Tratto dal sito il boschetto di Ylith
Significato del Cerchio
Significato e simbologia del Cerchio
Il Cerchio rappresenta la perfezione, la compiutezza, L'unione, ciò che non ha rottura e cesura. Emblema tradizionale di ciò che non ha inizio né fine, formato da una linea unica le cui estremità si ricongiungono per annullarsi l’una nell'altra.
Il Cerchio: la sostanza primordiale
Questa figura geometrica rappresenta lo stato della sostanza primordiale, impalpabile e trasparente, uniforme e indifferenziata. Infatti il Cerchio sprovvisto di angoli e di spigoli simboleggia l’armonia, che grazie all'assenza di opposizioni, come l’alto e il basso, ecc., traduce l’indifferenziato in un’uguaglianza di principi. È il simbolo dello spirito e dell’immaterialità dell’anima. Il simbolismo del Cerchio è duplice, sia magico sia celeste. Questa figura come cielo rappresenta la dimensione intellettuale e spirituale.
Infatti nella sua opposizione al Quadrato, questa figura geometrica incarna il cielo in rapporto alla terra, a tutto ciò che è materiale. Il Cerchio come cielo è collegato al il ciclo perenne della vita.
Questo concetto è ben espresso dalla circonferenza, figura geometrica nella quale non è dato distinguere il principio dalla fine, simbolo dell’eternità e quindi di perfezione. Il movimento circolare, che è anche quello del cielo, è perfetto, immutabile, senza inizio né fine, né variazione; questo fa si che esso possa rappresentare il tempo, il quale, a sua volta, può essere definito come una successione continua e invariabile di istanti tutti identici gli uni agli altri, e da qui il concetto di ciclicità. La circonferenza determina anche un limite separatore tra la superficie interna definita e quella esterna infinita.
Il simbolismo del Cerchio è strettamente legato a quello del centro, in relazione all'unità primordiale. È il luogo sacro dove si concentrano tutte le energie materiali e spirituali.
Di questa circonferenza, i quattro elementi sono i raggi. Il centro, che è anche punto centrale della croce, è il punto dal quale i raggi si dipartono ma al qual peraltro convergono. È simbolo quindi del Principio da cui tutto trae origine e cui tutto ritorna.
Presso i popoli primitivi la circonferenza con il punto centrale è ancora la raffigurazione del Sole, il cui calore è associato all'amore, e la luce alla bellezza e alla verità.
Il Cerchio, come cerchio magico o sfera, è un tempio ben definito, pur non essendo uno spazio fisico. Il Cerchio magico ha origini antiche. Alcune sue forme erano utilizzate nell'antica magia babilonese.
Anche i maghi cerimoniali del medioevo e del rinascimento li utilizzavano. I Cerchi magici venivano usati dai maghi nelle cerimonie per proteggersi dalle forze evocate.
Nel mondo celtico, il Cerchio ha una funzione e un valore magico. Questa figura geometrica simboleggia dunque un limite magico invalicabile. Per i popoli nomadi il Santuario per la divinità era concepito circolare, come la loro tenda.
Per delimitare il Santuario essi fissavano un bastone nel terreno. Concepivano poi il bastone come asse del mondo.
Ogni punto della superficie terrestre era concepito, quindi, corrispondente a tale asse. Con un filo legato al bastone ruotando formavano il Cerchio, trasfigurazione del cielo e del cosmo.
Non è facile parlare o scrivere di Ecate, tanto è vasto il suo universo.
Ecate la giovane e l’anziana, Ecate l’esploratrice della psiche, Ecate levatrice e accompagnatrice dei morti, Ecate Dea dei crocicchi, Ecate la potente e la saggia, Ecate trivia, Ecate la multiforme.
E così come un frutto maturo, è seguito il nostro lavoro, che culmina con la meditazione per incontrarla.
Abbiamo cercato nell'ambito di questa ricerca di citare ogni suo aspetto, coscienti che questo spazio non può certo esaurire un mito della sua portata. Ma ci è piaciuto dare particolare rilievo alle sue origini da levatrice e alla sua valenza di saggia e anziana*, per dare spazio ad un tema che da tempo desideravamo trattare, l’incontro con la menopausa, l'età del vero potere di ogni donna.
“Celebro Ecate trivia,
amabile protettrice delle strade,
terrestre e marina e celeste,
dal manto color croco,
sepolcrale, baccheggiante con le anime dei morti,
figlia di Crio,
amante della solitudine superba dei cervi,
notturna protettrice dei cani, regina invincibile,
annunciata dal ruggito delle belve,
imbattibile senza cintura,
domatrice di tori,
signora che custodisce le chiavi del cosmo,
frequentatrice dei monti, guida, ninfa,
nutrice dei giovani,
della fanciulla che supplica di assistere ai sacri riti,
benevola verso i suoi devoti sempre con animo gioioso
Esiodo, nella sua Teogonia, dedica ad Ecate quest’inno°, dove Zeus concede alla Dea gloria e potere supremo sulla terra, sugli inferi e sul cielo concedendole, allo stesso tempo, i diritti originari come discendente delle divinità primordiali, fra cui quello di accordare o negare ai mortali ciò che desiderassero:
“che fra tutti Zeus Cronide onorò,
e a lei diede illustri doni,
che potere avesse sulla terra e sul mare infecondo;
anche nel cielo stellato ha una sua parte d’onore
e dagli Dei immortali è sommamente onorata.”
E’ a Lei che Demetra,
nella sua disperata ricerca di Persefone,
si rivolge per avere indicazioni su dove fosse la figlia (2)
“…. Ma nessuno degli immortali o degli uomini mortali
udì la sua voce e nemmeno gli olivi dagli splendidi frutti.
Solo la figlia di Perse, che ha candida mente,
Ecate dal diadema luminoso, nel suo antro,
e il divino Elio, splendido figlio di Iperione,
udivano la fanciulla che invocava il padre Cronide; …….”
“….Ma quando infine giunse per la decima volta la fulgente aurora
le venne incontro Ecate reggendo con la mano una torcia;
e, desiderosa di informarla, le rivolse la parola, e disse:
"Demetra veneranda, apportatrice di messi, dai magnifici doni,
chi fra gli dei celesti o fra gli uomini mortali
ha rapito Persefone, e ha gettato l'angoscia nel tuo cuore?
Infatti, io ho udito le grida ma non ho visto con i miei occhi
chi fosse il rapitore: ti ho detto tutto, in breve e sinceramente".
Così dunque parlò Ecate; e non le rispose
la figlia di Rea dalle belle chiome; invece, rapidamente, con lei
mosse, stringendo nelle mani fiaccole ardenti…..”
Se rare sono le citazioni che la riguardano, tuttavia all'antica e misteriosa Dea era dedicato un
culto molto radicato, che a partire dall'Oriente sopravvisse alla cultura indo-europea e greca, giungendo in alcune varianti fino all'epoca moderna.
Il nome
L'etimologia più diffusa del nome Ecate la fa derivare dall'equivalente femminile di Hekatos, un oscuro epiteto di Apollo (Ecate e Apollo erano spesso abbinati nei luoghi oracolari). E'stato tradotto in vari modi, come "che colpisce, che opera da lontano".
Secondo altri, il nome deriverebbe dal termine greco per "desiderio, volere", in riferimento al suo potere di realizzare i desideri dei mortali.
Per altri ancora il suo nome avrebbe la stessa radice della parola greca “cento”, allude alle molte forme che lei può assumere: Ecate, discendente dei Titani, la “multiforme”.
Fra le dee mediterranee, colpisce la vicinanza del nome Ecate con quello della dea-levatrice egizia Heqit, Heket o Hekat.
L’anziana era la matriarca tribale dell’Egitto pre-dinastico ed era nota come una donna saggia. Heket era una dea dalla testa di rana che era connessa con lo stato embrionale quando il seme morto si decompone e inizia a germinare. Ella era inoltre una delle levatrici che assistono ogni giorno alla nascita del Sole. Tutte queste analogie con Ecate, al di là del nome, farebbero pensare ad un originario archetipo comune.
Da ultimo, sempre in ambito egizio, Heka era il termine per indicare la magia (vi era una dìvinità Heka, spesso rappresentata come una combinazione di molti dei), legata al termine ka, energia vitale, anima o spirito, per cui heka era letteralmente il "rendere attivo il ka".
Le origini
Antica dea legata alla fertilità e al ciclo della vita, Ecate entra quindi nel mondo greco e viene descritta come una dei Titani, sebbene le sue origini fossero antecedenti al pantheon olimpico.
Essendo esistita prima che le tre ondate di Ioni, Achei e Dori invadessero la Grecia, Ecate prese il suo posto tra le altre divinità pre-elleniche comeAfrodite, Artemide, Atena/Metis, Demetra, Persefone, Gaia, Era, Rea, eccetera.
La tradizione più antica la riconosce come una divinità pre-olimpica e ne fa la figlia di Erebo e Notte.
Fino a quando il suo collegamento alla fecondità non venne oscurato, si disse che era la madre di Circe o delle Tre Grazie.
Nella Teogonia di Esiodo si afferma che Ecate era figlia dei due titani Perse ed Asteria, entrambi simboli della luce splendente. Esiodo la descrive come Regina delle Stelle, figlia della vergine madre Asteria (stellata) e destinata ad ereditare il trono di Regina del Cielo.
Asteria era una delle sorelle di Leto, che diede alla luce Apollo e Artemide, facendo dunque di Ecate una cugina di Artemide.
A riprova dell’alta considerazione che i greci avevano per le antiche origini di questa Dea, fu a Lei riconosciuto un potere posseduto da Zeus : quello di concedere o vietare all'umanità la realizzazione dei desideri.
Di fatto la documentazione che la riguarda è alquanto scarsa e nell'ambito della mitologia greca sono poche le interazioni che ebbe con le altre divinità e questo potrebbe avvalorare la tesi circa sue antichissime origini.
Iconografia tradizionale
Le prime rappresentazioni di Ecate sono singole e non triplici(3), mentre fin dai tempi antichi era legata ai crocicchi, ai trivi.
Pausania sosteneva che Ecate fosse stata dipinta per la prima volta nella forma triplice dallo scultore Alcamene durante il periodo greco classico, verso la fine del quinto secolo.
Alcuni ritratti classici, mostrano la dea in forma triplice mentre regge una torcia, una chiave e un serpente.
Altri continuano a rappresentarla in forma singola, spesso nell'atto di reggere una o due torce.
Negli scritti esoterici greci, di derivazione egiziana, con riferimento a Ermete Trismegisto, e nei papiri di magia della Tarda Antichità è descritta come una creatura a tre teste: una di cane, una di serpente e una di cavallo.
Un rilievo in marmo del IV secolo D.C. di Crannone in Tessaglia mostrava Ecate, in compagnia di un cane, mentre posa un serto sul capo di una cavalla.
La cagna è la sua compagna e il suo equivalente animale e una delle forme più usuali di offerte a Ecate, era il lasciare della carne ai crocicchi. A volte gli stessi cani le venivano sacrificati (un giusto accenno alle sue origini non elleniche, dato che i cani, insieme agli asini, raramente venivano tenuti in così alta considerazione negli antichi rituali greci).
Nell'inno orfico citato in apertura ella è detta "senza cintura", dalle vesti sciolte.
Appellativi
Chtonia (Del mondo sotterraneo)
Antaia (Colei che incontra)
Apotropaia (Protettrice)
Enodia (La dea che appare sulla via)
Kourotrophos (Nutrice di fanciulli)
Propulaia/Propylaia (Colei che sta davanti alla porta)
Propolos (Colei che serve)
Phosphoros (Portatrice di luce)
Soteira (Sapiente)
Triodia/Trioditis (Che frequenta i crocicchi)
Klêidouchos (Che porta le chiavi)
Trimorphe (Triplice)
I simboli di Ecate
Ecate custodisce e presiede i crocevia: qualunque incrocio, in particolare quello di incontro di tre vie, è a lei sacro ed un tempo vi erano edificate edicole ed effigi in suo onore.
Molte credenze e rituali di derivazione contadina approdano nella loro fase culminante proprio nei crocevia e ai trivi. Proprio in questi luoghi si portano le offerte in suo onore.
Poste agli incroci di tre strade, le statue di Ecate proteggevano i viandanti, aiutandoli a scegliere il percorso giusto e ad individuare i passaggi meno rischiosi. Ecco perché in alcune rappresentazioni Ecate ha addirittura tre teste, ognuna che guarda in una diversa direzione.
La cristianità ne ha fatto invece territorio diabolico dove vi si seppellivano i suicidi. Il crocicchio è, al contrario, un posto di concentrazione di energie: le strade, i cammini, i destini si incrociano e portano ad una scelta. Ecate è la dea delle scelte e della libertà di scelta.
La torcia è come abbiamo detto uno degli attributi fondamentali di Ecate, luce che illumina le tenebre, sapienza divina, essenza divina di luce. La torcia di Ecate serve a illuminare le anime nel loro passaggio dalla luce all'oscurità, ma anche
ad accendere la scintilla della vita per farla uscire dalle tenebre. La coppia Apollo - Ecate presente in molti luoghi oracolari (es Sibilla Cumana) ci parla anche di due facce della luce di saggezza: quella apollinea della luce diurna e quella interiore
di Ecate notturna.
Il coltello appare in molte rappresentazioni di Ecate, forse associato al suo ruolo di levatrice (per tagliare il cordone ombelicale), ma è associato anche al suo ruolo di accompagnatrice nella morte, dove taglia i legami fra il corpo fisisico e lo spirito.
Quello della chiave è un attributo significativo di Ecate guardiana delle soglie.
Hekate Kleidoukoz (Kleidoukos) è “Colei che tiene la chiave” che controlla il passaggio dal mondo della superficie al mondo ctonio dell'Ade., dal regno del conosciuto a quello dello sconosciuto. Ecate guida di Persefone agli Inferi è anche la custode dei misteri, la sacerdotessa che trasmette i segreti della conoscenza.
Appartenente al mondo animale è il simbolo del serpente, associato all'idea del labirinto.
Il serpente è animale che emerge dal mondo ctonio, associato alla rigenerazione e al rinnovamento per il suo cambiare pelle.
Nel cosi-detto Oracolo caldeo, edito ad Alessandria, la Dea era associata al simbolo noto come ruota di Ecate, con forme serpentine che disegnano una figura labirintica a tre direzioni.
Triplicità, vita morte e rinascita, rinnovamento e altri dei suoi significati sono racchiusi in questo simbolo.
Il cane è invece simbolo dell’Oltretomba, antica guida per i morti.
Le apparizioni o la presenza di Ecate ai crocicchi era manifestata proprio dai latrati lontani dei cani. Numerosi sono i simboli che condivide con la figura di Cerbero, custode dell’Ade.
Altri animali simbolo di Ecate sono i cavalli e i gatti neri.
La civetta è sua messaggera. I suo carro è tirato da dragoni.
Una e trina
Il mito di Ecate ed il simbolismo ad esso associato sono assai complessi.
Essa è contemporaneamente una e trina, in quanto riunisce in sé i tre aspetti, che sono stati visti da alcuni contemporanei come quello di fanciulla, di madre e di anziana* (da cui il nome latino Trivia).
Per gli antichi greci le divinità femminili associate alla Luna erano principalmente tre: Selene (la luna piena), Artemide (la luna nuova) ed Ecate (la luna calante), in seguito riprese dalla civiltà romana, con i nomi di Luna, Diana ed Ecate .
Ella sarebbe la rappresentazione di uno dei tre aspetti della madre terra, Demetra, che annoverava anche la vergine Persefone e la saggia Ecate, lo stadio finale della crescita di ogni donna.
In virtù della sua natura trina, viene vista anche come dea del tempo e del destino, affine alle Parche e alle Moire, per la sua capacità di guardare al passato, al presente e al futuro.
Sempre tre sarebbero i mondi cui appartiene, essendo in grado di attraversare liberamente il mondo degli Inferi, quello degli uomini e quello degli Dei.
Così cita lo scrittore latino Ovidio, nei “Fasti”:
“…le facce di Ecate si volgono verso tre parti / perché guarda i crocicchi che si dividono in tre strade…”
Questo presiedere ai crocicchi formati da tre strade ci ricorda peraltro una realtà fisiologica: è analogo al modo in cui funziona il sistema nervoso umano, per i suoi triplici incroci interni.
Ecate è rappresentata triforme anche perché è la Regina dei Tre Regni, cielo, terra e mare (= l'universo), come si legge negli inni citati nella pagina. Ma c'è di più: Lei è al centro dei tre mondi, il mondo sensibile, il mondo etereo, il mondo intuibile. E ancora, è detta Trioditis o Trivia ed è rappresentata con tre corpi perché tre sono i destini dell'anima umana secondo i Suoi insegnamenti: il Giardino, dove la Dea danza selvaggiamente e si inebria di gioia con i morti meritevoli, la reincarnazione in un essere umano o il Tartaro, il mondo di luce opaca.
I suoi poteri
Come abbiamo visto, già nel nome Ecate è profondamente connessa all'idea di potere, potere magico.
Le ‘parole di potere’ (o incantesimi) sono collegate ad Ecate: il termine egiziano ‘heka’, ciò che rende attivo il ka, indica il dare voce a un intento, in modo che gli effetti si manifestino immediatamente dopo che esso ha lasciato le labbra di chi lo esprime. La magia della volontà, della volontà che si esprime e crea.
Nonostante le sue rare apparizioni nell'ambito dell’Olimpo, Ecate mantenne il dominio su cielo, terra e mondo sotterraneo, nonché il ruolo di custode della ricchezza e delle benedizioni della vita. Come abbiamo visto Zeus stesso non osò destituirla, sebbene il potere di Ecate fosse rimasto grande quanto- se non più- del suo. Anzi la onorò al punto di concederle l’antico potere di donare o negare ai mortali i loro desideri.
Tra i suoi attributi riconosciamo anche l’onniscenza, in quanto conosce passato presente e futuro di ognuno, e in virtù di ciò simboleggia il collegamento fra le vite passate e quelle che dovranno venire.
Viene infatti rappresentata con un libro in una mano ed una torcia nellaltra, a indicarne la profonda conoscenza e saggezza ed il suo ruolo di guida nell'oscurità.
Conseguentemente alla sua associazione con Persefone, e alle sue origini come Heket, la dea levatrice egizia (di cui parleremo più avanti), ella è connessa con il concetto di morte e rigenerazione. E’ suo compito infatti accompagnare le anime nel regno dei morti, ma lei fa anche il percorso inverso, cioè conduce dalla morte alla vita e sin dalla nascita illumina la strada nell'oscurità, dunque rappresenta anche il coraggio di avventurarci dove non conosciamo la strada, il coraggio di andare oltre i nostri limiti.
Ecate, quindi, è il collegamento tra il mondo dei vivi e quello dei morti, che unisce tenebre e luce. Il buio è anche ciò che per noi è ignoto, l’inconscio, quanto nella nostra vita è nascosto ma presente. Ecate è la torcia che fa luce in questo reame sconfinato che spesso neghiamo, o forse non riconosciamo, di avere. La sua funzione è di guida, illuminazione e libertà. In tel senso, è simile a Virgilio: accompagnatrice saggia, ella ha la funzione di indicare le vie dei regni inferi, di illuminarle, lasciando a chi viene da ella accompagnato il suo percorso.
Ecate è anche esperta nelle arti della divinazione. Ella dona agli umani i sogni e visioni che, se interpretati saggiamente, portano a grande chiarezza. Come abbiamo già accennato, era una delle dee legate agli oracoli delle Sibille.
La luna calante
Ecate vista come rappresentante la fase calante della luna, ci reca l'immagine della donna nell'età che coincide con la menopausa e la post-menopausa. Un tempo che contiene in sé la fanciulla e la madre, ma che di esse non conserva più gli obblighi, solo i doni. Contrariamente a quanto si pensa delle donne anziane, questa è una fase della vita in cui vi è saggezza, capacità introspettiva, ma anche indipendenza e potere sessuale e creativo.
L’anziana è l’agente del cambiamento e della trasformazione, poiché l’aver vissuto la pienezza della vita le permette di abbandonarsi all'oscurità e alla trasformazione, accogliendo il mistero della morte.
E’ questa Ecate, o Baba Yaga, o la Nonna Donna Ragno o la Morrigan ed altre ancora, antiche dee
che rappresentano quella fase delle vita in cui è possibile, finalmente libere dai ritmi produttivi della giovinezza, sviluppare il lato magico, lasciando finalmente emergere la sciamana, la donna medicina o la guaritrice di campagna che è presente in ognuna di noi.
La Dea delle ombre
Per il mito, Ecate è parente ed antenata di Circe la quale, a sua volta, lo è di Medea: tre generazioni di maghe che rappresentano gli aspetti ambivalenti del femminino oscuro, dalla conoscenza del mistero della vita alla magia che manipola e costringe, animata dal desiderio di potere e di vendetta.
A conoscenza delle leggi del mondo delle ombre, Ecate, Circe e Medea incarnano anche l’archetipo della Prima Donna, della Grande Dea alla quale ci si rivolgeva con fiducia ma, più spesso, con spavento poiché Ella poteva donare o riprendere la vita.
Ad Ecate “dei tre volti”, dalla chioma serpentina, veniva attribuita di preferenza proprio quest’aura terrificante dagli Gnostici cristiani e dai neoplatonici che la collocavano nel terzo livello della gerarchia demoniaca femminile con ventisette demoni ai suoi ordini, come ventisette sono i giorni del mese lunare.
Dea dei crocevia, Dea “dai molti nomi”, era detentrice di tutti i segni magici.
Ecate triforme veniva onorata con un simulacro formato da tre maschere con riti mensili di purificazione detti “banchetti di Ecate” in cui si servivano simbolicamente carne di cane ed uova: proprio nelle uova, secondo la tradizione, passava ogni impurità che poteva essere eliminata nel ventre di Ecate, quale divinità delle potenze del sottosuolo.
Si narrava che la terribile Dea si aggirasse di notte con i suoi feroci cani portando i viandanti fuori strada dopo incontri impressionanti con demoni che abitavano il cosiddetto “recesso di Ecate”, una profonda concavità della Luna nella quale, secondo Plutarco, le anime pagavano il fio delle loro colpe prima di morire e diventare demoni che, però, non sempre agivano come spiriti maligni potendo anche diventare di valido aiuto per i viventi.
Per Plutarco, Ecate è la Regina dei Demoni e dei Fantasmi, che portava morte, distruzione e terrore.
Ma, come Dea della Notte, possedeva anche il dono della magia, della comprensione e dell’ispirazione inviando “visioni notturne”. Quale Regina degli Inferi, infatti, era la padrona di tutto ciò che vive nelle zone nascoste della psiche e dell’inconscio.
Ecate, che ai tempi di Omero aveva ancora il “diadema luminoso” e la “mente candida” prima di assumere un’aura tenebrosa, era ritenuta in origine, con le sue tre teste di cane, leone e cavallo, simbolo della primitiva tripartizione dell’anno in tre stagioni.
Ket, la levatrice, la Dea rana Heqet o Heket,
Dea egizia levatrice è una delle origini di Ecate.
Heket, dea levatrice tramite il suo totem, la rana, ed Ecate, guardiana del cancello tra la vita e la morte, parlano anche della nostra capacità di cambiare.
Questa figura ci chiama a creare una vita radicalmente nuova a partire dal corpo della vita precedente, si pone al punto di transizione fra uno stato e un altro.
