziose, coperti da stoffe fatte coi fiori,
voi che, splendide nei vostri abiti ricamati, mi osservate.
Ma vi chiedo il perché di questa mia prigionia,
“Ditemi perché mi trovo in questo castello,
cosa potete volere da me?”
Rispose Morgana, la regina, la fata, sorellastra di re Artù,
bella nella sua infinita bellezza, i capelli color del cielo, gli occhi viola,
un vestito rosso con fiori di rosa fatti con ricami d’oro:
“No, non sei prigioniero, tu sei prigioniero dell’amore.
Vedi Lancillotto noi abbiamo tutto quello che si può desiderare:
potere, terre, ricchezze, cose belle oltre l’immaginabile.
Ma quando ti abbiamo visto addormentato sotto un melo
ieri in quel campo tappezzato di margheritine,
noi quattro, ti abbiamo desiderato ma noi non possiamo dividerti,
così sarai tu, dopo che ognuna di noi ti avrà offerto il suo dono,
che sceglierai a chi donare il tuo amore.”
La prima a parlare sarà la regina del Galys del nord.
La regina si alzò, mosse i capelli rossi che guizzarono come una fiamma
i suoi occhi erano colore smeraldo, si avvicinò a Lancillotto
il suo corpo sapeva di muschio, la sua voce era bassa profonda,
faceva vibrare il cuore.
“Ti prometto Lancillotto l’estasi dell’amore,
un’estasi che cresce che si espande
e tu sarai preda di una furia, di una passione esultante.
Proverai in ogni tua fibra sensazioni sconosciute, l’infinito piacere
del desiderio realizzato, Il gioco della voluttà.”
“Tocca adesso alla regina delle isole esterne” disse Morgana
Non si alzo dal trono la regina Irel, no, rimase seduta, gli occhi danzavano pieni di ironia,
i capelli biondi le incorniciavano il viso e disse:
“Io ti prometto il cambiamento, un giorno la felicità, un giorno la malinconia,
un giorno la vittoria, un giorno la sconfitta, un giorno re, il giorno dopo servo,
io amplierò i tuoi stati d’animo i tuoi sensi, non proverai mai la noia,
io ti offro il tutto e alla fine ti donerò una morte nobile e splendente,
come corollario a una vita splendida.
Toccò subito dopo alla regina di Eastland, bellissima gli occhi color nocciola,
morbida, soave, avvolta in una veste color lavanda
che con voce compassionevole gli disse:
“Io ti offro la pace che non hai mai trovato,
la sicurezza, l’affetto che tu vai cercando,
Il piacere sottile della serenità.”
La voce di Morgana risuonò nella sala:
“Ho ascoltato le mie sorelle,
loro hanno parlato ai tuoi sensi ora io parlo alla tua mente:
io ti dono il potere, il potere assoluto su tutto,
il potere che ti permette di salire su fino agli astri e di essere pari a loro.
Questo è il mio dono.”
Lancillotto stringendo nella mano la sua veste disse:
“Io non posso scegliere perché sono vostro prigioniero
e poi amo Ginevra che non è bella quanto voi,
Ginevra ha il volto, il corpo, l’anima, di Ginevra,
un uomo può amare Ginevra sapendo chi ama o anche odiarla vero,
ma voi no mie regine, i vostri volti non sono veri,
sono le immagini di quello che desideravate essere.
Ginevra ha un corpo che porta i segni del tempo,
delle gioie, delle sofferenze, ma anche lo splendore dell’amore.
No, io amo Ginevra, non accetto nessun dono
io sono vostro prigioniero nel corpo, ma libero nell’amare.
Lancillotto e Ginevra:
Il simbolo dell’amor cortese
Che un uomo avrebbe dato ogni altro agio,
Ogni felicità, nome e palagio,
Per perdere il suo cuore con un bacio
A quelle labbra eccelse.
(Alfred Lord Tennyson, Il sire Lancillotto e la regina Ginevra)
-frammento-
La storia del prode Re Artù e dei suoi cavalieri della tavola rotonda ha ispirato, nel corso del tempo, la fantasia e l’immaginazione di artisti e scrittori ed ha portato anche alla produzione più moderna delle varie versioni cinematografiche e televisive.
Tutti sono affascinati dalle gesta del leggendario re britannico che unì la Gran Bretagna e la difese strenuamente contro l’invasione sassone a cavallo del V e VI secolo; il personaggio leggendario è accompagnato da altre figure che lo circondano, come il mago Merlino che lo segue sin dall’infanzia e lo accompagna nella sua vita adulta, il figlio Mordred, nato dalla relazione illecita con la sorella Morgana (anche se nell’antica tradizione la madre designata era Morgause, l’altra sorella di Artù) e la bella Ginevra.
Ginevra è conosciuta sia per essere la giovane e amata sposa di Artù, sia per la sua passione adulterina con il cavaliere Lancillotto, il cavaliere più fedele e amato dal sovrano. Questo amore fu uno dei simboli dell’amore cortese medievale che causò non solo la distruzione degli ideali della Tavola Rotonda, preziosi al sovrano, ma anche marchiò il fedele Lancillotto di tradimento verso il suo sovrano insieme all’amata Ginevra.