L’egiziana Heket, dea rana, si connette agli elementi primordiali della vita umana: è anfibia, umida, vulnerabile. E’ una creatrice parto-genetica, che sovrintende ai misteri ed ai riti relativi alla nascita, alla morte ed alla rinascita. Dalle sue gambe aperte fluiscono perle di vita.
L'archeologa Marija Gimbutas descrisse, nei suoi studi, le tracce ed i manufatti che indicano una devozione alla dea rana durata circa 10.000 anni: “In lei si incarnavano i poteri della dea della morte e della rigenerazione, essendo le sue funzioni sia di portare alla morte sia di ristabilire la vita”.
Protettrice delle donne, e levatrice alla nascita di tutte le cinque grandi divinità del pantheon di Osiride, Heket sta alla soglia della trasformazione. I cicli di incarnazione e liberazione, la processione delle nascite, delle morti e delle rinascite erano di sua competenza. In numerosi siti archeologici in Grecia, a Roma e nell'Egitto ellenizzato, sono state ritrovate lampade di terracotta dipinte con il sigillo della rana, e portanti l’iscrizione ‘Io sono la resurrezione’.
Amuleti a forma di rana venivano spesso posti sui cadaveri per trasferire ad essi il potere della rinascita. Più tardi, le tombe dei cristiani copti recarono l’incisione di una rana accanto a quella della croce. Connessioni linguistiche collegano Heket all’aspetto della saggezza di dio (Chokmah) nell’albero cabalistico della vita. Gli gnostici in seguito chiamarono questo aspetto ‘Sofia’ o ‘Hagia Sofia’ (hagia = santa, sacra).
Ecate, l'antica Dea e il patriarcato
Prima dell'avvento di Zeus e degli Dei Olimpici, segno del prevalere della società patriarcale-guerriera sul matriarcato, Ecate era considerata una positiva divinità della rigenerazione ma nel tempo, purtroppo, il “comune sentire” ha preferito evidenziare la sua capacità distruttrice piuttosto che la sua forza creatrice.
Ecate era rappresentata allora perlopiù giovane e bella, al pari delle altre Dee.
La triplice Dea dal potere supremo è stata poco a poco confinata nel regno delle ombre e della stregoneria, tramutata in vecchia e venerata quasi esclusivamente dalle temutissime “Streghe tessaliche”.
Per come già prima si è detto, a lei sola, oltre a Zeus, era riconosciuto il potere di concedere o vietare all’umanità l’appagamento dei desideri e di regolare, come Dea-Luna, le nascite di uomini, animali e piante. Un ruolo importantissimo, che però, con il passare del tempo, è stato ridimensionato: un potere così grande sulla Natura detenuto da una divinità femminile rischiava forse di fare troppa ombra ad un patriarcato ormai imperante sia nella società umana che, come riflesso, sull'Olimpo?
Tale processo storico, cominciato nell'antica Grecia, continuato a Roma e poi perfezionato con il Cristianesimo istituzionalizzato, ha voluto trasformare la primordiale Dea-donna in un’entità infernale. Ormai la Dea dall'aspetto più misterioso della Luna, quella velata che si cela per morire e poi rinascere alla luce, era diventata, nell'immaginario collettivo, la Regina delle Streghe, colei che preparava filtri letali in quel paiolo di rame che, in realtà, è la lontana memoria dell’arcaico recipiente materno della fecondità e della rinascita. La Luna Vegliarda, simboleggiata dalla saggia e potente Ecate, è stata tramutata in una vecchia strega vestita di nero, con un nero cappellaccio, emblema del suo aspetto notturno e tenebroso, ed a cavallo d’una scopa.
Scrive Maria di Rienzo: "A livello simbolico si può dire che la corrente del fiume la trascinò ancor più lontana da ciò che era stata. Dei tre regni, le fu lasciato il mondo sotterraneo, dove divenne l’oscura e supremamente malevola signora della notte. Svilita e maledetta, accompagnata solo da gufi e cani neri, ispiratrice di ogni malvagità e blasfemia. I funzionari dell’Inquisizione la menzionavano ai torturati come appartenente alle legioni del Male
La storia di Ecate ci dice qualcosa sullo sviluppo della nostra storia collettiva come esseri umani, qualcosa di amaro e di troppo frequente. Forse dovremmo imparare di nuovo a conoscerla, questa iniziatrice e levatrice che si situa agli incroci dell’anima.
Se tento di rappresentarla alla mia mente, vedo una donna che mi fa cenno di andare verso di lei. Mi incita a mietere l’intero raccolto che posso avere da me stessa, ad andare oltre ciò che percepisco come confine e che in realtà è la parete di una gabbia che io stessa ho contribuito a costruire.
Mi domanda di riconoscere il primordiale e l’evoluto, l’inizio e la fine, la luce ed il buio, e di metterli in relazione. Mi chiede di guarire, e di diventare intera. Mi pone di fronte alla mia umana ed innata capacità di trasformazione. Mi ricorda che posso evocare i poteri della creazione, che giacciono intatti in me, con la parola: hekau.
E’ tempo di salpare su un nuovo vascello, dice Ecate agli esseri umani. E’ tempo di uscire dalla crisalide e di entrare in una nuova intimità, una nuova vulnerabilità. Aprirsi, apprendere, andare. Metamorfosi. Non c’è d’aver paura: Ecate è una levatrice, e desidera solo aiutarci a nascere."(6)
Ecate, le streghe e la Befana
A proposito della scopa, ricordiamo che Ecate è la dea del pioppo nero e del salice: nel Nord Europa il legame del salice con le streghe è così stretto che la parola witch (“strega”) deriva dallo stesso nome che anticamente designava il salice, da cui deriva anche wicker (“vimine”), ed infatti tradizionalmente la scopa delle streghe inglesi è fatta ancor oggi con legacci di vimine in onore a Ecate.
La grande Madre Lunare mediterranea, che per i Celti era la Matres Trivia, è diventata dunque una temibile megera, la vecchia “Nonna del Diavolo”, quella stessa che nella tradizione popolare germanica d’origine celtica assume diversi nomi: la “Nonna”, cioè Grossmütter per contrazione verbale di Grosse Mütter (“Grande Madre”); o, nella Germania del Nord, la Frau Holde, una brutta strega cattiva che, nelle notti fra il Natale e l’Epifania, vaga con una frotta di demoni disturbatori; o, invece, nella Germania del Sud, Frau Bertha (da berth, “chiaro, lucente”), un’anziana donna portatrice di doni nella notte dell’Epifania. La Regina delle Streghe e la Ecate bonaria che, nella Teogonia di Esiodo, “…largo favore ed aiuto concede a chi essa vuole … nutrice di giovani a lei fedeli…”, si sono unite per creare, oltre che la Frau Bertha germanica, la popolare Befana, dispensatrice di regali per i bimbi buoni (i “giovani a lei fedeli”) volando su di una scopa nella notte dell’Epifania.
I Riti in onore di Ecate
Nell'antica Grecia, le feste più importanti in onore di Ecate si svolgevano il 13 agosto e il 30 novembre - nel tempo dell'estate e nel tempo dell'inverno che giunge - probabilmente nel cuore della notte, in genere presso uno di quei crocicchi da Lei presieduti. Si accendevano fuochi e si celebrava la Dea con un banchetto. Anche il 16 novembre era a lei dedicato: in quell'occasione si portavano offerte di cibo ai crocicchi.
Altri momenti sacri a Ecate erano le notti di luna nuova.
Ecate ci accompagna in molti passaggi della vita, ma la sua valenza di guida nei regni oscuri e di levatrice di una nuova nascita si presta in particolare per noi donne di oggi a diventare un riferimento nel tempo importantissimo della menopausa.
Al menarca la donna entra nel proprio potere,
con le mestruazioni pratica il proprio potere,
in menopausa diventa il proprio potere.
detto dei Nativi Americani
Il passaggio alla menopausa, come tutti i passaggi della vita, ci impegna in una rinascita che attraversa la morte e il lutto, portandoci nel suo viaggio in quella zona liminale dove Ecate regna e illumina: il tempo intermedio, ciò che non è più e non è ancora.
Potete scegliere se celebrare il rito in questo tempo di mezzo, quando abitiamo la zona della soglia, oppure a menopausa ormai giunta, a sancire un passaggio avvenuto e un nuovo tempo, una nuova vita iniziata.
Ad Ecate nel primo caso possiamo chiedere di essere guida per noi nella trasformazione, per giungere a condensare il nostro potere, per cristallizzare quanto abbiamo appreso, per essere consapevoli degli ultimi cicli, prendendo via via congedo dagli aspetti di noi che in essi vivevano. Possiamo chiederle di accompagnarci nella dimora della nostra profonda interiorità e guidarci verso quell'equilibrio nel nostro centro in cui poter trascorrere tempi sempre più lunghi.
In questo tempo in cui le fluttuazioni sembrano talvolta amplificarsi, possiamo chiedere ad Ecate di illuminarci le vie degli incroci di energie che ci attraversano, aiutandoci a leggere il nuovo e il vecchio che si incontrano in noi e a riconoscere gli aspetti del nostro potere che si muove. Potrebbe essere un rito personale, da ripetere ogni lunazione, in cui prevedere un tempo per ciò che stiamo lasciando, per il dolore che accompagna il lutto, e un tempo di meditazione, di centratura e ascolto interiore sotto l'egida di Ecate.
Nel secondo caso, con Ecate possiamo riconoscere il percorso fatto, onorare la saggezza acquisita, festeggiare il 'passaggio di grado', il nostro nuovo ruolo di riferimento, di fonte di saggezza per il mondo. E possiamo celebrare una nuova 'leggerezza' (avete notato come gli anziani si fanno sempre più leggeri, anche nel corpo?), una fase in cui alcune responsabilità scivolano via dalla nostra vita, il nostro impegno nel mondo forse può diminuire, lasciandoci infine tempo per dedicarci ai nostri autentici interessi. Per questo rito è adatto un momento di festa, magari un banchetto, circondate da amiche coetanee che possano condividerne il senso e, se lo desiderate, anche da donne di altre età, testimoni del vostro momento. Anche in questo caso, un momento per sancire ciò che non è più, è essenziale perché il passaggio sia completo. Potete scegliere la modalità che preferite per "seppellire" quanto non vi appartiene più.
In entrambi i casi, è un rito da preparare con calma e raccoglimento interiore, scegliendo luogo e tempi seguendo la vostra interiorità, senza chiedere consiglio esterno, semplicemente comunicando a chi vorrete con voi le vostre scelte quando sentirete che si sono stabilizzate. Questo è anche il motivo per cui le indicazioni su questi rituali sono volutamente aperte e non offriamo indicazioni pratiche e specifiche per i riti, come invece facciamo per altre Dee nel sito. La menopausa è più che mai per una donna il tempo della sacerdotessa, di colei che crea il rito.
Ed Ecate dea lunare ci ricorda anche che il tempo della menopausa non è un tempo letteralmente 'fermo e stabile'. Se la nostra oscillazione personale, il nostro ciclo mestruale è finito, ciò ci porta maggiormente in contatto con cicli più ampi, quello della luna, delle stagioni, del mondo e degli altri. Ci apriamo a un'appartenenza più vasta, possiamo diventare più sensibili al respiro della terra, alle fasi lunari, all'oceano di energia in cui tutta la vita, interconnessa, comunica. Non sarà un tempo privo di oscillazioni, certo che no. La vita è ciclo, oscillazione, per sua natura.
E per qualcuna sarà un tempo di ritiro, di distacco dal mondo, di spazio dedicato allo spirito, per qualcun'altra al contario un tempo di impegno attivo per il mondo, di azione per quelle cause che appartengono all'umanità intera, o per la trasmissione della conoscenza.
Solo sarà diverso il modo con cui vivremo tutto ciò, se sapremo essere le regine del mondo spirituale, dimoranti nel centro della nostra interiorità, se sapremo cogliere i doni che il nuovo tempo ci offre.
Meditazione Guidata per EcateIn ogni tempo di passaggio della vita, come nei momenti in cui sentiamo il bisogno di conoscere meglio il nostro potere interiore, può essere importante incontrare le energie di Ecate.
Testo e ricerca de Il Cerchio della Luna, ottobre 2009.
A cura di: Cinzia de Bartolo, Manuela Caregnato, Anna Pirera.
Alcuni brani del testo sono interamente tratti dalle principali fonti italiane online sulla Dea, citate qui di seguito in bibliografia.
Bibliografia
Per un panorama accurato di Ecate antica, vi invitiamo a visitare gli articoli del completissimo sito in inglese:
http://www.theoi.com/Khthonios/Hekate.html
Molto completo è anche:
http://www.romanoimpero.com/2010/02/culto-di-ecate.html
Siti e testi:
Ecate, di Maria G. di Rienzo nel sito www.l’universitàdelledonne.it
Atlante dei miti, edizioni Demetra
M. Montesano, Le streghe, Atlanti Universali Giunti
Le immagini sono tratte, cone di consueto, dalla rete.
La figura in apertura è di Susan Seddon.
Note
L'attributo di 'vecchia' per Ecate, è in verità assai recente. La ragione in genere citata' è perché rappresenterebbe la terza età della donna (nel costrutto triplice Dea, che è un'invenzione novecentesca, vedi: Chi ha inventato la triplice Dea?) oppure la terza fase della luna, quella vecchia. Ma le statue antiche di Ecate trina mostrano tre corpi di fanciulle, non una fanciulla, una madre e una anziana.
I testi antichi sono chiarissimi: Hecate è una fanciulla. Può essere terribile e tenebrosa, ma è sempre bellissima, eranné, incantevole, come la definisce il Cantore. Non esiste una sola immagine o riga prima di Crowley che rappresenti Ecate come una 'vecchia'.
Inoltre, Ella stessa si descrive anche fisicamente nei Suoi oracoli:
"Sia lode alla Fanciulla dai capelli lucenti, Detentrice della Chiave di infiniti mondi, Creatrice della vita in forma di elica, Sorgente delle Tre Virtù, la Bella".
da Inni Orfici, ed. Lorenzo Valla trad. Gabriella Ricciardelli.
Inno a Ecate:
Foibe l'amabile talamo ascese di Coio, concepì e poi, dea per l'amore di un dio, partorì Leto dal peplo azzurro, la sempre dolce, benigna agli uomini e agli dèi immortali lei mite fin dall'inizio, la più clemente dentro l'Olimpo.
Generò Asteria famosa, che Perse una volta condusse nella sua grande casa perché fosse chiamata sua sposa.
Costei concepì e generò Ecate, che fra tutti
Zeus Cronide onorò, e a lei diede illustri doni, che potere avesse sulla terra e sul mare infecondo;
anche nel cielo stellato ha una parte d'onore e dagli dèi immortali è sommamente onorata.
E infatti anche ora, quando qualcuno degli uomini che abitano la terra fa sacrifici secondo le leggi e implora la grazia, invoca Ecate e grande favore lo segue;facilmente, a lui benevola, la dea accoglie le preghiere, a lui la ricchezza concede, perché di ciò pure ha potere.
Quanti infatti da Gaia e da Urano nacquero e ricevettero onore, partecipa dei privilegi di tutti costoro;
lei nemmeno il Cronide d'alcuna cosa privò con violenza di quelle che aveva ottenuto fra i Titani, i primi dèi, bensì la possiede, come dapprima all'inizio fu la spartizione; né, perché unigenita, la dea ricevette onori minori, e ha potere in terra e nel cielo e nel mare, molto di più, perché Zeus le fa onore.
A chi essa vuole largo favore e aiuto concede; e nel tribunale essa siede presso i re rispettati e nell’assemblea tra le genti fa brillare colui che lei vuole; o quando alla guerra assassina si armano i guerrieri, la dea assiste colui che lei vuole ornare, benigna, della vittoria, e offrirgli la fama; benigna assiste anche i cavalieri, quelli che vuole; benigna anche quando gli uomini lottano in gara:
là la dea li assiste e soccorre; e chi con forza e vigore consegue vittoria, bello il premio coglie felice e i genitori orna di gloria. E a coloro che l’azzurro tempestoso con fatica lavorano e pregano Ecate e il profondo tonante Ennosigeo, facilmente una preda la nobile dea fornisce copiosa, ma facilmente anche se la porta via, non appena essa appare, se così vuole il suo cuore.
E con Ermes benigna nelle stalle le greggi fa crescere, le schiere dei buoi e i branchi grandi di capre e i branchi di lanose pecore, se così vuole il suo cuore, da piccoli li fa grandi e da molti li riduce a pochi.
Così, per quanto sia nata unigenita da sua madre, fra tutti gli immortali è onorata di doni; costei fece il Cronide nutrice di giovani, quanti a lei fedeli videro con occhi la luce dell’aurora onniveggente. Così fu, fin dall’inizio, nutrice di giovani e questi i suoi onori.
Esiodo, Teogonia, 404-452
Traduzione di Graziano Arrighetti
“La seconda apparizione di Ecate nella letteratura greca è l’omerico Inno a Demetra, sulla cui autenticità gli studiosi non sono del tutto concordi, considerandolo per la maggior parte un’interpolazione successiva. In ogni caso, il brano va certamente interpretato come la prima esplicita allusione alla dea nel suo ruolo di guida nei luoghi e nei momenti di passaggio o transizione. Infatti abbiamo il racconto del ratto di Persefone da parte di Hades, a cui Ecate assiste come testimone, assieme al dio Helios. Successivamente diviene una sorta di messaggera per Demetra, per rientrare in scena immediatamente dopo il ritorno di Persefone sulla terra. Da quel momento, come recita l’inno, “la regina Ecate divenne colei che precedeva, seguiva Persefone”: pertanto, è sia una guida che una protettrice. Il testo lascia sottintendere, quindi, che Ecate accompagni fisicamente Persefone nel suo itinerario di discesa agli inferi e in quello della successiva ascesa in terra. Dal momento del ratto, il viaggio si ripeterà ogni anno, e per ogni anno Ecate farà da scorta alla figlia di Proserpina. In tal modo, essa acquisisce una nuova caratterizzazione e il ruolo più ampio e generalizzato di traghettatrice delle anime dei defunti”.
Lewis Richard Farnell sostiene che “La testimonianza lasciata dai monumenti sulle caratteristiche e il significato di Ecate è altrettanto ricca di quella trasmessa dalla letteratura, ma solo nel periodo più tardo essi esprimono la sua natura molteplice e mistica. Prima del quinto secolo è quasi certo che fosse spesso rappresentata come una singola forma, come ogni altra divinità, ed è così che la immaginò Esiodo, perché nulla nei suoi versi allude a una divinità dalla triplice forma.
Il monumento più antico è una piccola terracotta trovata ad Atene, con una dedica a Ecate, in una scrittura tipica del sesto secolo. La dea è seduta su un trono e ha una corona attorno alla testa; non ha nessun tratto o caratteristica distintivi e l'unico valore dell'opera, che è chiaramente di un tipo comune ed è degna di menzione solo per l'iscrizione, è che prova come la forma singola fosse quella originale e che ad Atene era conosciuta prima dell'invasione persiana.
Divinità infernale,o celestiale?
In queste pagine si cercherà di analizzare secondo una prospettiva simbolica la figura della dea Ecate, tentando di riabilitarne l’immagine, spesso relegata erroneamente al solo dominio infernale. È pertanto necessaria una preliminare, anche se sommaria, descrizione iconografica di questa divinità. Ecate viene quasi sempre rappresentata in forma triplice, tanto che l’appellativo che più spesso accompagna il suo nome è quello di Triformis. Questo triplice aspetto la caratterizza come nume tutelare dei crocevia, ossia dei punti d’incrocio di tre strade dirette in opposti versi. La formazione triadica è tipica del mondo ideale dell’antichità e spesso si applica alle divinità femminili potenti. Essa si associa all’idea del ciclo e dell’evoluzione – sia in termini temporali, come passato-presente-futuro (si pensi, infatti, che anticamente la divisione del mense era tripartita, e le tre fasi lunari del mese erano proprio rappresentati dalla Ecate lunare) che di evoluzione coscienziale, come cammino dallo stadio caotico-uroborico a quello celeste. Ecate, pertanto, può assumere sia il volto di una fanciulla, che quello di donna e di vecchia, oppure, arricchita di attributi simbolici ulteriori, essa appare spesso in forma ferina: con le sembianze di cane, serpente, cavallo o leone, a seconda delle tradizioni. La sua iconografia si completa di altre variabili: in mano può portare delle torce accese, un ramoscello d’ulivo, una chiave o la cosiddetta “trottola magica”. Ai piedi calza dei sandali dorati. Nella sua forma celeste indossa delle vesti bianche, mentre l’aspetto infernale è caratterizzato da un abbigliamento di colore nero. Spesso è accompagnata de un segugio o da una schiera di cani ululanti.
origini e fonti testuali
Ecate potrebbe essere fatta derivare dalla divinità egiziana Heket, che a sua volta si è evoluta in Heq, matriarca dell’Egitto predinastico. In Grecia, essa era una divinità pre-olimpica, poi assorbita dal pantheon ellenico. Dalla Teogonia di Esiodo (411-413) sappiamo che la sua genealogia deriva dai Titani Phoibe e Koios, i quali ebbero due figlie: Leto, madre di Apollo ed Artemis, e Asteria, la quale dall’unione con Perses, diede alla luce Hecate:
Una tradizione più tarda la fa figlia di Zeus ed Era, riducendo la sua sfera d’azione al mondo ctonio.
Tuttavia, le sue origini sono incerte: la maggioranza degli studiosi è concorde nell’affermare che questa figura nasca nell’Asia Minore occidentale e precisamente nella regione della Caria. Dalle scarse testimonianze in nostro possesso, possiamo arguire che si trattasse di una divinità connessa ai passaggi attraverso zone liminali: per questo motivo Thomas Kraus, in una monografia dedicata alla dea, la associa ad Apollo che, nella mitologia greca, con l’epiteto di Agyieus, aveva un’analoga funzione di guardiano delle porte e delle strade. Molti studiosi, invece, la assimilano alla Grande Madre anatolica: sebbene probabilmente ci sia una certa dose di verità in quest’ipotesi, essa non ha molta rilevanza ai fini delle origini di Ecate stessa, dal momento che virtualmente, tutte le divinità femminili – e in particolar modo quelle orientali – sono legate alla figura della Grande Madre.
La prima testimonianza letteraria in cui Ecate fa la sua comparsa da protagonista è la Teogonia di Esiodo (vv. 411-452): si tratta del noto inno a lei dedicato, la cui interpretazione da parte degli studiosi ha generato nel tempo numerose controversie nel tentativo di spiegare l’esaltazione della dea al di sopra di qualsiasi altra divinità, Zeus compreso, il quale “la favorì più di tutti gli altri dei”. La giustificazione – come suggerisce J.S. Clay nel suo saggio The Ekate of the Teogony– risiede nel suo peculiare carattere di intermediaria fra gli esseri immortali e quelli terrestri: un aspetto che la rende virtualmente partecipe – o meglio fautrice – di qualsiasi rapporto o connessione fra umano e divino. Inoltre, Ecate appartiene alla schiera di divinità femminili panelleniche cui è stato attribuito l’epiteto culturale di megas, “grandi”: Artemis, Aphrodite, Demeter-Kore, Nemesis, Nike e Tyche.