Il tragico destino di Camelot, di Artù e dei due amanti fu segnato nella battaglia di Camlann dove Artù perì per mano del suo stesso figlio Mordred, che era stato colui che aveva esposto alla corte il tradimento di Ginevra con Lancillotto causando la tragica battaglia.
Nell’arte, così come in altri campi artistici, la storia dei due sfortunati amanti ha permesso di ispirare molti artisti, tra questi vi è il quadro di Herbert James Draper (1863-1920) intitolato Lancelot and Guinevere (1890).
Lancelot and Guinevere, Herbert James Draper, 1890
In questo quadro l’artista mostra un momento tipico della tradizione medievale, il cavaliere che, durante un torneo, si avvicina al palco dove è seduta la sua regina colta al momento in cui gli porge un suo omaggio. Draper sceglie di rappresentare un momento idealizzato più che scegliere di mostrare un momento di passione dei due amanti; questo a voler mostrare che il racconto di Lancillotto e Ginevra è possibile applicarlo a qualsiasi cavaliere medievale che ama ricambiato la moglie del suo signore.
Diverso è invece l’approccio di Domenico Morelli, il caposcuola del realismo napoletano, dove nel suo quadro Ginevra bacia Lancillotto:
Ginevra bacia Lancillotto, Domenico Morelli, 1880
La formazione artistica di Morelli era basata sulla lettura dei grandi classici della poesia che divennero la base per le sue opere, concentrate su scene sentimentali: questo è visibile nella sua opere su Lancillotto e Ginevra dove l’artista mostra un momento di illecita passione fugace tra i due amanti.
Anche tra i Preraffaeilliti il tema dell’amore di Ginevra e Lancillotto è un punto cardine della produzione artistica, come lo si vede nell’opera di Dante Gabriel Rossetti La Tomba di Artù.
La tomba di Artù, Dante Gabriel Rossetti, 1860
Rossetti rappresenta un passo de Le Morte d’Arthur di Sir Thomas Malory, in cui Ginevra diventata suora e ritiratasi in convento dopo la scoperta del suo tradimento, incontra per un’ultima volta il suo amante sulla tomba di Artù.
La scena rappresentata da Rossetti è il momento in cui Lancillotto chiede un ultimo bacio all’amata regina, ma quest’ultima, memore della tragedia causata dalla sua passione per il cavaliere, decide di respingerlo; qui l’artista intensifica il dramma impostando la scena sulla tomba di Re Artù e sottolineando la sua ossessione per il tema dell’amore illecito.
Lancelot bears Guinevere away, Illustration from “The Book of Romance”, Sir William Russell Flint
Molte altre rappresentazioni dell’amore tra Ginevra e Lancillotto hanno ispirato anche illustrazioni per i molti testi che sono stati scritti nel corso dei secoli, poiché ancora oggi Ginevra e Lancillotto, che sono l’esempio perfetto dell’amor cortese, sono un modello di riferimento e una continua fonte di spunti per scrittori e artisti.
The last hour, Emma Florence Harrison, illustration to Guinevere by Alfred Lord Tennyson
Le sacre terre delle mele e le sue divine custodi:
storie dell’Oltremondo dal Mediterraneo ad Avalon
La mela è da sempre simbolo di immortalità e saggezza, frutto prediletto di molte dee dell’antichità. Ha ispirato miti e leggende sul suo conto che ancora oggi ci tramandiamo e ricordiamo con sguardo volto al mistero.
Eppure, com’è accaduto anche in altri ambiti, questo frutto dai mille portenti è stato demonizzato, arrivando a rappresentare perfino l’allontanamento estremo dalla natura divina.
Le parole e i miti, tuttavia, ci raccontano storie più antiche di ciò che crederemmo, narrazioni precedenti ai tempi relativamente recenti del patriarcato. Il nostro termine mela deriva dal latino malum. È interessante fermarsi a riflettere sul significato di quest’ultima parola, che il dizionario traduce con: male, colpa, delitto, disgrazia, danno, svantaggio, pena, castigo, fatica, malattia. Tutto il contrario di ciò che il frutto della conoscenza rappresentava ai primordi. E subito nella nostra mente si delinea l’immagine di un giardino paradisiaco, di una donna, un uomo e un serpente…
Venus Verticordia, Dante Gabriel Rossetti
Eppure l’Eden non è un’invenzione cristiana. Un sacro e splendido hortus, posto nell’estremo Occidente del mondo, faceva parte già della mitologia dell’antica Grecia, dov’era conosciuto con il nome di Giardino delle Esperidi, carico di mele d’oro dalle molteplici virtù. Per i mortali era proibito accedervi, e il melo era sorvegliato dalle Esperidi – ninfe figlie della Notte – e dal drago Ladone, che montava la guardia avvolgendo le sue spire intorno al tronco dell’albero sacro. Il giardino apparteneva a Era e fu la Madre Terra a regalarle il melo dai frutti d’oro. Ecco, dunque, che già in questo mito scorgiamo le avvisaglie di culti più antichi, per i quali la mela era simbolo della Grande Madre.
Questo frutto era sacro anche all’arcaica Afrodite, non semplice dea dell’amore frivolo e della bellezza, bensì della vita, della Primavera, della fertilità, della gioia e dell’amore che genera ogni cosa in natura. Tagliando la mela a metà in senso verticale, vi si ritrova la forma della sacra vulva femminile, la porta attraverso la quale si accede all’esistenza terrena. Se la si taglia in senso orizzontale, invece, i suoi semi disegnano una stella perfetta che, insieme alla vulva, è simbolo caro ad Afrodite.
Le mele sono anche protagoniste della mitologia celtica, dove vengono donate agli eroi da donne bellissime, messaggere dell’Oltremondo. Sono cibo divino che non si consuma, ma che anzi si rigenera mangiandolo, simbolo della conoscenza che non può giungere al termine, poiché la vita è fatta di continuo apprendimento. Ma rappresentano anche il nutrimento inesauribile offerto dall’unione col divino, che mai lascia affamati o insoddisfatti.
Le tradizioni bretone e gallese ci parlano poi di Avalon, la mitica Insula pomorum che rievoca nel nostro immaginario le storie di Artù e dei suoi cavalieri, di Mago Merlino, della Dama del Lago e di Morgana. Avalon deriverebbe dalle radici indoeuropee aval– e abel-, che significano mela, per l’appunto, anche se un’altra possibile etimologia connette il nome dell’isola leggendaria con l’Annwn, l’Oltremondo regno di fate e delle anime dei defunti. E Avalon è conosciuta anche come l’Isola Fortunata, poiché produce ogni cosa da sé. Su di essa la terra si coltiva da sola e produce fiori e frutti in abbondanza, non esistono la fame e la malattia per chi vi abita, caratteristiche, queste, che non solo la collegano alla nostra immagine del Paradiso, ma anche all’immortalità offerta dalle mele.
Il mondo celtico conserva anche la memoria di altre terre amene che, come Avalon, sono isole governate da divinità ed eroi, luoghi in cui l’abbondanza regna sovrana. Tir na nÓg, situata a Occidente, è l’Oltretomba celtico in cui giungono uomini e donne che in vita hanno compiuto grandi gesta, ma alcuni fortunati possono accedervi anche da vivi, come accadde al bardo Ossian, ivi condotto dalla dolce Niamh dai biondi capelli, la divina figlia del re del mare (per saperne di più, puoi leggere il mio articolo: “Ossian e Niamh tra Spritito e Materia"). È terra meravigliosa, colma di gioie e le cui seduzioni sono ben più piacevoli di quelle terrene. Un altro nome dell’Oltremondo celtico è MagMell, La Pianura della Gioia, terra promessa dell’Anima dalla quale tutti gli esseri umani provengono e alla quale ritornano nei cicli eterni della vita.
E, senza andare poi tanto lontano, anche la Liguria, in un certo senso, ha la sua Avalon. Come abbiamo visto, l’Isola delle Mele avrebbe la sua etimologia da abel-, avel-, abal-, afel-, apel- ecc., tutti morfemi che non solo rimandano alla simbologia della mela, ma anche alla dea gallica Belisama e alle api, dal cui miele si ricavava la bevanda sacra per eccellenza, l’idromele. Nella Liguria di Ponente sono diverse le testimonianze della toponomastica che si riferiscono proprio a questa antica divinità e che rimandano al pantheon celtico, nonché alle leggende britanniche. Ne sono un esempio Colle Melosa, il Monte Pietravecchia (in origine Priaveglia, dove ‘veglia’ stava per ‘ape’) e il Monte Abellio, così come il Colle Belenda, tre luoghi non distanti tra loro che recano ricordi di tempi ormai lontani e testimonianze importanti di quel mondo.
Colle Melosa, poi, per via della sua collocazione è spesso attraversato da passaggi di nuvole basse, che lo avvolgono nella mistica nebbia che appartenne anche ad Avalon. In queste terre abitavano i celto-liguri con i loro déi, e qui sono stati rinvenuti importanti monumenti archeologici (non ancora riconosciuti) quali menhir, dolmen e cerchi di pietre che di certo non suscitano lo stesso scalpore di Stonehenge, ma esistono ed è importante restituire loro il giusto valore.
Siamo spesso propensi a credere che fuori dai confini della nostra terra esistano posti dall’incredibile energia, ci affanniamo alla ricerca di qualcosa che non possiamo raggiungere e, così facendo, dimentichiamo la cosa più importante: che il divino risiede dentro di noi e ben più vicino di quanto oseremmo immaginare. A convincerci di questo vengono in nostro aiuto non solo l’origine dei termini, ma anche gli studi svolti da professionisti, che ci raccontano ormai da tempo che fu il nostro Mediterraneo la culla di molte culture e tradizioni; Avalon, Viviana e Morgana, dunque, sarebbero nati proprio sulle sponde del nostro mare, trasformati nel tempo e riadattati ai luoghi. Sono stati rinnovati i riti e le leggende che li riguardano, ma la loro essenza permane la stessa.