La seconda apparizione di Ecate nella letteratura greca è l’omerico Inno di Demetra, sulla cui autenticità gli studiosi non sono del tutto concordi, considerandolo per la maggior parte un’interpolazione successiva. In ogni caso, il brano va certamente interpretato come la prima esplicita allusione alla dea nel suo ruolo di guida nei luoghi e nei momenti di passaggio o transizione. In 1.24 abbiamo infatti il racconto del ratto di Persefone da parte di Hades, a cui Ecate assiste come testimone, assieme al dio Helios. Successivamente, in II. 51-59, diviene una sorta di messaggera per Demetra, per rientrare in scena in I. 438, immediatamente dopo il ritorno di Persefone sulla terra. Da quel momento, come recita l’inno,
la regina Ecate divenne colei che precedeva (propoloz) e seguiva (opawn) Persefone
Pertanto, è sia una guida che una protettrice. Il testo lascia sottintendere, quindi, che Ecate accompagni fisicamentePersefone nel suo itinerario di discesa agli inferi e in quello della successiva ascesa in terra. Dal momento del ratto, il viaggio si ripeterà ogni anno, e per ogni anno Ecate farà da scorta alla figlia di Proserpina. In tal modo, essa acquisisce una nuova caratterizzazione e il ruolo più ampio e generalizzato di traghettatrice delle anime dei defunti.
Ecate appartiene anche ai testi di Sofocle, dove viene menzionata con l’epiteto di Enodia, appellativo applicato anche ad altre divinità che svolgono la medesima funzione protettiva delle aree liminali (porte e crocicchi), come ad esempio Hermes. Nella Teogonia esiodea, in XXV.4. Ecate Enodia è quindi la figura numinosa e tutelare delle strade, in particolare nei punti dove esse si incrociano. A Roma sarà Trivia: come suggerisce l’etimo del termine, essa prende nome e forma proprio da questa sua connessione con il trivium stesso, la zona di incontro di tre vie. Pertanto, essa deriverà l’appellativo e la caratterizzazione di triforme, che la rappresenterà, nell’iconografia tradizionale, come figura luminosa dal triplice aspetto e dal triplice volto: umano nella sua forma terrestre, equino nella sua veste lunare e canino nel suo habitus infernale. Nei paragrafi successivi, si analizzerà nel dettaglio il ruolo simbolico del tre e i differenti aspetti che questa triplicità fa assumere alla divinità in questione. Qui basti fare ancora un breve accenno alla sua connessione con un’altra divinità collegata alle zone liminali, ossia quella di Giano, rappresentato tradizionalmente come bifronte.
Giano viene menzionato assieme ad Ecate nel sesto inno di Proclo, in cui il poeta invoca le due divinità a soccorso e a protezione del proprio cammino esistenziale, proprio in qualità di custodi delle porte, quindi – simbolicamente – delle regioni e dei momenti iniziatici della vita. Ecate qui viene appellata come proquraia, “custode delle porte”, appunto.
Ancora in relazione a Giano viene citata da Arnobio nel suo Adversus Nationes, in 3.29 (fine del III sec. d.C.), dove si elabora una genealogia in cui il nume bifronte risulta essere figlio di Ecate e del Cielo.
Inoltre, le due divinità sono accomunate dal medesimo appellativo di amfiprwspoz, “dalla doppia faccia”, epiteto che esprime la facoltà di guardare in due direzioni, applicato in Procload Ecate e in Plutarco a Giano. L’aggettivo può riferirsi anche all’abilità di interagire con due differenti realtà: caratteristica peculiare della Ecate esaltata nel sistema caldaico, di cui si parlerà più avanti. Si noti bene che nei testi appena citati si parla di una Ecate bipartita e non tripartita, così come viene tradizionalmente descritta. Forse ciò si deve ancora al fatto che, nel sistema caldaico la funzione principale di Ecate era proprio quella della mediazione tra i due regni intelleggibile e sensibile, tra i quali essa si pone come anima cosmica.
Altri documenti letterari a testimonianza del ruolo apotropaico assunto da Ecate in epoca ellenistica si ritrovano in Eschilo e Aristofane: in entrambi i casi, la dea viene menzionata come nume tutelare di porte e accessi, con l’epiteto di Propylaia: pare che le fosse consacrato un culto sull’Acropoli di Atene e in particolare al suo ingresso, i Propilei appunto, dov’era collocata a protezione della rocca una statua della dea.
Anche Pausania fa cenno a questa tradizione, citando una Hekate epipurgdia, la cui rappresentazione nel suo aspetto triforme veniva venerata sull’Acropoli accanto al tempio di Nike. Con ogni probabilità si tratta della stessa Ekate Propulaiacitata da Eschilo. Ecate assume il ruolo di guida e di protettrice dei passaggi non solo fisici ma anche temporali. È così che essa diviene anche la divinità che presiede alla nascita e alla morte venendo invocata – non a caso – in momenti astrologici di particolare pregnanza simbolica, come ad esempio il plenilunio. In questa circostanza – come testimonia lo scoliasta di Aristotele Apollodoro (III sec. d.C.) – ad Ecate venivano offerti dei banchetti rituali, denominati hekataia. In particolare, qui si menziona il sacrificio rituale del pesce triglh, sacro alla dea. Anche Plutarco fa cenno a questi sacri convivi.
In Senocrate troviamo per la prima volta il nome di Ecate in esplicita associazione alla Luna, in relazione alla teoria platonica secondo cui l’astro notturno avrebbe una funzione di intermediazione tra il mondo sensibile e quello intelleggibile. La sua natura di tramite è collocata da Senocrate all’interno di un sistema tripartito, dove il sole e le stelle occupano la parte, per così dire superiore (o la prima pukna, come lui stesso la definisce), la terra e le acque quella inferiore e la luna quella mediana. Questa concezione rimanda anche alla teoria medica di Ippocrate, che assimila la Luna al diaframma, ossia alla zona mediana del corpo umano. Ma la luna non è solamente un’intermediaria, essa segna e definisce un limite tra due zone ben distinte; anzi è di per sé stessa un limite, un confine tra quei due mondi.
È proprio in questi termini che ne parla Plutarco, descrivendola come una barriera che divide il mondo fisico da quello spirituale. Inoltre, essa viene descritta come l’agente di una mediazione – e pertanto di una trasmissione – del principio vitale stesso. Ciò non è in contrasto con la natura bisessuata di Ecate, che possiede in sé entrambi i principi della generazione, il maschile e il femminile.
Già Porfirio ed Eusebio stesso si erano riferiti ad Ecate chiamandola “Luna”; lo stesso accade nei papiri magici, dove il nome della dea diviene intercambiabile con quello di Selene. Precedentemente, la stessa assimilazione con la Luna era spettata ad Artemide, divinità con cui Ecate verrà a sua volta identificata e di conseguenza confusa.
Già con gli Stoici (II sec. a.C.) si tenta di tracciare un parallelo tra Apollo/Sole e la sue sorella gemella Artemide, che diviene transitivamente, “Luna”. Dai tempi di Plutarco, l’associazione di Artemide con la luna è ormai un topos.
Eccomi, una vergine con varie forme, che vaga nei cieli.
Un frammento di Porfirio ci presenta un vero e proprio ritratto di Ecate, nel suo aspetto sincretico: la divinità viene qui descritta in alcuni suoi attributi come Selene, come Eleithya e come Artemide:
Con volto di cane, tre teste, inesorabile, con dardi dorati…
Altre prove della corrispondenza tra Ecate e la Luna si ritrovano in Seneca e nel già citato Plutarco.
Entrambi gli autori erano fortemente influenzati dalle correnti mistico-filosofiche che si andavano diffondendo con sempre maggior forza già dal primo secolo d.C. Queste fonti attribuivano alla luna una funzione e una natura intermediaria, oltre che di guida delle anime dei defunti – meglio chiamate daemones – sul limite che separa le sfere terrestri da quelle celestiali. Un ruolo, questo, analogo a quello attribuito ad Ecate e pertanto funzionale all’identificazione delle due entità.
Ecate assolve, quindi, a una funzione escatologica, ossia di salvazione. La salvazione consiste, in questo caso, proprio con il passaggio, e quindi con l’evoluzione e il perfezionamento dell’anima. Tale escatologica di Ecate – mediata dalle teorie mistico filosofiche del medio platonismo – si inserisce all’interno di un sistema cosmologico che Senocrate descrive come una struttura triangolare in cui i demoni e la Luna partecipano sia della natura terrena che di quella ultraterrena. Nell’antichità post-classica, questo carattere di compartecipazione alla natura celeste e terrestre viene trasferita ad Ecate che diviene, di conseguenza, la patrona dei demoni, tanto da essere spesso definita la loro “regina”, a differenza di quanto accadeva invece in epoca classica, quando essa era piuttosto la dominatrice dei fantasmi. Allora si credeva che queste creature, non ben identificate né definibili proprio per la loro condizione di fatale ed eterna transitorietà, vagassero senza posa come anime in pena in una sorta di Limbo, dopo una morte prematura o violenta. Si credeva inoltre che queste infestassero quei sepolcri e crocicchi che come si diceva erano consacrati ed Ecate ed erano il teatro delle sue invocazioni. Questi esseri senza pace assunsero una connotazione decisamente negativa e terrifica che, come vedremo, si mitigherà solo successivamente grazie all’influsso delle teorie medio platoniche che vedevano i daemones semplicemente come un medium tra il regno umano e quello superno. Il senso di orrore che circondava nella classicità queste figure spettrali venne quindi a caratterizzare quello della loro domina.
Si accennava poc’anzi alle teorie medio platoniche che riabilitarono il ruolo dei demoni e, di conseguenza, anche quello di Ecate loro regina. Appartengono a questa corrente gli Oracula Chaldaica, formulazioni di tipo profetico composte nell’epoca del secondo ellenismo, in cui compare di sovente il nome di Ecate in associazione al già citato ruolo di guida attraverso le zone liminali. Ma non solo: alla dea viene attribuita anche una funzione cosmologica, ossia quella di intermediaria delle idee e per ciò stesso di strutturatrice del mondo fisico. Nel tardo pensiero mistico-filosofico diverrà molto diffuso e popolare il concetto di triadizione di entità e sostanze. Nel sistema caldaico la triade cosmologica è formata da un cosiddetto “Primo Intelletto”, fautore delle Idee, un “Secondo Intelletto” che le fenomenizza portandole alla sostanza (entità, quest’ultima, identificabile con il Demiurgo del Timeo platonico a cui la corrente caldaica si rifà in larga misura) e un’entità mediana (assimilabile all’Anima Cosmica) che ha la funzione di trasmettere e trasportare queste idee dal mondo spirituale a quello fisico. Ecate è assimilabile a quest’Anima Cosmica. In particolare, una delle funzioni della triade caldaica è quella della misurazione, ossia della divisione della sostanza fisica in proporzioni significanti: dall’idea si passa alla materia, dal caos primordiale a una strutturazione armonica. In sostanza, Ecate è l’entità mediana e il tramite tra questi due estremi, oltre ad essere in un certo senso anch’essa creatrice, o meglio “madre” delle anime individuali. Infatti, uno degli attributi ecatei più spesso citati negli oracoli caldaici, è proprio il suo “ventre” (colpoi), rappresentazione simbolica dell’organo di trasmissione delle idee e, quindi, di generazione e materializzazione delle sostanze fisiche. Questo ventre viene impregnato da tuoni e lampi, emanazioni del Primo Intelletto (altrimenti detto Primo Fuoco) e simboli delle Forme o Idee platoniche, e dopo aver dato loro nutrimento le rilascia nel mondo fisico.
In un altro oracolo caldaico (Frag. 52) Ecate è definita come la fonte dell’acqua dell’anima cosmica: simbolicamente, quindi, essa è la fonte della vita. Nel Frag. 51 essa anche sorgente della luce, del fuoco, dell’aria e dell’etere; in sostanza ad Ecate si attribuisce il potere vitale su tutti gli elementi: essa è il ventre del cosmo. Questa facoltà di animare con la vita ogni cosa le dà anche la possibilità di rianimare i morti, come sostiene Psello in Hyp. Keph. 74.10 K.
La mediazione, nel sistema caldaico, è un atto schiettamente vitale e pertanto la mediatrice per eccellenza di tutti i processi vitali non può che essere la madre del mondo. Per riassumere brevemente, si può dire che, col Medio-Platonismo, Ecate cominci ad essere sincretizzata con altre divinità e la sua figura inizi a includere nuovi tratti: nel tardo misticismo, il suo ruolo tradizionale di guida e guardiano viene modificato e ampliato, in funzione di un crescente interesse per le entità mediatrici, ritratte e considerate come trascendenti, staccate dal mondo umano.
Questa nuova interpretazione è in contrasto con quella più sensazionalistica della dea-strega che è cara alla divulgazione tradizionale , e di cu itroviamo traccia in molta letteratura della latinità classica: dalle Metamorfosi di Ovidio, dove Ecate è chiamata in causa dalla maga Medea assieme ad altre entità del mondo ctonio per invocare il ritorno di Giasone dall’Ade, a Seneca, che nell’Oedipus fa recitare a un veggente, intento a invocare le ombre del Tartaro, le seguenti parole:
Il cieco Chaos si sta spalancando, e al popolo di Dite si apre una strada verso il regno superno!
Non appena sente l’ululato dei cani infernali che fanno sempre da scorta a Ecate. La dea, quindi, apre il passaggio al corteo delle anime defunte. Al contrario, essa può anche impedire il loro ritorno: è in questi termini che la menzionano Apuleio e Luciano, che descrive la dea mentre dalla Terra ridiscende nelle dimore infernali accompagnata dal suo corteggio di anime. Anche la Sibilla di virgiliana memoria invoca Ecate “potente in Terra e in Cielo”, prima ancora di Persefone, la Notte e la Terra, e le offre un sacrificio affinché le dia accesso alle terre dell’Ade.
Nel Bellum Civile di Lucano assistiamo a una scena ambientata in una grotta descritta come un luogo
a metà tra il mondo supero e quello infero
dove Ericto tenta di rianimare un cadavere con l’invocazione di Ecate, nume che le permette di entrare in contatto col morto. In relazione a questo aspetto magico-stregonesco, è necessario menzionare quelle entità demoniache denominate negli oracoli “cani” e ritenute tradizionalmente far da scorta ad Ecate nelle sue epifanie. Si tratta di creature divoratrici di anime, esseri menzogneri e malvagi che si approfittano della debolezza umana per ingannare e terrorizzare i mortali, allo scopo di far loro deviare il cammino verso la purificazione. Il cane è spesso nominato ed associato, quindi, al lato più oscuro di Ecate.
Ne parla Orazio nella ottava Satira, quando descrive il rituale di evocazione negromantica officiato dalle due megere Sagana e Canidia: mentre esse performano l’orrenda cerimonia, che prevede il sacrificio di un’agnella nera, i cani infernali (infernae canes) di Ecate ululano in lontananza.
Anche Virgilio nomina questi cani ululanti che accompagnano l’arrivo della dea; così come Apollonio di Rodi che li descrive mentre abbaiano raucamente, quando un’Ecate terrificante, la chioma formata da orribili serpenti, emerge dalla terra. Licrofone fa dire a Cassandra come sua madre Ecuba spaventerà i mortali col suo abbaiare sinistro, accodandosi alla schiera dei cani che accompagnano Ecate nelle sue scorribande notturne. Questi demoni-cani sono paragonabili, quindi, ai fantasmi notturni che si credeva accompagnassero la dea durante le sue apparizioni e potevano portare l’uomo alla pazzia. La loro funzione era quella di esaudire le invocazioni e le maledizioni pronunciate dal mago nel corso delle cerimonie negromantiche, in cui non si mancava mai di pronunciare il nome di Ecate. Essa, in virtù della sua natura intermediaria non può che essere la dominatrice di queste essenze a loro volta intermedie, siano esse positive o negative “buone” o “cattive”. Ciò non è in contrasto con quanto detto finora riguardo all’immagine salvifica che emerge dall’analisi della letteratura oracolare caldaica operata dalle correnti medioplatoniche a cavallo tra il II e il III sec. d.C. Tuttavia, va detto che nella letteratura classica greca e latina, così come nei papiri magici prevale decisamente il suo aspetto ctonio ed infernale.
D’altronde, anche nella dottrina neoplatonica, identificata con l’Anima Cosmica/Physis, rimane comunque un’entità tentatrice, dal momento che così come può elevare le anime individuali, allo stesso modo, complici i demoni che le fanno corteggio, può attrarle inesorabilmente verso il basso.
Questa connessione con il magico, quindi, pare non aver perso mai del tutto la sua forza suggestiva: anche nel sistema neoplatonico Ecate è una divinità oracolare, in grado di dare informazioni al teurgo sulle modalità di utilizzo dei mezzi magici, in modo da riuscire a oltrepassare i limiti del mondo fisico. Il tramite tra il teurgo e la divinità è la cosiddetta simpatia cosmica, resa attiva da Ecate. Questa corrispondenza simpatica si attiva grazie all’utilizzo di simboli, emblemi o mezzi magici, come la cosiddetta “trottola di Ecate”, descritta da Psello come una
…sfera dorata costruita attorno a uno zaffiro e fatta girare tramite una cinghia di cuoio, con sopra dei caratteri incisi. Facendola girare (il teurgo) era solito operare delle invocazioni. Ed essi solevano chiamare questo strumento iugx, che fosse sferico, triangolare, o di altra forma. Girandolo, produceva dei suoni particolari, imitando il verso di una bestia, ridendo o facendo piangere l’aria. (L’oracolo) insegna che il movimento della trottola, con il suo potere ineffabile, portava a termine il rito. È chiamata “Trottola di Ecate” poiché è consacrate a Ecate.
Questo strumento, altrimenti detto “cerchio magico” è in grado di ispirare visioni profetiche. In tal senso essa rimanda all’aspetto lunare di Ecate, chiamata anche Antea, ossia “colei che invia le visioni”. L’ispirazione lunare spesso si confonde con la pazzia:
Il tipo di comprensione o ispirazione che la luna dà non è un pensiero razionale, è più simile alla intuizione artistica del sognatore o del veggente.
Per quanto riguarda l’uso della trottola nelle cerimonie magiche, esso è documentato già dall’antichità. Essa viene utilizzata nei rituali di envoûtement per il suo potere di provocare l’amore, nelle cerimonie tempestarie per la facoltà di chiamare i temporali e nelle evocazioni per il suo potere di determinare l’apparizione della divinità. Anche in questo caso la potenza dello strumento risiede nel fatto che esso produce dei suoni incantatori; suoni che si credeva avessero un effetto propedeutico nell’aiutare la simpatia tra gli elementi del cosmo, armonizzandoli tra loro. Il movimento armonico delle sfere rotanti, infatti, determinava mimeticamente, per analogia, quello delle sfere celesti e, perciò, degli esseri cosmici. Come si diceva poc’anzi, il loro suono aveva un ruolo fondamentale in questo processo, così come ogni altro espediente che fosse in grado di attivare il processo simpatetico: erbe, pietre, conchiglie ed animali. Tornando ad Ecate, essa ha un ruolo fondamentale nell’attivazione di questa simpatia ed armonia cosmica, poiché presiede al funzionamento degli iugx, che nella dottrina caldaica, poi mediata dal neoplatonismo, vengono identificati con i simboli che rimandano alle Idee: ritorna di nuovo il carattere di intermediazione proprio e peculiare della divinità. Spesso, questi simboli coincidono con delle parole magiche e segrete, pronunciate dall’officiante nel corso della cerimonia teurgica. Questi incantesimi provocano l’apparizione di Ecate, descritta in tre frammenti degli Oracula sotto forma di fuoco, luce o nell’aspetto di un cavallo bianco. Il suo arrivo è preannunciato dall’oscurarsi del cielo, dallo spaventoso tremore della terra e dalla materializzazione di un fuoco parlante che dà responsi. Le manifestazioni fisiche abnormi che sempre accompagnano l’avvento di un’entità numinosa si devono al fatto che ciò rappresenta la rottura di un limite, il passaggio dalla sfera immortale a quella mortale. La visione dell’universo equivale a quella di una struttura divisa in zone gerarchicamente separate: l’Olimpo abitato dagli dei, la Luna regno delle anime, la Terra per gli uomini. Il rovesciamento di questa gerarchia provoca quindi un momentaneo disturbo dell’ordine cosmico, che si palesa con eventi catastrofici o eclatanti. Per quanto riguarda invece l’apparizione di un fuoco parlante, che rappresenta fisicamente la voce di Ecate, va sottolineato come spesso – e non solo nel sistema caldeo – la luce ed il fuoco si associno al divino: appare simbolicamente evidente come questi elementi rappresentino il raggiungimento della conoscenza e il contatto con una dimensione superiore. Basti pensare alle loro caratteristiche di luminosità e al loro simbolismo ascensionale che le mette in relazione alla dimensione celeste. In questo caso la visione non è spaventosa né terrificante, ma è sinonimo di bellezza: questa ambiguità nella connotazione dell’aspetto di Ecate diventerà un suo carattere peculiare. La dea può risultare orribile così come splendida: qui compare sicuramente in una forma celestiale. Negli stessi frammenti presi in considerazione essa viene descritta anche sotto forma equina: in realtà, sono poche le esplicite associazioni della dea con il cavallo, e comunque sono successive a quella che ritroviamo nei frammenti considerati. Piuttosto, è più corretto considerare quello equino come uno dei tre volti di Ecate nella sua forma triadica, di cui si è già accennato. In ogni caso, qui preme sottolineare come anche la sua apparenza fisica, tradizionalmente associata all’oscurità e all’orrore, possa essere invece considerata sotto un aspetto luminoso e splendente.
Analisi simbolica: Il tre
Loto tesseva la trama della vita, Lachesi la conservava e Atropo, inesorabilmente, la tagliava. Altra triade femminile è quella delle Gorgoni: Stimo, Euriale e Medusa, esseri terrificanti dotati di ali e capigliatura serpentina. Sorelle delle Gorgoni, le Graie Enio, Pefredo e Dino: le “Vecchie” dalle “belle guance”, possedevano un occhio e un dente in comune. Altre divinità spaventose, le Erinni o Furie, dee della vendetta. nate dal sangue di Urano, Aletto, Tisifone e Megera erano rappresentate con ali e capelli di serpente, tra le mani fruste e fiaccole. Nella loro connotazione, in veste di protettrici dell’ordine morale, erano chiamate Eumenidi. Si pensi, infine, alle Muse, che originariamente dovevano essere tre e solo in seguito vennero aumentate alla seconda potenza, in numero di nove. Anche nella latinità classica ritroviamo diverse divinità femminili a struttura ternaria, chiamate genericamente Matronae.Secondo la filosofia pitagorica, ogni forma è esprimibile numericamente e i numeri stessi sono archetipi divini, creando con le loro relazioni l’armonia del cosmo. Essi sono pertanto l’archè, il principio di ogni cosa. Dio, l’originario, è l’Uno, che si manifesta nella dualità. Da tesi e antitesi scaturisce, infine, la sintesi della Trinità, che rappresenta l’integrazione degli opposti e, quindi, la perfezione. Nell’antichità, la forma triadica era associata prevalentemente alle figure femminili: le Grazie (Gratiae e Charites), dee della bellezza al seguito di Venere/Afrodite: Aglaia, Eufrosine e Talia, figlie di Zeno ed Eurinome; le Ore, personificazione delle stagioni secondo un’originaria tripartizione calendariale dell’anno: Tallo (la fioritura), Auxo (la crescita) e Carpo (il frutto), figlie di Zeus e Temi. C’erano poi le Parche (o Moire, o Fate), figlie della notte, che avevano il compito di assegnare agli uomini il loro destino. Venivano rappresentate nell’atto della filatura, col fuso tra le mani.