Avalon è un’isola abitata da dee che sono anche maghe, e questo nel Mediterraneo lo ritroviamo nell’isola di Eea, magica dimora della celebre Circe, accompagnata da ninfe. La sua isola è anche conosciuta col nome di Aiaia, “terra fertile, umida”. Su un’isola vivevano e operavano la loro arte pure Medea e Pasifae, altre dee e maghe della tradizione greca, e così fu pure per la bretone e gallese Morgana. In passato ogni cosa era permeata dalla Dea, per cui non deve sorprendere che le stesse caratteristiche che si presentano in un luogo si ritrovino pressoché identiche anche a molti chilometri di distanza.
Circe porge la coppa a Ulisse, J. W. Waterhouse
La Dea dei primordi esisteva in ogni espressione della natura. Questo significa che era elargitrice di vita, ma anche dispensatrice della morte e di tutte quelle manifestazioni che noi oggi riteniamo erroneamente negative. La dea celtica irlandese Morrigan e la Fata Morgana del ciclo arturiano rappresentano sicuramente bene gli aspetti più oscuri della Grande Madre.
In ambito mediterraneo le maghe erano conosciute soprattutto per la loro conoscenza di erbe e intrugli, con i quali potevano guarire o accelerare la morte. Uno dei popoli mitici che fece la storia d’Irlanda, quello rimasto più impresso nell’immaginario comune, è quello dei Tuatha dé Danann, il popolo dei figli della dea Danu. Le origini di questo popolo sono diverse, ma secondo una delle numerose leggende essi giunsero in Irlanda dal Mediterraneo orientale. Miti e racconti leggendari possiedono un fondo di verità e gli studiosi hanno individuato una possibile origine meridionale di un popolo che giunse in Irlanda, come narrano le storie contenute nel Libro delle Invasioni. È così, dunque, che venne introdotta la figura della maga celtica che fu tratta dal substrato di credenze mediterranee, e a dimostrarlo sono diverse prove linguistiche e anche alcune usanze rituali del mondo celtico, come quella delle nozze sacre, che veniva praticata in origine presso i Sumeri. Danu, Ana, Anu sono dee celtiche che hanno in comune una connessione con la terra e con i suoi aspetti fertili e materni. In questi nomi di divinità si ritrova anche la sillaba “an” che designava nell’antichità tutte le dee madri legate alle acque: in tutti i nomi di divinità nei quali compare, tale sillaba denota l’essere Madre, offre il principio creativo tipico del femminile. Lo ritroviamo anche nella dea Morrigan della tradizione irlandese, definita la Grande Regina, e così pure in Morgana. Secondo ipotesi accreditate, il culto di Morrigan giunse in Gran Bretagna, dove fu trasformata nella volubile e temibile Morgana.
La radice del nome di queste due affascinanti figure femminili, poi, è da ricercarsi ancora una volta nel Mediterraneo, dove mor– sta per “mare”. Interessante notare a questo proposito come la Morrigan sia spesso legata alla terra nei miti che la riguardano, mentre Morgana abbia un legame particolare con le acque sacre (e marine) che circondano la leggendaria Avalon. In alcuni miti, Morrigan appare come figlia del dio sovrano del mare che aveva la sua dimora nelle isole a Ovest dell’Irlanda, là dove risiedeva pure l’Oltremondo celtico, come abbiamo visto. Ed ecco, quindi, che la connessione tra Morrigan e il mare viene spiegata, laddove era anche la divinità legata indissolubilmente alla morte, tanto che in molti la ricordano per il suo ruolo psicopompo. Di origine mediterranea è pure il seguito di 26 guerriere della dea irlandese, che ricorda le Amazzoni dell’Artemide nostrana.
Morgana fu profonda conoscitrice della magia e nelle vicende che la riguardano si riscontra un tipico sapore mediterraneo. La Morrigan aveva un eroe prediletto, che ostacolava e al contempo proteggeva: il mitico CuChulainn. Questo si trasmise anche a Morgana, sorella del prode Artù, di cui diviene l’amante: questa unione che noi oggi definiremmo incestuosa, per gli antichi aveva significati profondi, che stentiamo a comprendere. La storia delle dee mediterranee è costellata di unioni tra consanguinei, tradizione che si ritrova appunto anche nel ciclo arturiano, oltre che nelle leggende legate alla Morrigan irlandese. Il rapporto tra la dea e il suo paredro stava a rappresentare l’unione massima, il ritrovare l’unicità perfetta tra un maschile e un femminile che si compenetravano e completavano a vicenda.
La figura di Morgana, così come accadde anche con la Morrigan, fu ridimensionata dal patriarcato, per cui oggi ci appare come una miniatura di se stessa e di ciò che doveva apparire alle origini. La troviamo infatti vendicativa, capricciosa, tessitrice di intrighi… tutte caratteristiche aggiunte a posteriori su un quadro potente e meraviglioso, quello che ai primordi rappresentava certamente una dea e una maga fiera, implacabile, sicuramente rappresentante degli aspetti più oscuri della vita, ma mai bellicosa, caratteristica, questa, appartenente alla visione patriarcale della realtà. Morgana era maga prodigiosa, in grado di realizzare ogni cosa volesse, caratteristiche che ereditò dalla Morrigan.
Morgan Le Fay, Frederick Sandys
Circe, Medea, Pasifae, Era, Demetra, Persefone, Ecate, Artemide… e ancora Iside, Bona Dea e Morgana. Da esse e in esse nacque e si sviluppò il culto della mediterranea Potnia Phyton, Signora delle Piante, colei che era dea, maga, sapiente, e conosceva i segreti di erbe, filtri e tinture. L’arte dei pharmaka è sempre appartenuta per natura più alle donne, e dal mondo antico fino a tempi recenti si tramandano storie di maghe belle e terribili che presiedevano – o alle quali erano dedicati – giardini incantati, paradisi di fiori e di frutti sorvegliati da creature divine femminili. Erano per l’appunto luoghi traboccanti di mele, dalla collocazione misteriosa e imprecisata, spesso isole su cui l’eroe giungeva dopo infiniti perigli, oppure circondati da mura che era vietato oltrepassare. Le dee maghe dell’antichità sopravvissero anche in epoca medievale, quando confluirono nelle Dominae Herbarum, guaritrici e levatrici profondamente rispettate dalla comunità, almeno fino a che non giunsero le prime accuse di stregoneria (per approfondire, puoi leggere l’articolo “ Le Dominae Herbarum Guaritrici dei Poveri“).
Il Giardino delle Esperidi, Avalon, MagMell, Tir na nÓg, Aiaia, sono terre mitiche che, oltre a rappresentare un mondo magico spesso connesso con l’oltretomba, possono essere raggiunte dentro di noi, in quello spazio sacro insito in noi e che abbiamo ricevuto per diritto divino. Sono luoghi che ancora ci insegnano a trovare e coltivare il giardino interiore, che altro non è che la nostra parte divina, più vicina di quanto osiamo immaginare. E quella parte sacra, non detiene forse la conoscenza del mondo, dell’umanità e dell’universo intero? Non è forse immortale, a differenza del corpo che abitiamo? Ed ecco tornare a galla la mela, sfera perfetta e metafora del cosmo, sempre accostata alle mani e alle cure femminili, come abbiamo visto.
Dall’antichità e fino ai giorni nostri, la donna è depositaria di arti e conoscenza, maga per natura e grande iniziatrice capace di spalancare le porte dell’invisibile. Non sorprende che la mela fosse associata a lei e alla Grande Madre, visti gli attributi femminili che presenta al suo interno. La vulva che si ritrova tagliandola a metà è l’accesso al mondo terreno e all’utero materno, contiene in sé la vita e la morte, e, dunque, la conoscenza del mondo intero e il segreto dell’immortalità.
Avalon, luogo mitico, isola sacra dedicata ai culti della Grande Dea.... Basta ascoltare il suo nome per aprire l'anima ad altre dimensioni. Condivido di seguito alcuni brani ad essa dedicati:
LE BASI DELLA TRADIZIONE su Avalon "Per molte donne che cercano una casa spirituale, le leggende di Avalon costituiscono un richiamo attraverso i secoli". Un'isola di Misteri Femminili… un santuario dove servire la Dea…un posto sacro dove apprendere e guarire…un luogo dove stare in solitudine…un centro per donne che desiderano trovare il loro potere personale e la loro innata saggezza interiore…queste immagini hanno risuonato nell'anima di innumerevoli donne risultando in una ricerca per le sacre sponde di Avalon, cosa che è servita a spingere ulteriormente fuori dalle nebbie Avalon stessa. Tuttavia in questa ricerca dobbiamo necessariamente confrontarci con una domanda: cos'è Avalon? Si tratta di un'allegoria per esprimere il rinnovato potere delle donne? Un mito la cui leggenda serve ad ispirarci in modo da ricavare saggezza dall'analisi del suo simbolismo? Oppure Avalon è uno dei tanti modi per definire l'Altromondo celtico, dato che esistono molte leggende che la ricollegano alle Isole Fortunate, i cancelli dell'Annwn, e la paradisiaca Isola delle Mele? Può essere, come alcuni hanno proposto, un semplice sogno femminista, una versione romantica di un ideale matriarcale nato dall'esigenza di credere che posti del genere fossero un tempo realmente esistiti? Oppure Avalon era veramente un luogo fisico dove sacerdotesse venivano istruite a tramandare i Misteri e a vivere in un posto di guarigione e crescita interiore? Per la verità non è poi cosi importante. Le varie prospettive e le ricerche accademiche per stabilire se essa sia esistita o meno non sono nulla in paragone al grande proposito di