Lo stesso accade in altre tradizioni e culture, anche in tempi più recenti: si pensi Alle Tre Beth di area alpina (Ainbeth, Wilbeth e Warbeth, altrimenti dette Caterina, Barbara e Lucia), a cui corrispondono le tre Norne di area germanica, la Trimurti della tradizione induista (Brama, Shiva e Vishnu), assimilabile e sua volta alla Trinità cristiana, rappresentazione dell’unità della natura divina nelle tre espressioni personali di Padre, Figlio e Spirito Santo. Inoltre, nella dottrina alchemica, così come nella tradizione caldea a cui si è accennato nel paragrafo precedente, è il mondo stesso ad essere tripartito in corpo, anima e spirito.
Seguendo questa lunga e nutrita tradizione, anche Ecate si presenta in forma triadica. Ecco cosa possiamo leggere in uno dei noti Papyri magici:
Accostati a me, divina signora, Selene dai tre volti regina che porti la luce a noi mortali, tu che chiami dalla notte, faccia di toro, amante della solitudine.
Dea dei crocicchi
Sii pietosa con me che t’invoco
ascolta gentile le mie preghiere
tu che regni di notte sovra il mondo intero
E ancora, nel Paradiso di Dante
Quale ne’ pleniluni sereni
Trivia ride tra le ninfe etterne
che dipingon lo ciel per tutti i seni
Come risulta evidente, Ecate è stata interpretata come figura triadica in relazione alla Luna e, in particolare, al ciclo delle sue fasi (nascente, crescente e calante), oppure, similmente, nella sua rappresentazione antropomorfa, come fanciulla, donna e vecchia. Si consideri come essa venga sempre al concetto della metamorfosi o trasformazione riguardo al trascorrere del tempo o meglio ancora in relazione al compiersi di un percorso circolare, che dalla nascita porta alla morte e viceversa, attraverso la rigenerazione e la resurrezione.
Oppure, Ecate triadica è Trivia, nume tutelare di porte e crocevia, quindi divinità mediatrice e guida nei passaggi. La sua funzione, tuttavia, è analoga, se non la medesima. In ogni caso, infatti, il ruolo della dea è quello di aiutare e favorire il compiersi di un percorso che presenta delle tappe intermedie.
Per quanto riguarda questo ruolo di mediatrice, esso verrà approfondito nelle sue valenze simboliche nel paragrafo dedicato ad “Ecate intermediaria”, mentre il simbolismo lunare verrà discusso nel paragrafo seguente.
Per concludere il discorso su Ecate triforme, procediamo ad un’analisi degli elementi simbolici più frequentemente descritti come suoi attributi tipici nella veste triadica.
Il Cane
Ecate, nella sua veste infernale si presenta – come già evidenziato in precedenza – sotto forma canina. Il cane è un animale associato al mondo ctonio, basti pensare al già citato Cerbero, guardiano dei cancelli dell’oltretomba. Poiché lo si considera una guida fedele durante la vita terrena, il cane veniva sacrificato ai defunti per accompagnarli nel viaggio ultramondano: così accadeva anche nelle culture precolombiane, dove l’animale veniva utilizzato nei culti funerari sempre con la medesima funzione. Anche le divinità associate alla morte si presentavano in forma canina nella veste di psicopompi: così il dio Xolot dell’antico Messico, il quale scortava i morti nel loro cammino verso l’aldilà e l’egizio Anubi, rappresentato in forma di sciacallo. In relazione al mondo dei morti nella sua connotazione terrifica, il cane viene associato ai demoni infernali e quindi al dominio diabolico e stregonesco. Ricordiamo a tal proposito i cani-demoni che fanno da corteggio a Ecate nelle sue apparizioni: latravit hecates turba, testimonia Seneca in Oedipus, 568. Questi cani sono infallibilmente neri, altro colore associato alla notte, alla morte, al mondo infernale e ad Ecate, spesso identificata e nominata come Luna nera.
2. Il cavallo
Nonostante rappresenti la forza e la vitalità, anche questo animale viene posto in relazione col regno dei defunti. Esso è caricato di una forte ambiguità simbolica: è emblema solare se traina il carro di Apollo, ma evoca la morte come cavalcatura dei cavalieri dell’Apocalisse. Viene associato anche alla magia e gli si attribuiscono facoltà divinatorie e profetiche, soprattutto in epoca medievale. In ogni caso, esso è collegato all’idea di ascesi in particolare nella sua rappresentazione alata (Pegaso), quindi ben si adatta all’aspetto celeste della dea triforme.
. Il Leone, Il Serpente
Come si è già accennato, alcune fonti tradizionali attribuiscono alla forma terrestre di Ecate un aspetto di leone o di serpente.
Il leone si associa al sole e alla forza. Al di là della sua tradizionale connotazione simbolica, qui basti sottolineare che esso viene spesso rappresentato come figura tutelare delle porte: così in Giappone, sotto forma di cane-leone (karashish), all’ingresso delle aree templari.
Il Serpente si collega, invece, alla morte e al mondo infernale per la sua abitudine a nascondersi in luoghi sotterranei; d’altronde esso può avere una connotazione positiva in associazione alla vita, ma soprattutto alla resurrezione. Si consideri, infatti, la sua capacità di rigenerarsi dopo la muta. Pertanto, esso rappresenta la fede nella rinascita che, come abbiamo detto, è uno degli attributi simbolici più forti e pregnanti della Ecate triforme terrestre. Inoltre, si pensi alla figura dell’uroboros, il proverbiale “serpente che si morde la coda”, simbolo del trascorrere ciclico del tempo in un eterno ritorno. Nella simbologia alchemica, inoltre, esso è anche legato all’idea di raffinazione e perfezionamento delle sostanze: a un processo di purificazione che, di nuovo, ci riporta all’idea di ascesi, che appartiene al contesto simbolico dell’Ecate celeste.
4. I dardi dorati, le torce accese
Così come la nostra Ecate, anche altre divinità a lei assimilabili o associate (Apollo, Artemide/Diana ed Eros) erano dotate di frecce, le quali rappresentavano un’arma offensiva e un tratto distintivo allo stesso tempo. La freccia, per le sue caratteristiche di velocità folgorante e aggressività distruttiva, può essere associata al fulmine, simbolo dell’illuminazione divina e dell’energia vitale. Essere colpiti dal fulmine (così come dal dardo di eros, ad es.) corrisponde a un cambiamento di status, o significa ricevere una segnatura divina, un segno di elezione. Pertanto, i dardi dorati di Ecate, anche per il colore e la luminosità, possono essere associati simbolicamente alle torce accese che essa tiene in mano e, quindi, a quel suo aspetto celeste che si cercherà di evidenziare meglio nelle pagine successive.
Nel fondamentale sistema dualistico che contrappone luce e tenebre, Ecate riveste senz’altro entrambi i ruoli, ma rappresenta, fondamentalmente, colei che illumina, seppur nelle tenebre. Ecate lunare, infatti, simboleggia l’illuminazione ottenuta attraverso la speculazione, tramite un ciclo che dal principio originario (oscuro, indistinto) porta all’armonia spirituale (simbolicamente connessa alla luce in diverse tradizioni) attraverso un’evoluzione ascensionale.
Il ramoscello d’ulivo
L’ulivo è universalmente noto come simbolo di vittoria e trionfo e, conseguentemente, di pace. Esso rappresenta comunque l’elezione, in relazione al sacro. Il crisma, ossia l’olio d’oliva viene spesso utilizzato nei riti di purificazione e nelle cerimonie iniziatiche (alle quali Ecate presiede per definizione): basti pensare, ad es., al battesimo cristiano. Lo stesso Cristo è l'”Unto del Signore”, ossia colui che è segnato dal Crisma, appunto.
Il papavero, il cesto di frumento
Entrambi questi elementi richiamano senz’altro la figura di Demeter-Kore/Ceres/Cibele, divinità sincretica dal nome diverso a seconda dell’origine (greca, romana, anatolica), con cui Ecate è collegata dal mitico racconto omerico cui si è già accennato in precedenza, in relazione al ratto di Proserpina, figlia di Demetra, di cui la dea notturna è testimone.
Ceres/Cibele, identificata con la greca Demeter, figlia di Saturno e madre di Proserpina, è una divinità femminile e materna associata alla terra e alla fertilità. La sua era una funzione principalmente tutelare, di protezione dei raccolti e delle terre coltivate, specialmente a grano. Era anche la dea della nascita: tutti i fiori, la frutta e le cose viventi erano ritenuti suoi doni. L’iconografia tradizionale la ritrae con uno scettro, un cesto di fiori (tra cui il papavero), frutta e una ghirlanda fatta di spighe di grano. Nella mitologia, il papavero è indissolubilmente legato al concetto di fecondità, oltre ad avere delle valenze magiche per le sue proprietà ipnotiche, note fin dall’antichità. Per queste caratteristiche il fiore si associa anche alla sfera semantica del sogno e del sonno e quindi, metonimicamente, della notte a cui spesso Ecate viene collegata, tanto che persino Sheakespeare nel suo King Lear (Atto I, Scena I), offre simbolicamente i sogni ai “misteri di Ecate”. Per le sue facoltà profetiche e oracolari, date dalla sua natura triplice, che le permette di guardare in ogni direzione – passata, presente e futura – Ecate viene collegata anche all’interpretazione e alla lettura dei sogni. Tornando al papavero e ai suoi derivati, queste sostanze venivano utilizzate dapprima a scopo puramente medicinale, successivamente ingerite a scopo voluttuario o allucinogeno, trovando largo impiego anche nel sabba. Spesso, infatti, i partecipanti al rito sabbatico assumevano delle sostanze psicotrope che li aiutavano a intraprendere il loro viaggio onirico. Non è improbabile che il sabba stesso e le azioni che vi si svolgevano – voli notturni, amplessi col demonio, metamorfosi animali, ecc.- fossero il frutto di un’allucinazione derivata proprio dall’ingestione di sostanze stupefacenti.
Ma quello che qui conta nuovamente rilevare è la fonte ispiratrice del mito, legato all’attività agraria e alla fecondità; l’agricoltura e i suoi simboli (il grano, la spiga) sono il sostrato di base da cui si sviluppa tutta la vicenda mitica, che culmina nel rapimento di Persefone, e si traduce nell’avvicendamento del ciclo stagionale di nascita-morte-rinascita, concetto chiave nell’analisi simbolica della figura di Ecate. Altro elemento che conferma la possibile associazione tra questa divinità agraria e cerealicola ed Ecate è la grotta, dimora di Cerere e simbolo dell’ingresso nell’Ade, quindi, in relazione al mondo infero: è sempre attraverso una caverna che si accede al regno dell’oltretomba, ed essa rappresenta pertanto l’anello di congiunzione tra la vita e la morte. Inoltre, si può tracciare un parallelismo con il seme legato al ciclo stagionale; infatti sotto terra esso si prepara a venire fuori con la bella stagione, alla luce del sole matura e muore, per ricominciare il circuito ciclico: ritroviamo nuovamente, quindi, il concetto dell’eterno ritorno, alla base di molte celebrazioni misteriche officiate nei culti dedicati alla dea.
I sandali dorati (o bronzei)
I sandali rappresentano metonimicamente il cammino di Ecate/Luna in cielo, mentre il loro colore (cangiante a seconda delle fasi lunari) simboleggia il variante splendore dell’astro nel corso del suo ciclo mensile.
La luna
L’astro notturno è ricchissimo di implicazioni simboliche, che qui si cercherà di esaminare in relazione alla figura di Ecate. Come più volte sottolineato, la dea è associata al concetto della trasformazione ciclica, ben rappresentata dalle fasi lunari. La luna cresce fino al plenilunio, per poi declinare fino alla fase della cosiddetta “Luna nera” (novilunio), per poi risorgere nuovamente dopo tre giorni di eclissi. L’eclissi è totale nel momento dell’opposizione esatta col sole; se invece avviene una congiunzione perfetta c’è l’eclissi solare. Le fasi lunari corrispondono simbolicamente alla nascita, la crescita, la morte e la resurrezione. Perciò la luna si associa ai fenomeni generativi che essa effettivamente influenza (basti pensare al suo influsso sul mondo vegetale), al divenire, all’aldilà e, più in generale, alle idee di ciclo, dualismo, polarità, opposizione ma anche complexio oppositorum.
Nella notte del novilunio essa scompare, con la promessa di una prossima rinascita. L’oscurazione dell’astro è stata spesso rappresentata da un ratto, un’uccisione, ma allo stesso tempo anche dall’unione delle “nozze celesti”. Questa unione, che avviene al culmine del ciclo lunare, è un’unione incestuosa, dal momento che sole e luna sono stati variamente interpretati come padre e figlia o fratello e sorella, a seconda delle diverse tradizioni mitiche.
In ogni caso essa contiene le due facce della stessa medaglia: gli opposti speculari e complementari. La conciliazione, che avviene nel momento della congiunzione, richiede comunque un sacrificio, un martirologio, una morte simbolica.
Questo sacrificio è il pegno da pagare per il rinnovamento dell’universo, come testimonia un brano di Sant’Ambrogio:
La luna cala per ridar forza agli elementi. È questo dunque il grande mistero. Esso fu offerto da colui che a tutti ha donato la grazie. L’ha consunta, perché si rigenerasse, colui che ha consunto se stesso perché tutto si rigenerasse; si è infatti consunto per discendere a noi, discese a noi per ascendere a tutte le cose […] la luna ha quindi annunciato il mistero di Cristo
Ecco il parallelo tra la funzione salvifica svolta dalla luna (e successivamente attribuita anche alla Ecate celeste di cui si è parlato in precedenza) e il Salvatore della religione cristiana che, non a caso, muore per poi risorgere dopo tre giorni.
Se l’aspetto ctonio della luna nera è mortale, quello divino e celeste della “luna bianca” ha la connotazione e il volto impassibile di chi abita le sfere immortali ed eterne. Essa rappresenta, quindi, la liberazione dai vincoli di sofferenza e paura che caratterizzano la dimensione terrena, vitale e feconda, ma destinata alla morte.
La notte
La luna è astro notturno per eccellenza e condivide con la notte le medesime valenze simboliche. Le notte è collegata all’idea dell’oscurità, del caos primordiale e, quindi, anche al grembo della madre protettrice, perciò alla generazione. Al contrario, essa si associa a Thanatos, divenendo pertanto il regno degli spiriti e dei fantasmi. Ancora, la medesima connotazione simbolica ci riporta alle idee di ciclo e vicenda vita-morte. Ma la notte non è solo dominio di Thanatos: lo è anche di Eros. Nyx è, infatti, anche la madre dei sogni e dei piaceri amorosi. In ogni caso il suo aspetto è conturbante, tanto che, stando al mito, persino Zeus ne aveva timore. Le stesse e sembianze di Ecate vengono descritte ambiguamente, ora come bellissime e splendenti, ora come orride e terrificanti: in ogni caso il suo aspetto si ammanta di mistero, come tutto ciò che è avvolto dal velo oscuro della notte.
Il nero
La grande dea Nyx del mito greco ci viene descritta come una donna di nero vestita, con l’abito trapunto di stelle. Essa durante il giorno giace in una caverna, per uscirne al tramonto su un carro trainato da cavalli neri. Un’altra rappresentazione la ritrae come donna dalle grandi ali nere.
Esistono altre divinità femminili connotate principalmente da questo colore, come le cosiddette “Madonne Nere” il cui culto può esser fatto risalire alla cultura orientale precristiana, in cui si venerava la Luna Nera, altrimenti detta Ecate.
È noto che il nero, in opposizione al bianco, sia il colore del lutto, del buio, dell’assenza di coscienza; nonostante esso abbia assunto una connotazione decisamente negativa, in relazione alla sfera diabolica e demoniaca (a Satana, raffigurato spesso come uomo o bestia nera, si sacrificavano un gallo o un caprone del medesimo colore), in realtà esso ha il valore simbolico dell’assoluto: l’idea di morte si collega comunque a quella della purificazione e della futura resurrezione. Così anche nella filosofia alchemica, dove nero è il colore della pietra filosofale (nigredo) capace di trasformare la materia in vista di un’ascesa spirituale.
Si consideri, al contrario, che la dea, nella descrizione fornita da Porfirio (cfr. p. 6), porta una veste bianca, ossia del colore che rappresenta la totale purificazione. In diverse culture gli abiti bianchi sono tipici della classe sacerdotale, in associazione simbolica all’idea di verità. Tuttavia, il bianco è connotato negativamente in riferimento alla morte ed è il colore degli spettri, delle anime dei trapassati: in Cina, ad esempio, esso è il colore del lutto. Nella dottrina alchemica, invece, esso rappresenta il cammino verso la conoscenza.
7. La sessualità: femminile o ermafrodita?
Vivendo di luce riflessa, la luna rappresenta la passività, la fatalità, la predestinazione. Pertanto essa si associa alla sfera simbolica del femminile. Nelle culture primitive, si ritrova frequentemente l’immagine della luna legata a quella della pioggia e quella della donna: il nesso immaginario veniva stabilito tra la fredda immagine della luna e quella della fredda pioggia, ma anche fra il potere generativo di entrambe: luna e pioggia favoriscono la fertilità, sia del mondo vegetale che di quello umano, tanto che è proprio sul ciclo lunare che si regolano le fasi ormonali della donna. Inoltre, l’ambiguità che caratterizza l’astro lunare è propria anche della caratterizzazione femminile: creatrice e distruttrice, tenera e crudele, protettrice ma ingannevole, generatrice ed assassina. Come si è detto, nelle più svariate tradizioni (Assira, Maya, Egizia, Mediterranea, ecc.) è diffusa l’attribuzione di caratteristiche femminili alla luna, per l’associazione tra ciclo lunare e ciclo fisiologico, in relazione ai fenomeni di generazione e fecondità; tuttavia, in altre culture essa assume tratti maschili: un inno sumero, infatti, chiama il dio-Luna “Toro vigile dagli infaticabili piedi”. Anche le popolazioni eschimesi considerano la Luna di sesso maschile, ritenendo che essa scenda dal cielo durante la notte per unirsi con le loro donne. Anche nella mitologia australiana la Luna è un seduttore che abbandona la donna dopo averla resa madre. In alcune tradizioni, le viene attribuita addirittura la capacità di rendere incinte le imprudenti che, la sera, urinano girate verso di lei! Questa ambiguità nella caratterizzazione sessuale, ma soprattutto la compresenza e la complementareità di tratti di segno opposto, la rendono in qualche modo assimilabile alla figura mitica dell’ermafrodita. Inoltre, tutti i miti di origine lunare, cui si è accennato, sottolineano che la sua generazione è avvenuta comunque in un contesto incestuoso, e che quindi essa in qualche modo è nata dal suo stesso sangue. Nei miti sulle origini del mondo si conserva la memoria ancestrale di un desiderio femminile di riproduzione autonoma, in seguito cancellato da un potere maschile che si è riservato la possibilità di dare la vita: alla madre è stata lasciata la sola funzione di accogliere gli elementi generativi altrui.
L’immagine mitica di un corpo materno che genera da sé, è caratteristica del tempo primordiale, e la ritroviamo nell’archetipo della Grande Madre, da cui, come si è detto, anche la figura di Ecate potrebbe derivare. Dalla babilonese Tíamat ha inizio, senza intervento maschile, un universo ancora privo di nome, caotico, disordinato, indifferenziato.
Quando nessuno aveva ancora fatto parola di un cielo, lassù / E nessuno aveva ancora pensato che la terra laggiù potesse avere un nome […] regnava Tíamat, la divinità originaria femminile.
Secondo la tradizione orfica, è la dea Notte – associabile simbolicamente ad Ecate – ad originare il mondo. Fecondata dal vento, la Notte dalle grandi ali nere genera in sé stessa un immenso uovo d’argento. Dall’uovo nasce Eros, il dio dell’amore, svelando ciò che si celava nell’uovo d’argento: il mondo intero. Il cielo (lo spazio concavo superiore) si accoppia con la terra (lo spazio inferiore), portando alla luce Oceano e Teti, coppia primordiale, fratelli e insieme sposi, nati da un genitore che “non aveva conosciuto alcuna coniugalità”. (Kereny, 1951).
Secondo la versione esiodea, invece, la Terra (Gaia), emersa dalla voragine del Caos primigenio, partorì senza alcun accoppiamento Urano, il Cielo stellato, affinché questi l’abbracciasse interamente e fosse sede eterna e sicura per gli dei.
Ecate intermediaria
8. La porta
Abbiamo detto che Ecate presiede come guardiana alle zone liminali, sui confini, sia fisici che simbolici. Spesso viene nominata o descritta come “colei che tiene la chiave” (Hekate Kleidoukoz), controllando il passaggio attraverso le porte dell’Ade e quindi sia la morte che l’eventuale ritorno dopo la morte. La porta, infatti, è un confine che può essere varcato in entrambi i sensi, sia in entrata che in uscita e, pertanto, non rappresenta una soglia da cui non c’è ritorno: questo testimonia ancora una volta che la dea non è legata a un immaginario di ineluttabilità, ma comunque essa si associa simbolicamente al ciclo di nascita-crescita-morte-rinascita. La porta non è solo il simbolo dell’ingresso, ma anche dello spazio segreto che vi sta dietro, uno spazio di forte pregnanza simbolica. Varcare una soglia significa comunque compiere un rito di passaggio verso uno stadio esistenziale “ulteriore”, o verso un diverso stato di coscienza, o una diversa condizione dell’esistenza.
Il crocicchio
Oltre ad essere il punto d’incontro di particolari linee d’energia cosmica, il crocicchio rappresenta l’unione tra i sistemi contrapposti, il punto di transizione tra tre strade, terra di nessuno, zona indistinta e indifferenziata. È, pertanto, teatro d’elezione per lo svolgimento delle cerimonie magiche. Non avendo appartenenza esso può rappresentare l’ignoto e generare il terrore, anche perché è lo spazio prescelto dalle entità prive a loro volta di una precisa appartenenza, come le anime che vagano nel Limbo in attesa di conquistare una condizione spirituale più stabile, come già sottolineato in precedenza. Per questo suo carattere di indeterminatezza esso è caricato di un’immensa potenzialità, anche perché raccoglie e moltiplica il potenziale energetico dei sistemi spaziali che allo stesso tempo unisce e divide. Il crocicchio è potenza, potenzialità e quindi possibilità di scelta: l’incrocio implica diverse direzioni da poter prendere. Ancora, ritroviamo in questo elemento simbolico caratteristico della divinità in considerazione, un’idea di dinamicità che è del tutto estranea a quell’immagine di terrificante ineluttabilità che l’ha ritratta unicamente come orribile dea della morte.