Avalon. Qualunque cosa essa sia stata in passato, oggi serve come risorsa per le donne che ricercano il loro potere interiore. Essa regge le chiavi del potere della saggezza femminile, una volta onorata e ricercata ed ora riemergente nella coscienza di quelle che hanno il coraggio per inseguirla. Essa è un punto focale per tutte le figlie della Madre, un obiettivo , una cornice e una fonte di ispirazione. Avalon è un faro che risplende fuori dalle acque materne, promettendo connessione fra le donne di oggi, continuità della conoscenza dimenticata delle donne di ieri e costanza per quelle di domani. Attraverso le leggende di Avalon, siamo chiamate ad essere donne potenti e autosufficienti, dotate della benedizione della Vista. L'allegoria di Avalon è profonda nella sua semplicità, e il sentiero per raggiungere le sue sponde ben demarcato. Noi siamo chiamate ad attraversare il suo lago – a imbarcarci nel viaggio attraverso l'inconscio – il reame acquatico della memoria e delle emozioni. Da qui dobbiamo aprire le nebbie – sollevando il velo d'illusione che oscura la visione chiara. Questo artificio è la più grande barriera che ci separa dal nostro scopo – raggiungere l'isola di Avalon. L'Isola Sacra rappresenta la nostra vera essenza sacra – l'esistenza paradisiaca del Sé autorealizzato. La Tradizione Avaloniana provvede un sentiero attraverso il quale ogni donna può ricercare, scoprire e riconoscere l' innata Donna Saggia – la Sacerdotessa presente dentro di lei. Gli insegnamenti di Avalon hanno lo scopo di risvegliare il ricercatore attraverso la diretta esperienza dei misteri interni , poiché essi si rivelano solo a coloro che hanno guadagnato il loro dono. Come afferma l'assioma Ermetico: "le labbra della saggezza si aprono a coloro che hanno orecchie per ascoltarla". I misteri si custodiscono da loro. Il sentiero di Avalon è di attiva e dedicata ricerca: noi ne trarremo in base a ciò che vi abbiamo messo. Quando finalmente arriviamo a riconoscere e attuare pienamente la realizzazione del nostro Sé , conosciamo la verità sulla Divinità interiore. Più siamo in grado di manifestare la nostra vera natura, maggiore sarà la nostra abilità di toccare l'essenza della Dea. Più la nostra anima brilla nella sua interezza, maggiormente la Sua luce è riflessa attraverso di noi nel mondo. La più grande sfida per diventare sacerdotessa è riuscire ad essere la miglior donna che possiamo e realizzare il nostro Sé. Quando riusciamo a toccare quella parte di noi stessi che non è limitata dalle paure o resa anemica dalle ferite sanguinanti dell'anima, noi tocchiamo la nostra divinità interiore. Più noi siamo complete e più ricche di potere ci permettiamo di essere, più siamo di esempio alle nostre sorelle che stanno percorrendo il loro viaggio verso la Signora. Sebbene due donne non raggiungano mai il potere alla stessa maniera, ogni donna è in grado di toccare la Dea. Una delle leggende più durature su Avalon è quella che la collega a una meravigliosa Isola di Guarigione. Per le ricercatrici sul sentiero della crescita e dell'evoluzione spirituale, curare le ferite dell'anima è l'ultimo passo per la completezza. La tradizione Avaloniana abbraccia il potere dell'energia femminile – la spirale che procede verso l'interno conducendoci alla Divinità interiore.
Riti e Magia
Le Druidesse celtiche: sagge sacerdotesse dell’antica religione
Ognuno di noi conserva in se un’immagine leggendaria dei druidi. Al ricordo lontano di chi fossero questi vecchi saggi, e di chi e cosa si nascondesse dietro la leggendaria figura di Morgana la domanda è una: chi erano le druidesse?
La parola druido (saggio delle querce) essendo neutra e priva di valenza di genere non ci viene in aiuto. Per ricondurci all’esistenza delle druidesse dobbiamo fare appello alle antiche testimonianze ascrivibili alla tradizione classica e medioevale che raccontano di antiche comunità sacerdotali esclusivamente femminili.
Queste sacerdotesse furono testimoniate anche da diverse iscrizioni rivenute in Francia ad Arles, a Metz, o a Le Prugnon durante gli scavi archeologici. Ciò nonostante in epoca medioevale alcuni studiosi tentarono di metterne in dubbio l’esistenza per negare alle donne un ruolo attivo come guide spirituali.
I druidi e le druidesse non furono solo figure leggendarie. E a discapito di quanto si creda, nel mito irlandese le sacerdotesse celtiche non si limitarono ad essere profetesse e veggenti, ma furono anche donne sagge, guaritrici, poetesse, maghe ed erboriste.
L’esistenza delle Druidesse
The Druidess, Armande Laroche
Che le druidesse esistettero è quasi certo. Ciò che non è chiaro è se fossero delle profetesse, delle sacerdotesse o delle guerriere. Le fonti infatti non aiutano a coglierne pienamente il ruolo che appare alquanto complesso. Inoltre, bisogna considerare che la società celtica tenne sempre nascosti gli ambiti del proprio sapere sacerdotale al popolo greco.
L’assenza di fonti dirette non aiuta a sbrogliare l’enigma e ci porta a pensare che l’iniziazione delle sacerdotesse passasse attraverso lo sviluppo di diverse abilità che affascinarono e suggestionarono i popoli con cui entrarono in contatto.
Le Donne Celtiche
Sebbene la libertà della donna in epoca greca e romana fosse assai limitata non fu lo stesso per i celti. Il ruolo della donna nel popolo celtico era molto diverso nonostante la condivisione di simili origini.
Questa società era infatti di tipo gilanico e manteneva un sistema perfettamente equilibrato tra maschile e femminile, privo di gerarchia centralizzata.
Le donne presso i celti godevano di ampie libertà e assumevano ruoli di grande potere e responsabilità che facevano impallidire gli uomini di quelle società basate sull’asservimento femminile.
Queste notizie ci arrivano dai romani stessi che furono sempre intimoriti da queste temibili figure femminili che ricoprivano ruoli di non poco conto non solo come regine ma anche come indomite guerriere.
Il Ruoli delle Donne Celtiche
Dalle numerose fonti classiche pare che queste sacerdotesse celtiche Brandrui vivessero usualmente in isolette dove risiedevano nelle proprie comunità sacerdotali femminili il cui accesso era vietato agli uomini.
Similmente a quanto raccontato nel ciclo arturiano per l’isola di Avalon, l’isola mitica e invisibile immersa in una fitta nebbia, sono tantissime le testimonianze di questi luoghi dove pare si svolgessero cerimoniali sacri e iniziazioni in onore dell’Antica dea.
Testimonianze di Sacerdotesse
Furono molti gli autori latini e greci come Artemidoro, Strabone, Pomonio Mela, Tacito, Plutarco etc… che testimoniarono di queste isole e comunità.
Strabone, ad esempio, storico greco del I secolo, affermò l’esistenza di un’isola sulla foce della Loira dove risiedeva una comunità esclusivamente femminile appartenente alla tribù dei Namneti. Questo popolo gaelico-celtico è confermato dalla ricerca archeologica. Sempre secondo la fonte, le sacerdotesse di questa comunità si allontanavano dall’isola solo per incontrare i propri mariti.
Ancora, il geografo romano Pomponio Mela (nel De Chorographia) ci racconta di nove vergini sacerdotesse:
Sena, nel mare britannico, di fronte al litorale, presso gli Osismii, è degna di nota per l’oracolo della divinità gallica le cui sacerdotesse, si dice, sono nove vergini perpetue. Esse sono chiamate Gallisenae; pretendono di calmare, con i loro canti e con i loro singolari artifici, i mari in tempesta e i venti e di trasformarsi in qualsivoglia animale. Sanno guarire quello che altri non riescono a guarire e sanno predire il futuro.
Ma queste donne non furono solo sacerdotesse. Si è parlato a lungo infatti del dono profetico delle druidesse, della veggenza e delle loro capacità divinatorie.
Vobisco nella Historia Augusta ci racconta vari episodi e narra come Diocleziano, Alessandro Severo e Aureliano avessero avuto rapporti con alcune druidesse.
Di Aureliano, ad esempio, ci racconta che consultò le druidesse di Gallia per sapere se il grande Impero sarebbe rimasto in mano ai suoi discendenti:
Aureliano un giorno consultò le Druidesse di Gallia per chiedere loro se l’Impero sarebbe restato in mano ai suoi discendenti, ma quelle risposero che nessuno nello Stato avrebbe avuto un nome più eclatante di quello dei discendenti di Claudio.
Di questo dono profetico ne parla anche Lampride quando racconta che mentre Alessandro Severo stava per partire per la sua ultima battaglia, una druidessa gli urlò in gallico ammonendolo:
Puoi continuare il tuo viaggio, ma non sperare nella vittoria, diffida dei tuoi soldati.
Alesandro Severo fu assassinato in seguito proprio dai suoi soldati pretori.
Un’ulteriore testimonianza arriva da Tacito che ci parla della reputazione straordinaria del dono profetico delle druidesse che venivano spesso consultate dai romani. Proprio nelle Historiae (VI,65) ci narra di una völva della tribù dei Bructeri di nome Veleda, un’esperta divinatrice che divinava chiusa in una torre. Secondo Tacito, Velleda:
Esercitava una vasta autorità, secondo un’antica testimonianza germanica per cui s’attribuiscono a molte donne il dono della profezia e qualità divine.
È innegabile il dono profetico delle druidesse e dei druidi che utilizzavano un particolare metodo divinatorio: le rune. La parola Runa significava segreto e il saper interpretare questo linguaggio antico voleva dire essere molto potenti e temibili.
Guerriere
Olga Kurylenko in “Centurion”
Proprio per la condizione gelianica della società celtica, la parità tra l’uomo e la donna poneva queste ultime nell’obbligo di assolvere al compito di andare in battaglia.
Molte di queste guerriere continuarono a combattere anche dopo la conquista dei romani fino a quasi l’anno 1000 come da tradizione. In Irlanda questa pratica obbligatoria venne abolita con l’arrivo del cristianesimo e l’attuazione dell’editto di Tara del VII secolo.