Ecate magica: le erbe portentose
Come si è già accennato, nei documenti letterari – soprattutto della latinità classica – il nome di Ecate si associa al mondo magico, soprattutto in relazione a scene di evocazioni negromantiche e di rituali di magia amatoria. Specialmente nel secondo caso, la dea è invocata a sostegno degli incantesimi per creare o mantenere un legamento d’amore. Spesso, la recitazione della formula si accompagna alla preparazione di pozioni o filtri da far bere all’oggetto dell’incantesimo e gli ingredienti della bevanda, tipici della farmacopea magica, sono caricati di un alto valore simbolico. Secondo la tradizione, nelle dimore sotterranee di Ecate, è presente un giardino segreto dove le sue sacerdotesse, Circe e Medea raccolgono queste piante dai meravigliosi effetti. Ovidio annovera tra queste l’aconito, citato esplicitamente come “erba di Ecate”. La leggenda narra che questa erba fosse stata generata dalle bave di Cerbero (il mitico cane a tre teste, guardiano delle porte infernali), mentre Ercole lo trascinava fuori dall’Ade; un’altra tradizione lo fa nascere dal sangue di Prometeo lacerato dall’aquila. Nella farmacopea popolare esso porta il nome di “erba del Diavolo” ed è quindi associato al mondo infernale e pertanto legato alla stregoneria.
Tra le erbe di Ecate troviamo anche il ciclamino, detto appunto “pianta di Ecate” e, ancora, “fiore del diavolo”.
C’è poi il croco, fiore infero, collegato alla sfera ctonia e funeraria. Fin dall’epoca micenea, esso veniva impiegato per utilizzi sacri, come ci è testimoniato da Stazio, che documenta l’uso di bruciarlo nel rogo dei personaggi pubblici più eminenti. In relazione ad Ecate, esso viene nominato in Arg., Orph., 915 e segg., come uno dei fiori raccolti dalla già citata Kirke nel giardino incantato della dea. Questa maga appartiene alle tradizioni mitiche delle primitive culture mediterranee: essa è figlia del Sole e signora delle piante, dalle quali trae gli elementi per la preparazione dei suoi filtri portentosi. Il fiore in questione, infatti, può sortire anche effetti afrodisiaci e addirittura letali, diventando un potente venenum, termine proverbialmente associato alla magia assieme a quello di philtrum e a quello di carmina, le parole magiche, come quelle (hecateia carmina) ricordate da Ovidio.
Riguardo al suo uso sacrale, c’è da ricordare infine l’associazione del croco al culto di Artemide e di Apollo (entità che, come abbiamo già sottolineato, erano in stretta relazione simbolica con Ecate), di cui adornava gli altari durante i riti celebrati in suo onore a Cirene. Qui è importante, tuttavia, mettere in evidenza il suo legame con la sfera ctonia e con la morte o, per meglio dire, lo stretto rapporto terra – morte- vegetale, tipico delle culture agrarie. La stessa origine mitica del crocus sativussi ricollega alla sfera semantica della morte: secondo la tradizione più accreditata, esso è nato dal sangue di Krokos, “l’eroe del Croco”, ucciso involontariamente da Hermes mentre giocava al disco. A conferma di quanto appena detto, esso si associa anche a un culto tombale che aveva luogo nel corso dei misteri eleusini.
Il suo colore si lega invece al mondo femminile: Ovidio (Met., X, 5) descrive come giallo zafferano la veste del dio Hymen che presiede ai riti nuziali. Sarà dello stesso colore il drappo degli officianti delle cerimonie funerarie: si riconferma nuovamente il legame tra l’unione-generazione (matrimonio) e la morte (funerale).
Anche l’asfodelo è legato al mondo dei defunti, essendo destinato a ornare le ghirlande offerte alle divinità sotterranee (Dyonisios ctonio, Semele e Persefone), tra cui potremmo annoverare, per analogia, anche Ecate.
Un altro vegetale denominato a livello popolare come “pianta di Ecate” è la mandragola, detta anche “pianta del diavolo”), elemento d’elezione nelle pozioni magiche, consacrato alle forze infernali e caricato di un immenso potere simbolico: la sua radice ramificata ricorda una figura umana. Essa perciò sembra portare la segnatura dell'”uomo totale” e pertanto viene ritenuta una vera e propria panacea. Inoltre, essa contiene alcune componenti tossiche e allucinogene, trovando largo utilizzo nei rituali magici e nel sabba stregonesco. Anche per la sua estrazione è necessario seguire puntualmente delle precise prescrizioni rituali: la radice va estratta alla luce del tramonto, rivolti verso il sole, dopo averle tracciato attorno tre cerchi magici con una spada di ferro mai utilizzata.
Per concludere la rassegna delle sostanze vegetali associabili a Ecate nella sua veste “magica”, possiamo citare la verbena, detta popolarmente “erba de la crucivia”: infatti, essa veniva appesa a scopo difensivo-apotropaico, in forma di croce, sulle porte e nei crocicchi. Inoltre, la stessa pianta odorosa era impiegata di sovente, assieme all’incenso, nelle fumigazioni magiche.
Ecate celestiale o infernale?
In conclusione, proviamo a considerare i tratti analizzati abbozzando quindi un ritratto nuovo di questa divinità spesso connotata in maniera negativa, o incompleta. Ecate è stata relegata ineluttabilmente nell’ambito del male per i suoi legami con la magia (intesa nel senso deteriore del termine), o con il dominio infernale; dipinta come figura orribile e terrificante, associata alla fatalità tipica della natura femminile.
I suoi tratti sono tipicamente femminili, così come gli elementi cui essa è associata e l’ambiguità di fondo che la caratterizza. Un’ambiguità e una caratterizzazione che sono, tuttavia, passibili di interpretazioni differenti. Questo tentativo di analisi simbolica voleva proprio riabilitare la figura di Ecate mettendo in evidenza e focalizzando un diverso punto di vista e un diverso criterio di osservazione di questo personaggio mitico, rovesciando la prospettiva secondo cui Ecate – forse anche proprio perché tipicamente femminile – debba essere considerata solo in relazione all’oscuro, al tenebroso, all’infernale. Essa possiede certo le caratteristiche di tutte le grandi divinità femminili e l’ambiguità di fondo che connota la femminilità stessa: enorme potenzialità generativa e distruttiva allo stesso tempo, forza infinita che le deriva dalla sua matrice irrazionale, caotica, primigenia e indifferenziata.
La regione superiore del cielo e degli astri, da cui discendono la luce e la pioggia fecondatrice, viene […] assegnata alle “potenze superiori, ossia a Dio e agli angeli, mentre la terra rimane la sfera dell’umanità mortale, al di sotto della quale si trova – il che implica una polarità su/giù ancora più radicale – il regno dell’inferno. […] Dal momento che “ogni bene discende dall’alto”, nelle società dominate dai maschi il cielo è considerato di genere maschile, la terra e la profondità ctonie (sotterranee), invece, di genere femminile […]. La sfera superiore rappresenta per lo più lo spirito, quella inferiore invece la materia, e l’uomo si considera un “essere che appartiene a due mondi”, tra i quali egli deve trovare la sua strada .
È evidente che in questa prospettiva “verticale”, Ecate possa trovare collocazione in ogni punto dell’asse, dal suo vertice, alla zona mediana, fino al fondo. Essa possiede infatti i caratteri cosiddetti celesti, quelli che solitamente si associano alla polarità maschile: un’armonica razionalità, il distacco, la visione “superiore”, a cui corrispondono gli elementi simbolici della luce– le torce accese, i dardi/fulmine – solitamente considerata come tratto divino maschile e del fuoco, entrambi associati alla dimensione dell’illuminazione spirituale. D’altronde Ecate raccoglie in sé anche i tratti specularmente opposti: le tenebre e l’oscurità infernali. La sua figura è assolutamente sfaccettata o, per meglio dire, a tutto tondo, riassumendo in sé la totalità e l’unità degli elementi, realizzando quella complexio oppositorum che coincide con l’armonia e la perfezione. È per questo che essa può divenire il simbolo di una ricerca spirituale compiuta, o meglio in continua e costante evoluzione e rinnovamento. Pertanto essa è una figura dinamica – richiamando l’idea del ciclo e dell’eterno ritorno – positiva e salvifica. È lei, infatti, che aiuta l’uomo, intrappolato o perso tra i due mondi sopra citati a trovare o, solamente, a riconoscere la strada giusta.
Note
Trad: Ed ella (leggi: Asteria) concepì e generò Ecate, a cui Zeus figlio di Crono rese onore sopra ogni cosa. Le diede doni stupendi, per governare insieme la terra e l’ostile mare. Ella ricevette il domino anche del cielo stellato.
Ctonio: Il termine deriva dal greco chtón, “terra”, e designa quell’ambito simbolico legato al mondo sotterraneo e infero e, quindi, alla dimensione caotica e uroborica che prelude alla creazione. Dal punto di vista mitologico, la dimensione ctonia è associata all’idea della generazione e quindi alla figura della Grande Madre, ossia quello a stadio mitico dominato dalla Divinità oscura e femminile della onnipotente e terribile generatrice, che, in quanto tale po’ diventare anche assassina, perché in grado di dare togliere la vita. Come divinità ctonia Ecate appare in un sortilegio appartenente ai Papyri magicigreci, e precisamente all'”Incantesimo (praxis) del gatto” (PGM III, 1-164, nell’ediz. A cura di Preisendanz, Leipzig, 1928). In questo sortilegio, utilizzabile per vari fini – in prevalenza di magia amatoria – l’officiante affoga ritualmente un gatto nell’acqua e nel contempo recita alcune formula di scongiuro invocando misteriose entità, tra cui Semea (divinità siria), il persiano Mithra, il Giudeo Iahweh, il greco Errmes ed Ecate, la quale viene nominata come “signora dei morti”. La divinità femminile ha qui la funzione di incatenare simbolicamente l’oggetto dell’incantesimo. Essa è quindi “incatenatrice” e “violentatrice”, ma allo stesso tempo vivificatrice delle sua “membra” e del suo “membro”. Una figura in grado di dare e togliere la vita, dalle spiccate valenze sessuali e dall’enorme potenza. A tal proposito, cfr. Giovanni Casadio, Sincretismo magico ellenistico o nuova religione? A proposito di un recente studio sui testi magici greci, in “Orpheus”, Rivista di umanità classica e cristiana del Centro Studi sull’antico Cristianesimo dell’Università di Catania, N.S., Anno XI, 1990, Fas
T. Kraus, Hekate, Heidelberg 1960, p. 13. Su Ecate e la Teogonia, cfr. anche D. Boedeker, Hecate: a Transfunctional Goddess in the Theogony, in “Transactions of the American Philological Association”, 113: 79-93, 1983; J.S. Clay, The Hekate of the Theogony, in “Greek, Roman, and Byzantine Studies”, 25: 27-38, 1984; M.L. West, Hesiod: Theogony, Oxford 1966; F. Pfister, Die Hekate-Episode in Hesiods Theogonie, in “Philologus”, 84: 1-9, 1928; P.J. Jouve, Ecate, Milano, Ricci, 1964; Altre monografie sulla dea: W. Berg, Hekate: Greek or Anatolian?, in “Numen” 21: 128-40, 1974; W. Burkert, Greek Religion, Cambridge 1985; L.R. Farnell, The Cults of the Greek Statues, 5 voll., Oxford 1896-1909; M.D. Fullerton, Hekate Epipyrgidia, in “Archaologischer Anzeiger”, 669-75, 1986; Hekate-Henoch, in “Reallexikon fur Antike und Christentum: Sachworterbuch zur Auseinandersetzung des Christentums mit der antiken Welt”, in Verbindung mit Franz Joseph Dolger und Hans Lietzmann und unter besonderer Mitwirkung von Jan Hendrik Wasznik und Leopold Wenger; herausgegeben von Theodor Klauser; [poi] Ernst Dassman, Stuttgart, A. Hiersemann, 1987, 14: 10; S.I. Johnston, Hekate Soteira: a study of Hekates roles in the Chaldean oracles and related literature, Atlanta 1990; Kentauroi et Kentaurides-Oiax et addenda Hekate, Hekate (in Thracia), Heros Equitans, Kakasbos, Kekrops, in “Lexicon iconographicum mythologiae classicae: LIMC”, publiée par la Fondation pour le Lexicon Iconographicum mithologiae classicae (LIMC)], Zurich, Artemis; Munchen, c1992, 6.1; T. Kraus, Hekate: Studien zu Wesen und Bild der Gottin in Kleinasien und Griechenland, Heidelberg, C. Winter, 1960; P.A. Marquardt, A Portrait of Hecate, in “American Journal of Philology”, 102: 243-60, 1981; M. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, 2 ed., 2 voll., Munich 1967. E. Petersen, Die Dreigestaltige Hekate, 2 voll., AEM: 4, 1880; AEM: 5, 1881; W.H. Roscher, Hekate, in “Lexicon”, II.1, 1885-1910; E. Wallinger, Hekates Tochter: Hexen in der romischen Antike, Wien, Wiener Frauenverl., 1994.
Per un’analisi approfondita della figura della Grande Madre, cfr. H. Neumann, La grande Madre, Astrolabio, Roma, e dello stesso autore, Storia delle origine della coscienza, cap. I e II, Astrolabio, Roma, 1978.
Cfr.: Esiodo, Teogonia, 411 – 413: Trad: Ed ella (leggi: Asteria) concepì e generò Ecate, a cui Zeus figlio di Crono rese onore sopra ogni cosa. Le diede doni stupendi, per governare insieme la terra e lo sterile mare. Ella ricevette il domino anche del cielo stellato.
J.S. Clay, The Ekate of the Theogony, GRBS, 1984, pp. 27-30.
Lo stesso appellativo viene applicato anche ad altre divinità come Artemide – spesso identificata con Ecate stessa – Selene – altra figura spesso associata a Ecate nel sua aspetto lunare – Persephone – la cui connessione con Ecate è già stata accennata – Brimo e Bendis. Inoltre, si ha notizia di un’altra divinità adorata in Tessaglia col nome di Enodia: a suo riguardo i dati sono piuttosto scarsi, si sa solo che doveva essere un’esperta di filtri e pozioni, una maga, insomma. La sua terra d’origine ci riporta immediatamente alla memoria Medea, altra figura tradizionalmente associata ad Ecate nel suo aspetto di patrona delle arti magiche.
L’appellativo di “numinoso” si applica a quella dimensione misteriosa, terribile e affascinante da cui poi prenderà forma il divino. È una dimensione impersonale e onnipotente che prelude alla identificazione della Divinità. A tal proposito cfr. E. Neumann, op. cit.
Le fonti non sono concordi su questo tipo di rappresentazione: alcuni attribuiscono a Ecate terrestre un volto di leone, altri di serpente.
“Salve, o madre degli dei, dai molti nomi, dalla bella prole; / salve, o Ecate, custode delle porte, di gran potenza; / ma anche a te salve, o Giano, progenitore, / Zeus imperituro; salve, Zeus supremo; / rendete luminoso il cammino della mia vita, / colmo di beni, stornate i funesti morbi / dalle mie membra, e l’anima, che sulla terra delira, traete in alto, purificata dalle iniziazioni che risvegliano la mente. / Vi supplico, tendetemi la mano, e le divine vie. Mostratemi, ché le desidero; la luce preziosissima io voglio mirare, / onde m’è dato fuggire la turpitudine della fosca generazione. / Vi supplico, porgetemi la mano, e con i vostri soffi / Me travagliata sospingete nel porto della pietà. / Salve o madre degli dei, dai molti nomi, dalla bella prole; / salve, o Ecate, custode delle porte, di gran potenza; / ma anche a te salve, o Giano, progenitore, / Zeus imperituro; salve, Zeus supremo”.
Cfr. Timaeus, II.130.23.
Cfr. Plutarco, Numa, 19.11.
Cfr. Pausania, II.30.2.
Cfr. Quaestiones Romanae, 290 d.
Cfr. Apud Plut., De Fac., 943 f.
Cfr. De Is., 368.
Va detto tuttavia che essa “viene vista prevalentemente come figura femminile, per esempio nell’antico ideogramma yin, dov’è un corpo celeste che riceve la luce passivamente, ma anche per l’analogia tra il mese lunare e il ciclo mestruale femminile”. Cfr. H. Biedermann, Trad. italiana Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1999, p. 277.
Cfr. Apud Eusebio, Praeparatio Evangelica, III.11, 113 c.
Cfr. Apud Eusebio, Praeparatio Evangelica, IV, 23, 175, c-d. In questo passo, Porfirio descrive gli attributi lunari di una statuetta che effigia la figura di Ecate: vesti bianche, sandali dorati – o bronzei, a seconda che si tratti di luna crescente o luna piena – e delle torce accese tra le mani. Nelle braccia, un canestro pieno di frumento, un ramo Cfr. Medea, 790.
Cfr. Porfirio, Apud Eusebio, Praeparatio Evangelica, III.16.126 c; Praeparatio Evangelica, IV.23, 174 a, V.24, 202 c/d.
A Roma si celebravano dei rituali in onore degli eroi caduti per la difesa della città, in memoria dei quali il re Servio Tullio decretò che venissero eretti dei tempietti sui crocicchi. Su questi altari venivano offerti dei sacrifici ai Lares Compitales, divinità dei crocicchi come suggerisce l’etimo latino compita (crocicchio). Successivamente questi divennero le loro divinità tutelari, che furono cristianizzate nei secoli successivi. Le edicole erette ai crocicchi si trasformarono in seguito da luoghi di culto delle entità tutelati del territorio a piccoli templi in cui si venerava la memoria dei defunti. Le cerimonie rituali che accompagnavano il culto di queste edicole avevano luogo ogni anno, in gennaio, in coincidenza quindi con un ben preciso momento astrologico – il solstizio invernale – che segnava l’ingresso nel nuovo anno e rappresentava un momento liminale caricato di una forte valenza simbolica. Le cerimonie prevedevano un’inversione rituale delle regole sociali, venendo presiedute da un collegio sacerdotale composto da schiavi e liberti. Questo momento rituale si consumava nella più libera sfrenatezza, tra offerte e libagioni, tanto da far coniare ad hoc un termine che tuttora permane nella sua connotazione negativa: triviale deriva infatti da trivium, il “crocicchio”, da cui – come si accennava in precedenza – “Trivia”, la nostra Ecate triforme. Inoltre, essendo al di fuori del controllo e di ogni possibile categorizzazione, le zone liminali divengono il regno dei fantasmi e delle cosiddette “anime in pena”.
Gli Oracoli Caldaici sono una raccolta incompleta e frammentaria che la tradizione attribuisce a un autore di nome Giuliano, del quale non si conosce l’identità precisa (potrebbe trattarsi di Giuliano il caldeo o di suo figlio Giuliano il teurgo, vissuti verso la fine del II sec. d.C.). Marsilio Ficino, a conferma dell’enorme popolarità di cui questa letteratura godette nel periodo rinascimentale, quando tornarono in voga le teorie neoplatoniche, sostiene che la paternità degli Oracula si deve addirittura al profeta iranico Zoroastro. Questi componimenti si inseriscono a pieno titolo nella letteratura tipica del sincretismo tardo-ellenistico in cui confluiscono elementi platonici, aristotelici, e stoici, assieme a suggestioni orfiche, gnostiche e misteriosofiche orientali. L’orfismo si pone tra la comune religione olimpica e una nuova concezione di tipo mistico, nutrita di spiriti iniziatici, di interessi soteriologici, e pratiche di tipo misterico. Essa scaturisce dalla sintesi di posizioni dualistiche mediate dal platonismo, e di un monismo che si richiama alla frammentazione di un’Unità originaria. In ogni caso, il denominatore comune di queste dottrine è la credenza in una Divinità attingibile solo attraverso un’intuizione che avviene nell’ambito di una conoscenza rivelata e che – parallelamente – è concepita anche come entità creatrice, conoscibile attraverso il creato. Da questa duplice concezione derivano due etiche di segno diverso: una di disprezzo per il mondo, frutto di un dio malvagio, e l’altra di amore per il creato, creatura generata da un dio buono. In ogni caso, in questo periodo comincia a farsi sempre più forte l’esigenza esoterica di una mediazione tra la divinità e l’uomo: Ecate stessa è specchio di questa tendenza e di questo bisogno culturale. Cfr. E. Des Places, ed., Oracula chaldaica, Les Belles Lettres, Paris 1971; H. Lewy, Chaldean oracles and Theurgy: mysticism, magic and Platonism in the later Roman Empire, Institute d’Archeologie Orientale, Le Caire 1956.
Questo carattere generativo fece sì che nel II sec. d.C. fosse accomunata a Rhea, in riferimento anche alla Teogonia di Esiodo.
Cfr. Met., VII.234.
Cfr. II.568 segg.
Cfr. Meta., XI.2.
Cfr. Philosops., 15.
Cfr. Aen., VI.258.
Cfr. VI.646 segg.
Sul piano astronomico, come già fece notare Empedocle, la luna, trovandosi tra la terra e il sole (DK 31 B 47), riceve la luce del sole e, come il sole, rischiara la terra (DK 31 B 42, cfr. 45). Tale collocazione intermedia e la successione delle fasi lunari fanno della luna un luogo di riconciliazione dei contrari. Da qui il suo carattere ambivalente, anche nel campo della sessualità, come attesta Plutarco (De Iside et Osiride 368 c-d) identificando la dea egizia Iside con la luna. (A tal proposito, cfr. J. Gwyn Griffiths, edit., Plutarch’s De Iside et Osiride, University of Wales Press, 1970). C’è dunque un aspetto inquietante dell’unità, una manifestazione della quale è costituita appunto dall’androginia, dalla bisessualità. Ricusare la divisione e la separazione, significa mantenersi nel caos o tornarvi. Di conseguenza, la separazione tra cielo e terra, la distinzione tra gli dei e gli uomini e la differenza tra i sessi sono solidali l’uno con l’altro e assicurano il mantenimento di un ordine antropologico, cosmologico e perfino teologico che rimettono in gioco gli esseri doppi del mito, volendo abolire ogni distanza tra cielo e terra, tra gli dei e gli uomini. Il desiderio di una fusione totale sembra condurre ad una confusione che distrugge l’ordine attuale delle cose, nel rispetto del quale per l’uomo risiede, in ultima analisi, la virtu'.
Stregoneria e magia del Medioevo
LA STREGONERIA NEL MEDIOEVO
Magia e stregoneria nell'alto medioevo sono fenomeni legati alla sopravvivenza di mentalità arcaica ed alla persistenza dei residui di paganesimo: in entrambe i casi si tratta di fatti legati soprattutto al mondo della vita di campagna ma con il secolo XI se la vita del medioevo rimane in gran parte legata al mondo agrario,la luce della tensione storica passa dalla campagna alla città.
Come per i fenomeni ereticali e per i problemi legati alla povertà, così anche per magia e stregoneria l’attenzione passa alla città e al mondo cittadino dove certamente non sono mancati ricorsi all'indovina e alla fattucchiera ma sono più urgenti i problemi e le esigenze connessi alla realtà religiosa e a quella socio-economica che i rapporti tra varie classi fanno sorgere.
La Stregoneria nel Rinascimento
STORIA DELLE STREGHE NEL MEDIOEVO
Nel 1231 Gregorio IX istituisce il tribunale della Santa inquisizione, dipendente direttamente da Roma , che si occuperà di condannare,punire e correggere le eresie e gli eretici cioè coloro che vengono colti in aperto dissenso non solo con le dottrine della Cgiesa cattolica ma anche con l’idea del Papa come autorità e la gerarchia.Tra le “reti” dell’inquisizione ,oltre alle sette come i flagellanti e i valdesi,finirono personaggi illustri come Giordano Bruno
Più tardi,nel 1484,Innocenzo VIII promulga la bolla Summis desiderantes affectibus incaricando Heinrich Institor e Jakob Sprenger di condannare e punire ,ma non senza una compassionevole comprensione e indulgenza, i “peccatori” , di aiutarli a uscire dalle loro superstizioni e di accostarli a Dio.
A tal fine i due domenicani scrivono il “Malleus maleficarum” (Il martello delle streghe),vero e proprio manuale dell’inquisitore in cui si spiegano i malefici operati dalle streghe, i mezzi per riconoscerli , i sistemi per interrogare e tutte le varie e crudeli torture per estorcere le confessioni.
SUPERSTIZIONI E MAGIA NEL MEDIOEVO
Da questo scritto è possibile comprendere come magia e stregoneria siano connesse alla presenza del demoniaco,e come per vari aspetti ne costituiscano una manifestazione , e come il corpus christianum non possa accettare tale punto di vista e debba respingerlo.
Ma quello che suscita più interesse è il notare come emerga in questo contesto,con sempre maggior rilievo,il ruolo della donna che comincia a diventare la protagonista di questa realtà:essa viene legata al mondo diabolico anche se non si può ancora precisare il senso e il valore di tale legame.Nascono poi da qui una serie di fantasie demoniache e ossessivamente lubriche che vedono le donne legate sessualmente ai demoni che si impossessano dei loro corpi e delle loro anime attraverso il rapporto sessuale.
Contemporaneamente la donna viene come respinta ai margini della società religiosa in una ristrettezza di movimento spirituale alla quale si adatta difficilmente infatti si può notare una vivace ripresa della spiritualità femminile,dalle forme ortodosse a quelle ereticali.
Il desiderio di una più vicina e completa unione con Dio può sembrare indizio di una inquietudine religiosa che nelle sue manifestazioni eterodosse raggiunge il demoniaco.
La caccia alle streghe
MEDIOEVO DONNE STREGHE
Contro questa inquietudine riprende vita un anti-femminismo in cui si rapprendono gli antichi elementi di accusa contro Eva,colpevole dell’errore di Adamo, e una serie di aneddoti e racconti che illustrano la furbizia maligna femminile e la debolezza fisica e psicologica delle donne.
Incominciano lentamente la lotta e la caccia alle streghe che furono ben più profonde e laceranti di quanto non appaiano a prima vista:di qui la tragedia dei processi alle streghe in cui un crudele circolo vizioso si venne instaurando tra gli inquisitori che credevano nella diabolicità delle streghe e le streghe che credevano nella propria diabolicità.
Ma la strega e il demonio hanno un significato molto profondo in quanto rappresentano il momento della paura,dell’ossessione,del lato buio della coscienza europea o il segno della sua non compiuta e libera maturità
I Celti
LE ORIGINI
L’origine del popolo dei Celti è indoeuropea. La parola celtico ha origine dal greco keltai che gli abitanti di Marsiglia, città fondata dai Focei, attribuirono ai membri di queste tribù belligeranti.
La loro prima area geografica di residenza è l’Europa centrale, in particolare tra la Boemia e la Baviera, dove ha avuto luogo la cosiddetta "Cultura diUnetice", particolarmente legata alla lavorazione dei minerali ed alla pastorizia. Da questa cultura hanno avuto origine anche gli italici, gli illiri ed i veneti.
Sicuramente la genesi dei Celti ha risentito di una interazione tra varie popolazioni. E’ dunque opportuno fare una premessa.
Intorno al 4000 a.C. esisteva una civiltà, denominata di Atlantide, che abitava nella zona del Baltico (che sarà nel medioevo luogo della Lega Anseatica), in particolare nello Jutland e nella bassa Scandinavia. Questa civiltà, racconta Erotodo, era particolarmente progredita. Abile nella costruzione dei templi e degli stadi, aveva una certa esperienza nella navigazione.
Ciò è provato dalle costruzioni megalitiche dei menhir della Bretagna (Carnac), dell’Irlanda, del Galles e dell’Inghilterra (Stonehenge), dove nelle vicinanze è stato forse rinvenuto un probabile stadio per le corse equestri. Tali costruzioni di dolmen avevano come scopo la guida agli astri, in cui tali popolazioni credevano.
A seguito di siccità, terremoti e carestie, tale popolo è migrato verso l’Europa centrale, la Grecia (dove c’erano le culture achea e micenea, che furono distrutte), l’Anatolia (dove erano presenti gli Ittiti, la Palestina (in cui hanno avuto origine le civiltà fenicia e semita) e l’Egitto. Questa migrazione è nota come quella dei "popoli del mare". Solo in Egitto, Tolomeo riuscì a respingere la loro invasione. La coda della migrazione dei popoli del mare fu rappresentata dai Dori che si stanziarono in Grecia ed in Egeo.
Intanto, quasi contemporaneamente, secondo una teoria più accreditata tra il 3000 e il 2500 a.C. in Oriente c’erano tre popolazioni indoeuropee: i Kurgan (per le tombe a tumulo che usavano) della zona del Volga - alto Mar Caspio, i Transcaucasici del Caucaso, i Nordpontini della zona del Mar Nero. Queste popolazioni, in particolare la prima, influenzandosi e mescolandosi tra loro fino alla fine dell’età del rame, eseguirono delle migrazioni in: Anatolia (Ittiti), in Mesopotamia (Arii), Grecia (Macedoni e Micenei), Europa (Cultura di Unetice in Boemia, crocevia di popolazioni).
La divisione cominciò con l’inizio dell’età del bronzo e si perfezionò con l’età del ferro (la Boemia era ricca di ferro) e si implementò con l’addomesticamento della razza equina (la parola cavallo ha la stessa radice in tutte le lingue indoeuropee) e del bestiame. Contemporaneamente nel nord europa, in particolare nella zona della Polonia, compare la civiltà dei Campi di Urne, di origine nordica, che prende il nome dal modo in cui seppellivano i loro morti.
La coda di questa migrazione orientale ebbe luogo con gli Sciti, nell’800 a.C., che si diffusero in Mesopotamia (originando prima la cultura caldea, di cui Abramo ne sarà un rappresentante, e poi quella assira che sarà dominante fino all’avvento dei Persiani), in Anatolia (ove erano presenti già i Frigi, i Lidi ed i Pontini), in Grecia, in Italia (dove dal 900 a.C. erano presenti gli Etruschi e ancora prima i Liguri e gli Italici ) ed in Europa centrale (dove era presente la migrazione dei popoli del nord).
In particolare, con riferimento a quest’ultima, intorno al 700 a.C., nella zona del Salzkammergut (Salisburgo e Carinzia), fino al 450 a.C. si diffuse la cultura di Hallstatt, abile nel commerciare sale (di cui la loro regione era ricca) con i popoli italici e nordici.
Si trattava dunque di una cultura di crocevia, basata prevalentemente su due classi sociali legate all’aristocrazia e alla pastorizia. La fine della cultura di Hallstatt segna l’inizio della cultura di La Tene (450 – 50 a.C.), situata sulle rive del lago di Neuchatel e caratterizzata dall’arte espressionista, dalle rappresentazioni del particolare e dei dettagli, dall’inizio di migrazioni di popoli, dalla valida rete di commercio di massa che furono in grado di impiantare, dalla conseguente nascita di una protoborghesia. Questo passaggio è stato motivato anche da una differente esigenza sociale: nuovi ceti aspirano al potere, per cui la vecchia aristocrazia hallstattiana viene soppiantata.
Dunque all’inizio del 600 a.C., come risultato di queste due ultime culture appena descritte, nella zona che comprende il basso Rodano e l’alto Danubio ha origine la popolazione celtica che, di cultura nomade, comincia a migrare verso l’Italia settentrionale, dove si stanzia attorno a Mediolanum ed entra in contatto con gli Etruschi, l’Europa centrale, facendo scomparire la cultura di Hallstatt, la Francia, da cui hanno origine i Galli, la Germania, dove si integrano con i Germani (Suebi, Marcomanni, Longobardi, Ermunduri, Quadi e Semnoni), popolo proveniente dall’area del Baltico, differente da quello dei Celti, la Gran Bretagna, dove ebbero uno sviluppo più arretrato, la Serbia, la Macedonia e l’Anatolia, dove compaiono i Galati (la parola celtico in greco si scrive gàlatos), che importarono culti religiosi orientali.
In particolare per la Gran Bretagna è opportuno precisare che intorno al 900 a.C. ed al 500 a.C. ci furono due ondate di migrazioni di popoli di origine indoeuropea che si sovrapposero alle popolazioni preesistenti derivate dagli "ex Atlantidi" giunte nel 3000 - 2000 a.C..
La prima fu legata a popoli di lingua gaelica, che partiti dalla Spagna settentrionale, approdarono in Irlanda, Scozia e Isola di Mann. Svilupparono una lingua denominata "celtico Q", poiché al posto della lettera k si utilizzava la lettera q. La seconda migrazione fu caratterizzata da popoli britannici, che partiti dal Belgio, in piena età lateniana, dunque nella massima fase dello sviluppo socio-economico, colonizzarono Inghilterra, Galles e Cornovaglia, sviluppando il "celtico P", poiché la k era sostituita da p. Ad esempio, la parola indoeuropea ekuos (cavallo), si scrive equos in gaelico ed epos in britannico. Dunque la mutazione consonantica q-p caratterizzò due tipologie di popolazioni, che si differenziavano anche per scelte architettoniche ed urbanistiche: le prime vivevano in fortificazioni, le seconde in villaggi.
E’ anche probabile che la migrazione dei secondi spinse i primi verso zone più lontane. Il termine gaelico deriva dalla parola gwyddel che significa "selvaggi" e fu attribuita, in una fase di migrazione, dai Gallesi agli avi degli Irlandesi che vi si insediarono.
I Celti hanno risentito molto della cultura scita, sia per l’uso delle tombe a tumulo, sia per l’allevamento del cavallo, ritenuto sacro, sia per il rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, sia per la suddivisione in classi sociali, ove l’aristocratico era chi possedeva più cavalli. Dunque i Celti hanno subito influenze orientali (Sciti, Kurgan, Greci, Etruschi) ed europee (culture di Hallstatt e di La Tene, popoli del nord), sviluppando a loro volta una propria cultura.
Società
Il tessuto sociale celtico si articolava su tre livelli: il druida, sommo sacerdote che presso i Galli aveva il nome di virgobrete (in realtà questo era più un magistrato), uomo di legge, di scienze esoteriche, indovino, conoscitore degli astri e della natura, medico, interprete dei sogni; il cavaliere, uomo di potere economico, politico e militare, la cui fonte di ricchezza era il bestiame (periodo hallstattiano) e l’industria ed il commercio (periodo lateniano); il popolo, composto da servitori. In realtà le decisioni più importanti spettavano al druida. Dunque chi aveva più cavalli (o in generale bestiame) oppure attività commerciali gestiva il potere economico ed era il re della tribù, cioè il capo dei cavalieri
Questa suddivisione dimostra come l’evoluzione dei popoli celtici andò assieme all’evoluzione del cavallo, animale di grande importanza e di ausilio per loro. Tutto ciò ci mostra come in effetti i Celti derivarono dagli Sciti e dunque dalla cultura dei Kurgan, che avevano la stessa considerazione per il cavallo, mezzo di sopravvivenza sia in pace che in guerra. Tra l’altro, gli Sciti avevano sostanzialmente la stessa struttura sociale.
In
particolare dopo il periodo lateniano, ogni comunità celtica si identificava in
un gruppo economico: tutti vivevano per quella o quelle attività che gestiva un
signore locale. Per questo motivo quando il cavaliere decideva di combattere,
tutto il popolo si mobilitava, perché era in gioco la loro sopravvivenza;
quando si decideva di migrare, tutti partivano.
Nel
corso degli anni i div rsi gruppi economici si sono unificati, per esigenze
commerciali e gestionali, dando vita così a tribù più estese e complesse. I
clan scozzesi sono un’espressione di questi antichi raggruppamenti sociali.
Anche le costruzioni dei villaggi venivano realizzate attorno a quella del
cavaliere.
La
contrapposizione maggiore tra la cultura greco-romana e quella celtica
consisteva nel fatto che mentre la prima si proponeva di conquistare la natura
e di dominarla, conoscendo le sue leggi, la seconda preferiva conviverci,
sentirsi parte integrante, conoscere il proprio destino per abbandonarsi ad
esso. Nell’arte, dunque, non si ricerca la perfezione e la bellezza, ma
l’emozione e la libertà.
Nella società celtica il maschio era espressione di vigore e forza e viveva assieme ad altri maschi, fino a che non era tempo di avere figli, per cui si avvicinava alle donne, con cui avrebbe vissuto assieme, continuando comunque a frequentare comunità maschili. Le donne, a loro volta, vivevano in gruppi, separati dagli uomini dove allevavano i figli. Esse esprimevano il coraggio e la tenacia. Gli uomini avevano grande rispetto per loro e ad esse erano molto legate. La prova di ciò ci è data dalle regine della Britannia che hanno combattuto i Romani, come vedremo dopo. Addirittura si dice che in battaglia esse trasmettevano il coraggio ai guerrieri. Tale affermazione rientra in un discorso esoterico che riprenderemo nel prossimo paragrafo. Tuttavia, alcune di esse, di rango basso, potevano essere barattate con dei cavalli
Al largo
della Bretagna esisteva un’isola abitata solo da donne che vi vivevano in
comunità ed assunse un ruolo di sacralità.
Gli
uomini celtici amavano le feste, dove si raccoglievano assieme e raccontavano
saghe e favole, i riti comunitari, dove, alle volte, compivano dei duelli
mortali, prediligevano bere (vino, birra, whisky) e mangiare in particolare il
maiale arrosto (il cavallo ed il toro erano impiegati per riti sacri). Secondo
la tradizione, un buon celtico, oltre che un valente guerriero, doveva essere
eloquente.
Il
guerriero celtico in battaglia si dipingeva il volto di vari colori, urlava sia
perchè voleva spaventare il nemico, sia per esprimere il proprio vigore fisico,
di cui era fiero. Amava radersi (i Britanni portavano anche i baffi) e viveva a
contatto con la natura.
Dunque,
la struttura sociale dei Celti era molto semplice ed in essa nel corso degli
anni e dello sviluppo economico si potè inserire anche la borghesia (età
lateniana). La società celtica non ebbe modo di articolarsi, viste le
contaminazioni romano - germaniche. Solo in Irlanda, dove potè svilupparsi in
pieno, andò articolandosi su più livelli: re, druidi (filid), nobili inferiori,
contadini (perché possessori di terra), bardi (ceto borghese, a cui era
affidato il tramandare la tradizione), lavoratori ed artisti di
intrattenimento. Questi ultimi due rappresentano classi sociali non libere. Più
tardi, con l’avvento del cristianesimo, il druida diventa anacoreta ed assume
un ruolo di consigliere nella chiesa celtica, che avrà dei contrasti con quella
romana, sfociati in alcuni casi in eresia.
Sviluppo
I Celti
erano composti da diverse tribù, ognuna delle quali si diffuse in uno specifico
territorio. Si difesero dai Romani, dai Germani e dalle invasioni asiatiche.
Nel corso delle loro migrazioni popolarono un vasto territorio. Videro lo
sviluppo di diverse società (kurgan, halstattiana, lateniana) che corrispose
anche ad uno sviluppo economico e sociale.
In base
alla premessa fatta in precedenza, possiamo visualizzare la seguente
situazione, legata sia al popolo celtico che alla regione di influenza relativa,
frutto di continue migrazioni:
Serbia:
Scordisci (325 a.C.);
Bulgaria:
Bastarni (fondatori del regno di Tylis);
Ungheria,
Romania, Boemia: Carnuti, Teutoni, Cimbri(forse di origine germana), Menapi,
Treviri, Ubii;
Svizzera:
Rezi, Rauraci, Carnuti, Elvezi;
Austria:
Taurisci, Norici;
Italia
Settentrionale: Boi, Senoni,Veneti, Gesati, Insubri, Taurisci;
Spagna e
Portogallo: Celtiberi che si mescolarono con la popolazione locale degli Iberi
e che ebbero un sviluppo diverso rispetto ai Galli, i Gallaecie gli Asturi
(Galizia), i Cantabri (zona di Bilbao), i Tarragonesi, i Baeti (zona di
Siviglia), i Vasconi (Pirenei, da cui è originato il termine guascone), gli
Arevaci, i Vaccei, i Lusitani ed i Vettoni (nel Portogallo);
Anatolia:
Galati (276 a.C.) abitanti della Galazia, arrivati dalle regioni del Danubio;
Macedonia:
Tettosagi, Trocmeri, Tolistoagi, che entrano in contatto anche con Alessandro
Magno;
Francia:
Sequani, Edui, Alverni, Ambroni, Arverni, Parisii (che diedero i natali a
Parigi), Aquitani, Vocati, Volci, Bellovaci, Venelli, Eburovaci, Suessioni,
Tricassi, Mandubii, Carnuti, Veneti, Namneti, Pitti, Biturgi, Allobrogi,
Gesati, Ceutroni, Eburoni;
Paesi
Bassi e Belgio: Nervii, Menapi, Suessoni, Remi, Belgi (forse di origine
germana);
Germania:
Ambroni, Teutoni, Boi, Nemeti, Vangioni, Treviri, Advatici, Usipeti, Tenteri,
Eburoni, Ubii, Sicambri (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di
influenza celtica);
Irlanda:
Ulsteriani (con capitale Emain Magach), abitanti del Mide (centro-est), del
Connacht (ovest) e del Munster (sud-est), Scotti (che migrarono in Caledonia
che prese il nome di Scozia);
Scozia:
Pitti e Caledoni;
Galles:
Ordovici, Siluri e Cornovii (che poi migreranno in Cornovaglia)
Inghilterra:
Atrebati, Belgi, Catuvellani, Trinovanti, Dumnoni (in Cornovaglia), Coritani,
Briganti, Suessoni, Carataci, Novanti, Segovii, Trinovanti, Iceni;
Danimarca:
Arudi, Cimbri, Ambroni (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di
influenza celtica).
Dunque i
Celti, durante una loro migrazione, giunsero fino in Turchia. Nel 278 a.C.
Brenno, omonimo del condottiero che un secolo prima sconfisse i Romani, invase
la Pannonia e da lì, attraverso l’Illiria, giunse in Grecia, distruggendo
Delfi, dove venne ferito. Tra il 278 a.C. ed il 270 a.C., trovando resistenza
in Grecia, in particolare in Macedonia, una parte della popolazione celtica
attraversò lo stretto dei Dardanelli e si stanziò a ridosso della Bitinia,
approfittando anche dell’invito del re locale Nicomede, che, in cambio di
territori, li assoldò come mercenari per conquistare l’Anatolia ed avere uno
stato cuscinetto con i Frigi. La loro espansione ed i loro saccheggi furono
interrotti dall’imperatore di Siria Antioco I, che li sottomise e li confinò in
Galazia, regione nei pressi di Ankara. Successivamente, nel 230 a.C., il re di
Pergamo Attalo I, sconfigge i Galati che si erano ribellati e fa erigere, come
segno di trionfo, dei gruppi marmorei. Di questi oggi ci rimane una copia
romana del "Galata Morente".
L’altra
parte della popolazione, che costituiva il flusso migratorio, caratterizzata in
particolare dalla presenza dei Bastarni, sconfitta in Macedonia dal re Filippo,
padre di Alessandro Magno, si stanziò in Bulgaria, fondando il regno di Tylis.
E’
opportuno fare una considerazione sull’Irlanda. Fu l’unico paese celtico che
non subì invasioni, per cui sviluppò la propria cultura completamente senza
subire influenze esterne. Era divisa in cinque regioni: a nord l’Ulster, con
capitale Emain Magach, a sud il Munster, con capitale Caisel, ad ovest il
Connaught, con capitale Cruachain, ae est il Leinster, con capitale Dinn Rig ed
al centro-est il Mide, con capitale Tara, luogo sacro vicino a Dublino. La
prima e l’ultima regione furono le più progredite, con la prevalenza finale
dell’ultima. Nel 450 d.C. l’Irlanda era divisa in due regni. Il regno del nord
abitato dagli Uì Neìll e quello del sud, popolato dagli Eòganachta.
Dediti
alla pastorizia, gli abitanti dell’Isola Verde, non erano molto progrediti
scientificamente. Amavano la musica, le arti esoteriche, la natura e
svilupparono l’alfabeto ogamico fatto di segni, con il quale composero fiabe,
divinizzando eroi nazionali, tra cui Cù Chulainn.
Il mito,
presso i Celti era importante e questo gli Irlandesi lo applicarono abbastanza.
Favole quali la conquista di Etain, Tàin Bò Cùailnge (la cattura del toro di
Cooley), the Book of Leinster, the book of Dun Cow, the yellow book of Lecan
(le tre massime fonti mitologiche gaeliche), novità sul maiale di Mac Da Thò
sono saghe che raccontano di eroi popolari, di dei, come Maeve, divinità della
guerra che visse tre volte, ricalcando le religioni scite e le strutture celesti
degli inferi, riprese da tutte le altre religioni. Si ripete il tema della
reincarnazione e della resurrezione.
Gli
Scotti migrarono in Galles, dove i loro discendenti furono chiamati
"selvaggi" (gaelici) dalle tribù locali ed in Caledonia, a cui diedero
il nome di Scozia, tra questi, sull’isola sacra di Iona approdò San Colombano
(563 d.C.) che evangelizzò la regione assieme a dodici discepoli.
Dunque
la cultura celtica si interseca con il cristianesimo.
Sia
l’Irlanda che la Gallia furono sede di molti conventi, che in realtà erano
comuni. La seconda, poi, fu patria di San Martino, vescovo di Tours, nonché
della setta eretica pelagiana, che contrapponeva alla grazia divina, professata
da S. Agostino, solo la capacità umana.
L’Irlanda
era la patria della chiesa celtica, che già esisteva prima
dell’evangelizzazione della chiesa romana operata da San Patrizio e da
Palladio. Questa fu importata dall’Aquitania che aveva frequenti commerci con
l’isola verde, ricca di stagno.
Nella
chiesa celtica non c’era una struttura ed un’organizzazione, esistevano solo
abati, la pastorale era semplice, i frati vivevano in luoghi appartati (isole,
eremi…), lontano dai conventi, il simbolo più usato era la croce celtica, segno
di rigenerazione, contenente al centro la ruota solare. (La prima Croce
Celtica, risale al 10.000 a.C., è stata ritrovata in una grotta dei Pirenei
francesi).
Imitando
i druidi gli abati al posto della chierica usavano una rasatura da orecchio a
orecchio, lasciando i capelli sulla nuca lunghi.
La
chiesa celtica adattò il modello cristiano all’amore per la natura, per la
fantasia, per i luoghi fiabeschi. E’ evidente che, nonostante le dominazioni e
le influenze, la filosofia dei Celti rimase incontaminata. In Irlanda, come in
Scozia, non si annoverano martiri, segno che il modello cristiano fu accolto
pacificamente. Tuttavia ci sono molti santi, nominati anche con la segnalazione
degli anacoreti, uomini, che si distinguevano per la semplicità, il vigore, la
mitezza.
Ci
furono notevoli dissidi tra chiesa celtica e chiesa romana: alle volte si
rasentava la scomunica, come quando Fergal, vescovo di Salisburgo, credeva che
sottoterra esistesse un mondo parallelo, in base al modello celtico.
Lo
scontro decisivo tra le due chiese fu nel 663 d.C. nel concilio di Whiotby. In
questa sede il dissidio principale, preso a pretesto dalla chiesa romana,
consisteva nella festa della Pasqua, che gli abati celtici festeggiavano tre
giorni dopo le Palme, secondo la tradizione di Giovanni Evangelista. La chiesa
di Pietro e Paolo uscì vincitrice.