Non è escluso tuttavia che alcune druidesse partecipassero alla battaglia insieme ai druidi con le armi della magia, poiché Tacito ci narra di
donne vestite di scuro che con i capelli lunghi e sciolti al vento agitavano fiaccole.
La fama delle guerriere celtiche passa attraverso la storiografia come racconta Tacito:
Le Donne Celtiche in Battaglia, incitano, urlano e si dimenano, al proprio esercito che si sfalda, denudandosi il petto nudo, rammentando ai propri Uomini, la schiavitù alla quale andrebbero incontro se lasciassero la battaglia.
Anche Plutarco parlando dello scontro di Aquae Sextiae (Aix-en-Provence, 102 a.C) ci lascia una testimonianza di queste guerriere coraggiose che cacciano non solo i romani ma anche i celti vigliacchi:
Nella battaglia, si scorgono Donne Guerriere Celtiche che in mischia tirano fendenti mortali con asce e spade, strappando ai Romani lo scudo a mani nude, respingendo i Carri Romani.
Ovviamente queste donne a cavallo armate e coraggiose alimentarono l’immaginario delle Amazzoni, che si confusero sempre di più con le donne del mito norreno delle Valchirie.
La trasmissione dei druidi e delle druidesse
La storia delle druidesse è in parte legato alla storia della persecuzione femminile che sopraggiunse con l’arrivo del cristianesimo.
Le persecuzioni prima romane e poi cristiane non colpirono solo le druidesse ma anche i druidi. Quando la cristianità si accorse che il culto onorifico dell’antica Dea era ancora vivo, tentò con tutte le sue forze di distruggerlo disperdendo in parte ma non cancellando il sapere di questi antichi saggi.
Si può concludere che come è avvenuto in Sardegna così anche in Irlanda furono mantenuti intatti i tratti pagani. Molte tradizioni e santi assunsero pian piano i connotati e i caratteri degli antichi dei.
Questo suggestivo meccanismo di transfert oggi ci permette di conoscere parte di quelle tradizioni orali e di quei saperi. Una sapienza i cui templi non erano fatti di pietra ma erano i boschi stessi, e dove il Dio e la Dea erano in piedi, uguali, l’uno accanto all’altro. Un equilibrio straordinario dove madreterra stava al centro perfetto, in quell’eterno punto di incontro tra la preda e il suo predatore.
Enrico Garrou
Bibliografia
R. BARJAVEL, Il mago M., L’Orma Editore, Roma 2019.
P. CIAMPI, In compagnia di re Artù. In viaggio per Galles e Cornovaglia con leggende e cavalieri, Mursia, Milano 2019.
H. COOPER (a cura di), Sir Gawain and the Green Knight, OUP, Oxford 2008.
R. DE BORON, F. ZAMBON (a cura di), Il libro del Graal, Adelphi, Milano 2005.
C. DE TROYES, G. AGRATI, M. L. MAGINI, (a cura di), I romanzi francesi, Mondadori, Milano 2017.
C. LAGOMARSINI, Il Graal e i cavalieri della Tavola Rotonda. Guida ai romanzi in prosa del Duecento, Il Mulino, Bologna 2020.
A. LUPACK, The Oxford Guide to Arthurian Literature and Legend, OUP, Oxford 2005.
T. MALORY, Storia di re Artù e dei suoi cavalieri, Mondadori, Milano 2017.
M. ROLLAND, Re Artù, Il Mulino, Bologna 2011.
J. STEINBECK, Le gesta di re Artù e dei suoi nobili cavalieri, Rizzoli, Milano 1980.
https://fiorivivi.com/
Ginevra e Lancillotto, tra leggenda e realtà
By Serena Nencioni
14 Marzo 2021
John William Waterhouse
FONTE
https://enricogarrou.wordpress.com/
Lancillotto e Ginevra: Il simbolo dell’amor cortese
di Sara Maderna|Pubblicato 18/02/2018
Alfred Lord Tennyson, Il sire Lancillotto e la regina Ginevra, frammento
FONTE
https://losbuffo.com/
Le sacre terre delle mele e le sue divine custodi: storie dell’Oltremondo dal Mediterraneo ad Avalon
© Marc Simonetti. Fonte Artstation
Credits:
© testo Melania D’Alessandro per http://www.spondediboscomadre.com
Bibliografia:
Da Circe a Morgana. Scritti di Momolina Marconi, a cura di Anna De Nardis, ed. Venexia.
Le Dee perdute dell’antica Grecia, Charlene Spretnak, ed. Venexia.
The Morrigan. Meeting the Great Queens, Morgan Daimler.
Florario, Alfredo Cattabiani, ed. Mondadori
Avalon Whitin di J. Telyndru
https://www.leviedelladea.it/blog/la-tradizione-avalonian
Le tentazioni di Lancillotto
Profetesse
Angelica Huston in “le nebbie di Avalon”
(di Sara Maderna|Pubblicato 18/02/2018)
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