Tuttavia
gli abati celtici continuano la loro evangelizzazione in Europa: Sangallo
(Svizzera), Bobbio (Pavia), Francia, Salisburgo, Scozia, Inghilterra, Germania.
Nel 410
d.C. i Sassoni, gli Angli e gli Juti, popoli germanici, occupano l’Inghilterra.
I Britanni si ritirano in Cornovaglia, Galles (dove c’è il vallo di Olla),
Bretagna e Scozia. Nel 440 Ambrogio Aureliano prende il potere e sconfigge i
germani.
Nel 491
compare il mito di Artù che, attraverso dodici battaglie, scaccia gli invasori.
Dopo il 500 l’Inghilterra è di nuovo in mano ai germanici, che abbracciano la
chiesa romana. L’Irlanda vivrà le invasioni vichinghe (793 d.C.) e comincia un
periodo di migrazioni degli irlandesi verso l’Europa. Successivamente sarà la
volta delle invasioni normanne, che importeranno l’amore per l’agricoltura e la
pastorizia.
Nel 1066
il duca Guglielmo di Normandia riprende l’Inghilterra e restaura la chiesa
celtica, rinasce il mito del Graal e di Artù, che viene abbracciato anche dalla
Francia, per puri scopi politici, in opposizione al domino della chiesa romana.
Nel 1180 Chretien de Troyes scrive il Perceval, nel 1210 Wolfram von Eschenbach
compone il Parsival.
Il re
Artù non sappiamo se sia esistito veramente. Sappiamo che richiama il dio
celtico Artaios. Questo re si avvaleva del druida Merlino, il cui padre,
secondo la tradizione, era Ambrogio Aureliano, a sua volta fratello di Uther.
Da quest’ultimo nasce Artù che estrae la spada dalla roccia (caliburnus) e
diventa signore di Camelot. Sposa Ginevra e fonda una tavola rotonda di 150
cavalieri. Con essi battè i Sassoni, i Pitti e gli Scotti. Suoi compagni
sono:
Tristano,
che innamorato di Isotta, andò in Francia dove morì;
Lancillotto,
che circuì Ginevra;
Galvano,
che si avventura sulle Orcadi,
combattendo contro il cavaliere verde;
Galahad,
figlio di Lancillotto, e Percivale che vanno alla ricerca del Graal.
Artù,
alla fine, accompagnato da alcune donne, si ritira su un’isola, da cui farà
ritorno successivamente.
Dunque,
ci sono tutti gli elementi delle saghe celtiche: il re e il druida, che lo
consiglia e guida; le riunioni assieme, rievocate dalla tavola rotonda; le
sofferenze per l’amore, vissute da Tristano e Lancillotto; la lotta contro il
nemico di Galvano, come Cù Chulainn, contro il drago; la rigenerazione, come
quella di Artù, che fa ritorno da un’isola misteriosa, cioè muore e si
rigenera.
Siamo di
fronte ad un eroe mitizzato, come è nella cultura celtica. Il Graal, poi,
rappresenta le nature di Cristo: umana nel sangue e divina nell’acqua. Entrambe
sono unite assieme dallo spirito. Questi sono i tre elementi raccontati da
Giovanni, che era il più seguito dalla chiesa celtica. Chi possedeva il Graal,
possedeva questi tre elementi. Di nuovo la fantasia serve ai Celti per superare
le avversità della vita, che in questo caso erano rappresentate dai Germani.
Tuttavia,
come già detto, questa figura mitica fu strumentalizzata dai popoli invasori
che volevano contrapporsi alla chiesa di Roma.
Attività
Le fonti
storiche che raccontano dei Celti sono svariate: Erodoto, Cesare, Livio,
Polibio (il più accurato), Posidonio, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso,
Strabone, Dione Cassio, Tacito.
I Celti
erano una popolazione prettamente nomade. Furono i primi ad introdurre l’uso
dei mantelli colorati e dei pantaloni (brache) entrambi ereditati dagli Sciti.
Molto bravi dunque nell’arte della tessitura e della tintura.
Abilissimi,
poi, nella lavorazione dei minerali, in particolare del ferro, introdussero
l’ottone e per molto tempo lavorarono la smithsonite, un particolare minerale,
sostitutivo dello zinco. Conoscevano molto bene le varie tecniche di fusione.
Erano anche capaci nella cottura del vetro (bianco e colorato), nell’uso dello
smalto e nella lavorazione dell’ambra. Tali pratiche furono perfezionate nel
corso del passaggio dalla cultura hallstattiana a quella lateniana.
Era
dedito all’allevamento del bestiame (la parola pecus la ritroviamo anche tra i
Galati), in particolare mucche e pecore; da queste ultime si traeva la lana.
Popolo guerriero, utilizzavano splenditi elmi piumati ed alcune volte corazze
(anche se combattevano quasi sempre nudi), tipo quelle medioevali. La spada
celtica era corta e veniva impiegata come arma da taglio. Più tardi ne furono forgiate
di più lunghe, tutte intarsiate e adornate di pietre, ma si parla di dopo il
500 d.C..
Amavano
radersi il volto e pettinare i biondi capelli all’insù, indurendoli con del
gesso. In battaglia si coloravano il viso e, dopo aver danzato, si lanciavano
nudi addosso al nemico urlando: prediligevano il corpo a corpo ed il primo
assalto. Per questo con le spade colpivano, menando dei fendenti, che non si
rivelavano mai colpi mortali. Polibio racconta che le loro piccole spade si
piegavano dopo i primi colpi. Fu questo uno dei motivi che li fece perdere
contro i Romani, che invece usavano la spada e le lance, colpendo con dei colpi
mortali, evitando il corpo a corpo.
Solo
successivamente gli Etruschi ridestarono l’uso del carro da guerra che avevano
prima appreso sia dagli Sciti che dai popoli del nord (ex Atlantidi) e poi
dimenticato. Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli rispetto al
corpo, sempre perché i Celti confidavano nell’impeto dell’assalto. I Romani
avevano scudi lunghi; fu anche questo un motivo della disfatta celtica. Tra
l’altro i loro eserciti non erano ben organizzati e le loro tattiche di guerra
si basavano prevalentemente sul furore bellico.
Dunque i
Celti, per via del loro furore e della scarsa tattica, erano destinati a
perdere le battaglie contro un esercito organizzato. Questa particolarità
costituì un serio pericolo per Annibale, nella sua calata in Italia, poiché, in
battaglia, la parte celtica del proprio fronte di attacco era la prima a
cedere. Il generale punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a proprio
vantaggio, inserendo i Celti al centro del proprio schieramento, dando origine
alla sua famosa tattica a tenaglia, nella quale il centro cedeva e risucchiava
il nemico che veniva finito dalle ali, ove era presente la cavalleria.
L’unico
re celtico che capì che, in battaglia, bisognava usare una strategia oltre al
furore fu il gallo Vercingetorige, che, impiegando la tattica della "terra
bruciata", minava a colpire gli approvvigionamenti dei Romani, ottenendo
qualche successo. In particolare, aveva capito che se avesse accettato lo
scontro diretto con i Romani avrebbe perso.
Dal
punto di vista dell’edilizia, i Celti abitavano prevalentemente in capanne di
legno, circolari o rettangolari, ed in villaggi.
Cesare
chiama Vici i villaggi non fortificati e oppidum le costruzioni - roccaforti,
di cui le terre celtiche sono piene. I Celti, invece, indicavano con il termine
dunum la fortezza e con nemeton un luogo sacro. Soprattutto in Gallia, le loro
città avevano mura di cinta spesse.
Con
l’influenza degli Etruschi e dei Greci, che avevano fondato Marsiglia ed
influenzavano il commercio di quelle regioni, costruirono case di pietra con
piccoli vani. Amavano vivere all’aperto, sotto le querce, ritenute sacre,
secondo la cultura del drynemeton (luogo delle querce), ove si tenevano riti
sacri e processi.
Un
esempio è la città di Manchung nelle paludi del Danubio, crocevia tra
Ungheria e Baviera, distrutta nel 15 d.C. in modo misterioso e violento. Città
grandissima (7 km mura di cinta), conteneva tante fabbriche, vicine tra loro,
basate sul prototipo della catena di montaggio, introdotto dai Greci. Si
trattava di una città tipica dell’espressione lateniana, dove c’erano schiavi e
signori, dove il commercio aveva il suo valore (specie quello di massa), dove
il denaro aveva la sua importanza.
Come
sepolture dapprima utilizzarono le tombe a tumulo, tipiche della cultura
indoeuropea ereditata dai Kurgan (si ritrova tra gli italici, i sanniti, gli
illiri….), poi predilessero l’inumazione.
Commerciavano
e lavoravano il sale, in celtico hal: molte città della zona del sale hanno
come suffisso iniziale questo termine. Prediligevano l’uso delle botti a quello
delle anfore. Inoltre lavoravano l’ambra, con la quali arricchivano le loro
collane.
Amanti
del vino, producevano anche la birra. Inventarono il servizio turistico della
pensione completa, che si teneva nelle stazioni di cambio.
In
generale, erano dediti alla manifattura (questo fu trasmesso loro dagli
Etruschi) ed al commercio, anche per questo si frazionarono molto (di cui Roma
approfittò): si può dire che ciascuna unità economica era una tribù (questo fu
un difetto della cultura lateniana). Quindi davano una grande importanza al
denaro.
I Celti
che vivevano in zone marittime svilupparono un’abile capacità di navigazione.
Possedevano navi più robuste di quelle romane: erano fatte di quercia, con vele
di pelle. Le caravelle della Lega Anseatica del 1300 erano fatte su questa
stessa base, mentre le navi vichinghe erano più sul modello leggero. I Bretoni
ed i Britanni in particolare esercitarono un’attività piratesca.
Il
popolo celtico amava molto la musica (in particolare l’arpa) che veniva
impiegata per celebrare riti sacri e di preparazione bellica, per raccontare le
gesta di eroi e per impiegare la propria fantasia, luogo di rifugio dalle
storture della vita. Infatti era molto diffusa la divinizzazione di eroi
espressa attraverso le saghe.
Per i
Celti la fama era tutto, soprattutto nella misura in cui gli altri li
ricordavano.
A tale
proposito espressero una tradizione soprattutto orale. Un esempio relativo a
questo argomento è dato dai Celti d’Irlanda, che, per mezzo del loro isolamento
storico, rappresentano una razza celtica incontaminata. Essi usavano molto le
saghe ed i miti.
Erano
anche conoscitori della magia e delle scienze esoteriche.
Religione
Secondo
la tradizione Eracle, divinità - eroe ellenico, giunto in Gallia, fondò Alesia
e si invaghì di una principessa locale. Questa colpita dal suo vigore e dalla
sua possenza fisica, si unì all’eroe orientale. Frutto dell’unione fu il
giovane Galates, che salito al trono, diede il suo nome al popolo: galati o
galli. Questa tesi propagandistica dimostra il legame tra Occidente ed Oriente
La
religione celtica ha molte affinità con le religioni delle culture indoeuropee,
in particolare con quella scita. Essa si basa su concetti molto semplici: la
reincarnazione della vita, la rigenerazione, la resurrezione, l’amore per la
natura, la sacralità di alcune piante (la quercia in Gallia e Galizia, il tasso
in Britannia, il torbo in Irlanda). Gli alberi erano il tramite con il
firmamento e separavano l’uomo dagli dei celesti. Attorno ad ogni villaggio
c’erano dei boschi sacri (drynemeton) dove si eseguivano riti e dove veniva
giudicata la gente dai druidi.
Si
usavano spesso anche i dolmen ed i menir megalitici, già realizzati dalle
precedenti civiltà, per rappresentare una continuità tra l’uomo ed il
firmamento.
La morte
rappresentava per i Celti una breve pausa per una vita eterna: esisteva infatti
la reincarnazione (in cui si crede anche in India), per questo si amava la
natura, perché si poteva rinascere in altre forme di vita. Il concetto di
rigenerazione era fondamentale ed a simboleggiarlo c’era la croce celtica. Il
tema della resurrezione è importante, perché indica una continuità della vita
ai danni della limitatezza della morte.
Dunque
il celtico non si preoccupava se in battaglia moriva, anzi questo gli dava più
onore, tanto poi risorgeva. Andavano nudi in battaglia perché, in preda al loro
furore bellico, comunicavano con gli dei direttamente e quindi emettevano
calore. Non è escluso che i druidi conoscessero delle tecniche yoga, atte a
creare uno stato di trance nei guerrieri nella fase pre-bellica. Essi infatti
eseguivano dei passi di danza prima di combattere, proprio per entrare in
contatto con le divinità.
I Celti,
specialmente quelli d’Irlanda, credevano che alcune divinità vivessero
sottoterra. Con loro si entrava in contatto attraverso pozzi e stagni. Attorno
ad ogni villaggio c’erano zone ritenute sacre anche per questo. In Vandea sono
stati trovati pozzi contenenti alberi e resti umani e animali: agli dei si
sacrificava tutto, sia il simbolo della fertilità che la vita stessa.
Esistevano cerimonie celtiche, presiedute da druidi, in cui, con un sottofondo
musicale, si portavano in processione alberi che, alla fine, venivano sepolti
in pozzi.
I Celti
non credevano nel peccato, quindi la loro morale era molto semplice.
Collezionavano
le teste dei nemici (in Irlanda il cervello) sopra le porte delle loro capanne
o su pali conficcati nel terreno, sia perché questo accresceva la loro fama,
sia perché quando il nemico fosse rinato lo avrebbe fatto senza testa, quindi
più debole.
I Galati
trasmisero ai loro cugini europei il mito scita del piccolo dio Attis e della
sua madre Cibele, dispensatrice di coraggio e gran madre di tutti, che poi, se
vogliamo, è lo stesso mito fenicio del dio Baal e della dea Baalat.
Dunque
la donna rappresentava il coraggio, che specialmente in battaglia era molto
utile, e la fertilità che si ricollega alla rigenerazione della vita: esisteva
una forte venerazione per la madre. Non è escluso che esistessero druidesse,
come le abitanti dell’isola bretone o la sacerdotessa di Vix della Baviera.
Il ruolo
del druida è molto simile a quello del bramino indiano la società celtica e
quella indiana sono simili: il re - cavaliere assomiglia al rajas indiano). A
tale proposito si sottolinea che alcune parole del gaelico sono molto simili al
loro omologo indiano.
I druidi
erano il centro della religione celtica. Ebbero anche una valenza politica. In
Gallia, in particolare, sotto la dominazione romana, difesero i costumi celtici
e portarono avanti un sentimento rivoluzionario antiromano che sfociò secoli
dopo durante la fine dell’Impero Romano. Essi non pagavano tasse, non
espletavano il servizio militare, non erano legati al loro territorio come il
resto della popolazione. Erano, in pratica, i veri capi della tribù. Avevano un
falcetto in mano che li rappresentava, anche perché erano conoscitori di erbe
mediche, che venivano raccolte con una certa ritualità. Alcune, perché
velenose, erano raccolte con la mano sinistra (era quella che valeva di meno),
altre con la destra. Essi seppellivano i morti in tumuli, secondo la tradizione
dei kurgan.
I druidi
si riunivano in assemblee e c’era il majestix (il grande re) che affidava i
vari compiti a loro. Si diventava druida solo dopo aver superato una prova che
consisteva nel ritirarsi nel bosco sacro e giungere all’aldilà (attraverso
prove di allucinazioni ed ipnosi): solo chi vi era stato ed aveva fatto ritorno
tra i mortali poteva guidare un popolo.
I Celti
avevano 374 divinità. In realtà molte erano copie di altre, per cui se ne
contano circa 60. Tra questi si ricorda: Teutate, dio barbuto, presente nei
riti sacrificali, Beleno omonimo di Apollo, Arduinna da cui presero il nome le
Ardenne, Belisama omonima di Minerva, Nemetona dea della guerra. Il più
importante di tutti era Lug, che diede il nome a Lione e Leida. Simboleggiava
un grande druida e sapeva suonare l’arpa, lavorare il ferro, combattere da
valoroso, fare magie. Questi fu il progenitore del germano Wotan, che era
chiamato anche Odino ed era il signore del Walhalla.
Wotan
era il grande druida ed era il signore del calore magico che infiamma il
guerriero. Dunque tra Germani e Celti c’è questa trinità divina in comune:
Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, presso i primi; Teutate, Eso e Tarani presso
i secondi. Teutate era il più potente e si placava con sacrifici di sangue. Eso
era identificato con il toro, anche egli assetato di sangue. Tarani era il dio
della guerra e preferiva il rogo. Successivamente, Lug prese il potere su
tutti. La volta celeste era la proiezione della vita terrena, per questo si
ipotizzavano lotte e nascite di dei. Alla fine uno prevalse e fu il successo
dei druidi. Il concetto di trinità è molto ricorrente nelle religioni dei
popoli di origine orientale.
Roma
Nel 322
a.C. i Senoni ed i Boi avevano colonizzato la Gallia Cisalpina ed erano scesi
sino alle Marche, annientando gli Etruschi, che avevano fondato la Lega delle
Dodici Città, e le popolazioni italiche.
Il primo
contatto di Roma con i Celti fu nel 387 a.C., quando Brenno, capo dei Senoni,
presso il fiume Allia ottenne una grande vittoria e marciò su Roma,
saccheggiandola ed incendiandola.
I Romani
si rifugiarono sulla rocca del Campidoglio dove furono presi d’assedio, senza
capitolare. Qui si assistette all’episodio di Brenno che, per andare via,
pretese dell’oro (probabilmente quello del sacco di Veio), pronunciando la
famosa frase: "guai ai vinti". In realtà sembra più probabile che tra
i Senoni ed i Romani fu siglato un accordo di pace e che la propaganda romana
abbia enfatizzato questo episodio al fine di esaltare la gloria capitolina.
Successivamente la città fu ricostruita sotto la guida di Furio Camillo, che
riuscì a convincere la popolazione a non trasferirsi a Veio, città etrusca
appena conquistata, ancora intatta. Dopo questo avvenimento i Romani
svilupparono un certo terrore verso i Celti.
L’episodio
appena descritto nacque a seguito di un’invasione celtica presso l’Etruria
(avevano già conquistato il nord Italia che precedentemente era stato sotto
l’influenza etrusca), avvenuta esattamente a Chiusi, centro di produzione
vinicola di cui i Celti erano particolarmente ghiotti.
L’aneddoto
legato a questo episodio narra di un certo Aruns di Chiusi, la cui moglie era
stata tradita da un lucumone locale, che chiamò i Celti in suo aiuto. Quando
videro l’orda gallica alle porte i chiusini chiamarono i Romani, che bramosi di
conquista nei confronti etruschi, ma diffidenti verso gli invasori, si
limitarono ad inviare tre ambasciatori a trattare la pace. Tuttavia questi
offesero i Celti e combatterono al fianco degli Etruschi contro di loro,
perdendo. In seguito a questo episodio, Brenno, dopo aver distrutto la
tirrenica Melpun, marciò verso Roma come rappresaglia. Naturalmente c’è una
ragione più pratica dietro questa guerra: i Celti avevano bisogno di terre e di
ricchezze ed effettuavano continuamente delle migrazioni.
I Celti
ricompaiano contro i Romani nella battaglia di Sentinum del 295 a.C., nel corso
della terza guerra sannitica, accanto ai Sanniti, Umbri, Etruschi , Lucani e
Sabini dove subiscono una sconfitta.
I Romani
erano risoluti nell’allontanare il pericolo celtico dall’Italia e nel 285 a.C.
perpetuarono un genocidio (uno dei primi nella storia) nei confronti dei
Senoni, erigendo sul luogo Sina Gallica (Senigallia) e più a nord Rimini.
Inizia, così, la conquista dell’ager gallicus, cioè le alte Marche. Di
conseguenza i Galli della regione minacciata (Boi, Senoni, Taurisci, Insubri)
si alleano con gli Etruschi e marciano su Roma. Nel 283 a.C., presso il lago
Vadimone, i Romani li massacrano, tingendo di rosso le acque del Tevere. Si
racconta in proposito che i cittadini dell’Urbe appresero dalla notizia
vittoriosa vedendo il colore delle acque, ancora prima che facessero ritorno i
soldati.
Successivamente
i mercenari celtici si alleano ad Asdrubale in Spagna. Questi però firma il
trattato dell’Ebro (226 a.C.), con il quale Cartaginesi e Romani si spartiscono
la Spagna e riconoscono i Celti come comuni nemici. Questo trattato fu la fine
per i punici che non capirono che solo alleandosi con le tribù locali potevano
battere Roma.
Nel 225
a.C. i Celti (50.000 fanti e 25.000 cavalieri, come racconta Polibio), aiutati
dagli Etruschi, sono sconfitti a Talamone dai Romani. Nella circostanza vengono
sottomessi anche i Liguri, popolazione italica, abile nella pesca e nella
navigazione marittima, che aveva frequenti commerci con i Celti ed i greci di
Marsiglia. Dopo questo episodio, Roma si rende conto che le tribù celtiche si
possono sconfiggere con un esercito addestrato e organizzato.
Nel 222
a.C., dopo la vittoria di Clastidium, la Valle Padana viene conquistata agli
Insubri (Milano, loro capitale, distrutta) e alcune roccaforti celtiche, già
città etrusche, vengono prese: Piacenza, città dei Boi; Cremona, città degli
Insubri; Aquileia. Tra il 189 a.C. ed il 183 a.C. sarà la volta delle città dei
Boi di Parma, Modena e Bologna.
I Celti
appoggiano Annibale che cala in Italia, uscendone di nuovo sconfitti. In
particolare il loro impeto bellico si rivelava dannoso per le battaglie del
generale cartaginese, come successe nella battaglia sul fiume Trebbia. In
Gallia Cisalpina continua la guerriglia celtica fino al 175 a.C., data in cui
l’Italia settentrionale è romana.
Tra il
123 a.C. ed il 121 a.C. i consoli Caio Sestio Calvino, Domizio Adenobardo e
Quinto Fabio Massimo conquistano la Gallia Narbonese.
Nel 113
a.C. i Celti si ripresentano ai Romani al di là delle Alpi (parola di origine
celtica) a Noreia, l’odierna Klagenfurt, dove Norici e Taurisci, in una fase di
migrazione verso il nordeuropa sconfiggono le truppe di Papinio Cambone.
Nel 109
a.C., presso Arausio (odierna Orange), sempre in una fase di migrazione, i
Cimbri e i Cimmerri, popolo celtoscita, apportano una nuova sconfitta ai
soldati romani. Dunque, i Celti diventano di nuovo uno spettro per la città
capitolina. Si può osservare che in questo periodo si assiste a diverse fasi di
migrazioni celtiche, con influenze sia germaniche che orientali, nessuna però
valica le Alpi. Nel 107 a.C. gli Elvezi ed alcune tribù germaniche sconfiggono
presso Agen truppe romane al comando di Longino.
Per
allontanare definitivamente la paura celtica i Romani devono attendere
l’avvento di Mario, terzo eroe di Roma dopo Furio Camillo e Romolo. Questi
identifica subito il punto debole dei Celti nel furore del primo assalto ed
addestra con una rigida disciplina le truppe romane, facendole diventare una
perfetta macchina da guerra. Così nel 102 e 101 a.C. prima ad Aquae Sextiae
(odierna Aix en Provence) e poi a Vercelli furono massacrati migliaia di Cimbri
e Teutoni. In entrambe le circostanze, durante le battaglie, Mario fece
attendere le sue truppe in zone fortificate, in modo che i soldati si
abituassero alle urla ed all’aspetto terrorizzante dei Celti. Una volta
diminuito il furore bellico, i soldati romani assalirono i nemici, ormai
esausti e indeboliti. Il pericolo celtico era cessato e Roma poteva dedicarsi
ad una espansione in Europa.
La
politica di conquista estera dei Romani si basava sul concetto di eliminare
eventuali pericoli che li potessero minacciare. Per questo motivo presero la
Gallia Cisalpina che era abitata da popolazioni celtiche che potavano
minacciarli, poi la penisola iberica, che aveva delle fortificazioni
cartaginesi e, successivamente, la Gallia Narbonese come territorio di
collegamento tra i due conquistati.
Gallia e
Germania
Cesare
racconta della Gallia nel suo "De Bello Gallico" ed in modo
grossolano la presenta come una terra divisa tra tre popoli: gli Aquitani a
sud-ovest, i Belgi a nord-est ed i Galli nel resto. A queste tre parti viene
aggiunta quella dei Germani per puri scopi propagandistici, al fine di isolare
le varie tribù tra loro, richiamando l’antica rivalità che c’era tra i Celti ed
i Germani.
Secondo
Plutarco, Cesare, in dieci anni di campagne militari, distrusse 800 città e
villaggi, uccise e rese schiavi 3.000.000 di persone.
La
guerra di conquista gallica dei Romani, basata sulla politica del "dividi
et impera", iniziò nel 58 a.C. quando gli Elvezi (nel numero di 360.000),
spaventati dall’invasione dei Suebi dalla Germania, migrarono dalla Svizzera,
distruggendo tutti i loro villaggi per non lasciarli al nemico.
A tale
proposito, ricordiamo che numerosi ritrovamenti archeologici testimoniano che
nel basso palatinato esisteva una linea difensiva eretta dai Celti nei
confronti dei Germani. Nel caso dei Suebi, si dimostrò che questi ultimi
avevano sfondato la linea difensiva. Inoltre, nel 60 a.C. Daci e Traci, popoli
della Pannonia, distrussero Bratislava, capitale dei Boi e costrinsero alla
migrazione la popolazione celtica locale. Questo dimostra che i Celti si
sentivano continuamente minacciati dai Romani, dai Germani e dalle popolazioni
dell’europa orientale. A tale proposito ricordiamo che nel 16 a.C. i Marcomanni
invasero il territorio dei Boi.
Cesare
prese a pretesto l’episodio dei Suebi per far sentire minacciata la Gallia
Narbonese ed in particolare gli Edui con cui aveva stretto alleanza. Inseguì ed
affrontò gli Elvezi nella Gallia non romana a Bibratte e Lugdunum,
sconfiggendoli e ricacciandoli indietro, uccidendone circa 250.000.
E’
opportuno precisare che il senato romano non era favorevole a questa guerra,
perché si trattava di questioni tra "selvaggi", ma Cesare era
interessato perché aveva bisogno di denaro: la sua corsa alla dittatura
rischiava di farlo indebitare con Crasso. Cesare aveva anche fatto una politica
denigratoria dei Germani nei confronti dei Galli, sottolineando le differenze
tra i due popoli (in realtà erano minori), finchè sempre nel 58 a.C. a
Mulhausen sconfisse i Suebi di Ariovisto, lasciando truppe romane in territorio
germanico. Per tutto ciò Cesare ottenne a Roma un giorno di fasti.
Nel 57
a.C., con una politica di propaganda, Cesare sconfigge una ad una tutte le
tribù dei Belgi che era riuscito a dividere (Suessoni, Bellovaci, Ambiani,
Aduatuci, Nervii), facendole di nuovo apparire come un pericolo per gli Edui.
Successivamente
furono occupate Normandia e Bretagna, anche se i Gesati si difesero bene.
Scoppiarono varie rivolte e Cesare fu costretto a correre per tutta la Gallia.
Annientò gli Aquitani, sconfisse i Veneti in Bretagna con una flotta leggera
allestita per contrastare l’impeto dell’Atlantico. Sconfisse ed inseguì oltre
il Reno Tenteri e Usipeti, allestendo con i suoi genieri un ponte di legno
lasciato intatto a metà come monito di un eventuale ritorno. In tutte queste
rappresaglie, come esempio, distruggeva villaggi e compiva stragi.
Al
ritorno dalla seconda spedizione in Britannia, Cesare affronta e sconfigge
prima Induziomaro capo dei Treviri, che aveva assediato un campo romano, e poi
Ambiorige capo degli Eburoni, che, sotto il segno di una Gallia comune, aveva
sopraffatto con l’inganno i luogotenenti Sabino e Cotta. La strategia cesariana
di re contro re stava tramontando. Entrambi i capi furono uccisi nel 53 a.C.
dai Romani, ma i due avevano innescato una guerra civile: erano i
rappresentanti di nuove classi sociali, composte da una discreta popolazione,
che volevano soppiantare le vecchie filoromane, esigue come popolazione. Si
trattava di gruppi non organizzati militarmente che volevano affrontare la
potente macchina bellica eretta da Cesare.
Nel 52
a.C. fu la volta di Vercingetorige, capo degli Alverni.
E’
opportuno precisare che molti nomi di re celtici, non sono reali. Essi
richiamano il nome del popolo da cui provengono questi personaggi e fanno
direttamente riferimento al concetto di vigore e di forza tipico della
filosofia di vita celtica. Vercingetorige ne è un esempio tipico: ver: super,
cinget: guerriero, rix: re.
Fu il
fautore della "terra bruciata" e distrusse villaggi gallici, facendo
trasferire popolazioni e beni. Questa politica si fermò ad Avaricum, città dei
Biturigi che per la sua bellezza non fu distrutta, che fu assediata da Cesare,
il quale, tra la fame e gli stenti dei suoi soldati frutto della politica del
re alverno, in 25 giorni eresse un rampa fino alle mura di cinta della città.
Vercingetorige non attaccò e si ritirò nelle vicine paludi. I Romani
massacrarono la popolazione. Il capo alverno aveva dimostrato che era inutile
affrontare i romani direttamente e difendere le città da assedi. In questo modo
ebbe credito presso i popoli gallici.
Successivamente
fu la volta di Gergovia, capitale degli Alverni, dove i Romani subirono la
prima sconfitta. Si trattava di una città circondata da montagne, ben
fortificata, dove Cesare attuò un’azione da commando che andò a vuoto, per
l’intervento delle milizie di Vercingetorige : morirono 700 soldati e 46
centurioni.
Cesare
meditava il ritiro dalla Gallia Narbonese, ma gli Allobrogi bloccavano i passi
alpini. I Romani sconfissero i Galli che anziché usare una tattica prudente, si
richiamarono al loro furore bellico, e decisero di puntare verso Alesia, città
sacra dei Mandubi ove risiedeva il capo alverno. Qui Cesare fece costruire
delle doppie mura di assedio alte tre metri tutte attorno, con trappole e
fossati di acqua di sette metri. La cavalleria di Vercingetorige andò a
chiamare aiuto, lasciando 80.000 Galli nella città, e si presentarono attorno
ai Romani 240.000 fanti e 8.000 cavalieri. La popolazione alesiana non adatta
alla guerra (vecchi, bambini, donne) che costituiva bocche da sfamare fu
risparmiata al cannibalismo e mandata verso i Romani che li lasciarono nella
terra di nessuno a morire di fame. Cominciarono gli attacchi gallici sia
dall’esterno che all’interno che i Romani respinsero bene.
Alla
fine, stremati dalla fame gli alesiani consegnarono Vercingetorige ai Romani
che lo condussero a Roma ove, nel corso dei fasti fu ucciso nel 46 a.C.. Due
anni dopo morirà anche Cesare. Piccole rivolte successive furono sedate: la
Gallia era sottomessa. Il risultato di tutto ciò fu la comparsa della città di
Hradiste in Boemia, abitata dagli ex abitanti Gergovia, Alesia, Bibratte e la
migrazione di popoli celtici verso quelli germanici. Inoltre i Romani
proibirono il culto della religione celtica. La cosa fu nuova perché
generalmente ai vinti era lasciata la professione della propria religione.
Anche questo faceva parte di una strategia tendente a distruggere la cultura
celtica che si era opposta strenuamente a quella romana (come fu per l’etrusca,
la sannita, la cartaginese). Tuttavia Caracalla, Diocleziano e Massimino si
inginocchiarono davanti a divinità celtiche e lo stesso Costantino ebbe la sua
famosa visione in un tempio celtico.
Augusto,
il successore di Cesare, consolidò l’opera di conquista della Gallia. Per
diverso tempo abitò ad Aquileia, per seguire la situazione più da vicino.
Stabilì a Lione il centro delle operazioni, da cui partirono le diverse spedizioni
militari, affidate prima al suo genero Vipsiano Agrippa, poi ai suoi figliastri
Tiberio e Druso. Questi ultimi, tra il 15 ed il 14 a.C., si spingono verso
l’Illiria, oltre il Danubio, distruggendo Manching, e fondano tra il Danubio ed
il versante meridionale delle Alpi le province romane della Rezia e del Norico.
In questo modo si impiantò e si sfruttò una rete di commercio con l’Europa
centrale, nonché i suoi metalli.
Successivamente
l’attività bellica si concentrò soprattutto contro i Germani, ma, dopo alcuni
successi di Tiberio (5 d.C.), le truppe romane, coordinate da Germanico, figlio
di Druso, non riuscirono ad avanzare in un terreno così impervio ed in un clima
ostile. Nel 9 d.C. 20.000 soldati, al comando di L.Q. Varo, furono uccisi nella
battaglia di Teutoburgo. Fu l’epilogo della conquista germanica, nonostante le
operazioni di Germanico, che, nel 15 d.C., durante il regno di Tiberio, navigò
lungo il Reno dal Mar del Nord. I Romani decisero di non avanzare più e si
attestarono lungo il Reno, su una linea difensiva che alcuni secoli dopo sarà
distrutta dalle invasioni barbariche. L’attività espansionistica, guidata
sempre da Germanico, si spostò in Illiria e Pannonia.
Britannia
Nel 55
a.C. Cesare esplorò la Britannia per pochi giorni, attraversando la Manica in
modo avventuroso. Entrò in contatto con le popolazioni locali e studiò il
territorio, trovandolo ricco di stagno e di altri minerali. La cosa a Roma ebbe
grande successo, al punto che, per festeggiare anche le vittorie galliche, gli
furono attribuiti venti giorni di fasti. Nel 54 a.C. Cesare ritorna in
Britannia in modo più stabile e sconfigge Cassivellauno che gli si era opposto,
fondando un protettorato in tutta fretta, dovendo tornare subito in Gallia, per
sedare le rivolte.
La Britannia
appare subito più arretrata della Gallia: non esistono città, ma solo villaggi
di capanne; è presente solo qualche oppida e la struttura sociale si basa sulla
divisione tra aristocratici e popolani.
Fino al
40 d.C. i Romani non avvisteranno più le coste britanniche. Dopo la conquista
di Cesare, i Britanni sviluppano un’intensa attività piratesca, al punto che
Caligola teme uno sbarco sulle coste inglesi. Successivamente dal 43 al 47
d.C., il governatore Aulo Plauzio, per incarico dell’imperatore Claudio, occupa
la parte meridionale dell’Inghilterra (Kent, valle del Tamigi e Colchester,
capitale dei Trinovanti). Lo stesso Claudio venne a ricevere un giuramento di
fedeltà dei re locali.
Successivamente,
dal 47 al 52 d.C., fu la volta del governatore Ostorio Scapula che conquistò
l’ovest, spingendosi nel Galles, e con l’aiuto della regina Cartimandua,
sottomise i Briganti. La regina, invaghitasi del giovane Vellocato, si unì ai
Romani per eliminare suo marito Venuzio. Questo episodio dimostra il valore
delle donne presso le popolazioni celtiche: pronte a tutto per ottenere un
risultato e di forte carisma, al punto da muovere tutta una popolazione.
I
Briganti, alla fine, si rifiutarono di seguire la regina, si unirono a Venunzio
e lottarono contro i Romani.
Nel 59
d.C. Claudio venne avvelenato e fu la volta di Nerone che concluse nel modo più
amaro la dinastia julio-claudia. Nuovo governatore della Britannia, sede di
continue rivolte, era Svetonio Paolino che (secondo Livio, per cui da
verificare) nel 61 d.C. conquista l’isola sacra dei Druidi di Mona, l’odierna
Anglesey, perdendo 70.000 uomini, e reprime nel sangue la rivolta degli Iceni
guidati dalla regina Boudicca.
Di nuovo
compare una donna nella storia inglese: stavolta esprime coraggio e
risentimento popolare. La ferocia della repressione fece così effetto al senato
romano che fu destituito il governatore e furono nominati al suo posto prima Petronio
Turpiliano e poi Trebellio Massimo (62 – 69 d.C.), che con estremo successo
"romanizzano" la Britannia, affievolendo il vigore dei Celti:
Londinum (Londra) è sede di un grande foro, vengono costruite città e strade, i
costumi romani vengono ripresi dalle diverse tribù locali.
Con
l’avvento della dinastia dei Flavi a Roma, Vespasiano, riprende la conquista
romana in Britannia. Tra il 71 e il 78 d.C. Petilio Ceriale e Frontino
sottomettono Briganti e Siluri e conquistano definitivamente il Galles, luogo
di estrema resistenza, e parte del nord dell’Inghilterra, fondando la città di
Eburacum (odierna York).
Tra il
60 ed l’84 d.C. Giulio Agricola, marsigliese di nascita e dunque conoscitore
dei Celti, ricevette diversi incarichi in Britannia, dapprima come funzionario,
poi come legato ed infine come governatore (con una breve parentesi di
governatorato in Aquitania). Vide passare davanti a se vari imperatori,
mostrandosi sempre dalla parte del più forte al momento giusto: da Nerone a
Galba, da Vespasiano a Domiziano che lo estromise. Era suocero di Tacito ed
ebbe una forte propaganda.
Riconquista
l’isola Mona, che in precedenza Livio aveva data per romana; guida sette
spedizioni verso il nord, erigendo forti su tutta la linea del Forth-Clyde. La
Caledonia era nel frattempo divenuta luogo di accoglienza per chi era
antiromano ed era stato costretto alla fuga. Nelle battaglie impiegò molti
Celti locali: combattevano britanni contro altri britanni (questo fu un
risultato della romanizzazione attivata in precedenza). Presso il Monte
Garupio, vicino Aberdeen, sconfisse Calgaco, re dei Pitti, compì una spedizione
esplorativa sulle isole Orcadi, ma dovette fermare la sua avanzata, perché
richiamato da Domiziano. Questi riteneva la Caledonia una terra aspra e desolata,
che non offriva ricchezze, per cui troppo costosa da mantenere. Il successo di
Giulio Agricola finisce con le spedizioni in Caledonia.
Nel 120
d.C. Adriano, adotta una politica attendista e fa erigere il famoso Vallo
Adriano, lungo circa 100 km, composto da fortini e protetto da guarnigioni.
L’imperatore lo etichettò con il termine "necessitas". Ora la
Britannia si divideva in due provincie: Britannia Superiore, con capitale
Cester nel Galles e Britannia Inferiore, con capitale Londra.
Intorno
al 145 d.C., con l’ascesa al potere di Antonino Pio, i Romani avanzarono in
Britannia, erigendo sopra Edimburgo, sulla linea Forth-Clyde, il Vallo
Antonino.
Nel 208
d.C., con l’avvento della dinastia dei Severi a Roma, Settimio Severo in
persona si recò a York, dove perse la vita, per sedare una rivolta britannica.
La linea di confine arretrò di nuovo al Vallo Adriano. Dopo il 211 d.C.
Caracalla tolse le guarnigioni romane dal Vallo e vi pose quelle locali:
cominciò l’abbandono della Britannia. Fino al 360 d.C. ci furono diverse
rivolte delle tribù locali e Carausio si proclama re di Britannia, fino a
quando il cesare Costanzo Cloro riconquista l’isola per il suo augusto
Massimino, collega di Diocleziano. Nel 367 d.C. Pitti, Scotti, Sassoni e Angli
(due tribù germaniche) invasero la Britannia e alcuni Britanni si stanziarono
in Cornovaglia e Galles, altri migrarono in Bretagna. Magno Massimo respinge
l’attacco e si proclama imperatore, finendo ucciso ad Aquileia.
Nel 410
d.C. l’imperatore Onorio, prima della sua sconfitta e capitolazione ad opera
dei Goti, comunica alla Britannia che non è più romana. Infine Costantino
scelse la religione cristiana e la croce cristiana (XP- Christos Rho – in
greco) prese il sopravvento su quella celtica.
Sacrifici
umani al tempo dei Celti
Il sacrificio umano
rappresenta il momento più cruento della religiosità dell'uomo, accompagnandone
il cammino nel corso della storia. L'omicidio di un essere umano rappresentava
un'offerta alla divinità, come il padre di un più complesso rito.
Nelle culture antiche
il sacrificio di un uomo aveva uno doppio scopo, da una parte propiziare i
favori di un dio e dall'altra placare le ire di una divinità. In entrambi i
casi il favore era rivolto alle popolazioni che quell'omicidio perpetravano.
Con il trascorrere del tempo il ricorso a queste pratiche diminuì sensibilmente
all'interno del continente europeo rimanendo in vigore sino alle soglie, in
diversi casi anche oltre, della colonizzazione da parte degli abitanti del
vecchio continente di quelle zone ove il sacrifico assumeva una ritualità
precisa. I motivi che spingevano queste popolazioni ad offrire uomini, donne o
bambini alla divinità possiamo sempre farle rientrare nelle casistiche
dell'assicurarsi un favore o di placare l'ira della divinità cui il sacrificio
era rivolto. Nell'ultimo periodo, grazie ai ritrovamenti archeologici dei bimbi
sacrificati sulle Ande, abbiamo potuto confermare le scritture dei primi
evangelizzatori cristiani che si spinsero sino agli estremi lembi dell'America
meridionale che, diffusamente, diedero notizia di tali pratiche. Un caso che
ancora oggi è irrisolto riguarda questa ritualità presso le popolazioni
celtiche. Presso i Celti il sacrificio umano si è conservato più a lungo,
rivestendo un aspetto di espiazione e purificazione. In un'ottica leggermente
diversa possiamo situare la decapitazione e la mutilazione dei nemici,
accompagnate da offerte rituali, pratica comune presso queste popolazioni.
Per comprendere quanto di vero ci sia nella ritualità celtica dobbiamo considerare le testimonianze degli autori classici, che sembrano attingere da un'unica fonte. Le prove archeologiche che possono confermare la pratica del sacrificio umano presso queste popolazioni sono insignificanti e, con molta probabilità, se tale rituale veniva utilizzato lo era solo in casi eccezionali. I Celti furono un insieme di popoli indoeuropei che, nel periodo di massimo splendore ovvero intorno al IV-III secolo precedenti la nascita di Cristo, erano estesi in un'ampia area dell'Europa, dalle isole britanniche sino al bacino del Danubio, oltre ad alcuni insediamenti più a meridione. Le varie popolazioni erano unite dalle stesse origini etniche e culturali, dalla condivisione di uno stesso fondo linguistico e da una medesima visione religiosa. I Celti rimasero sempre politicamente frazionati: tra i vari gruppi si ricordano i Britanni, i Galli, i Pannoni, I Celtiberi e i Galati. I Celti furono portatori di una originale e articolata cultura. Queste popolazioni furono soggette, a partire da circa il II secolo avanti Cristo, ad una crescente pressione di altri due gruppi indoeuropei: i Germani a Nord ed i Romani a Sud.
Per quanto concerne i, presunti, sacrifici umani perpetrati dai Celti, Giulio Cesare ha lasciato testimonianza nel De Bello Gallico descrivendo il sacrificio realizzato mediante il fuoco che prevedeva il rogo di una enorme figura di vimini riempita di uomini. La principale testimonianza sulle credenze e gli usi religiosi dei Celti, pur essendo riferita specificamente ai Galli, attesta verosimilmente una situazione in larga parte comune all'intero gruppo celtico all'epoca dei fatti narrati, ovvero intorno al I secolo avanti Cristo. La pratica del sacrificio umano era stata citata in precedenza da Sopatero di Paphos, Cipro, contemporaneo di Alessandro il Grande, quando scrisse che i Celti di Galatia, Asia Minore, erano soliti sacrificare i propri prigionieri in onore agli dei bruciandoli al termine di una battaglia vinta. The Wicker Man, traducibile in uomo di vimini, era una grande statua in vimini utilizzata dagli antichi druidi, sacerdoti del paganesimo celtico, per il sacrificio.
Dato che
esistono poche prove archeologiche di sacrifici umani possiamo avanzare
l'ipotesi che greci e romani diffondessero informazioni negative per creare il
disprezzo verso le popolazioni celtiche? Non esistono prove delle pratiche
descritte da Giulio Cesare e le storie di sacrifici umani sembrano derivare da
una unica fonte, Poseidonio, le cui affermazioni non sono supportate da prove.
Altri scrittori romani dell'epoca, da Cicerone a Svetonio, da Lucano a Tacito per
chiudere con Plinio il Vecchio, descrivevano il sacrifico umano tra i Celti.
Solo Strabone e Giulio Cesare menzionano l'uomo di vimini come uno dei diversi
modi in cui i Druidi della Gallia compivano sacrifici. Cesare riferisce che
alcuni Galli costruirono The Wicker Man con bastoni e misero uomini vivi
all'interno, poi incendiarono il tutto per rendere omaggio agli dei. Cesare
scrive che sebbene i druidi utilizzassero uomini ritenuti colpevoli di crimini
a volte usavano schiavi quando non erano in grado di trovare delinquenti.
Tra le
scarse rilevanze archeologiche relative ai sacrifici umani dei Celti non
possiamo scordarci il ritrovamento nell'estate del 1984 dell'Uomo di Lindow,
classica mummia di palude risalente all'età del ferro rinvenuta in una torbiera
nella contea inglese di Cheshire. La datazione al radio-carbonio indica come
data della morte un intervallo di tempo compreso tra il II secolo avanti Cristo
e l'anno 119. La mummia appartiene ad un uomo di circa 25 anni dal peso di
circa 60 kg. L'uomo sembra aver subito un rituale di triplice morte: la vittima
subì tre colpi alla testa, il taglio della gola e la sepoltura a faccia in giù
nella torbiera. Queste rilevanze sembrerebbero indicare un preciso rituale
poiché la religione di queste popolazioni si basava su un concetto di
triplicità, e nel caso dell'uomo di Lindow rappresentato dalla triplice
esecuzione.
Gli
studiosi ancora oggi non sono d'accordo se si tratti di un sacrificio umano o
di una esecuzione, o di entrambe le cose. La dottoressa Anne Ross suggerì che
l'uomo di Lindow fosse un druido, come si intuirebbe dalle scarse tracce di
usura da lavoro sul corpo. La stessa scienziata avanzò l'ipotesi che l'uomo fu
sacrificato durante la festività di Beltane, dopo un pasto simbolico di pane e
grano bruciato. Il parere dello scrittore Grisby è nettamente diverso poiché
sostiene che la vittima fu sacrificata interpretando il ruolo di divinità
morente, poi rinascente, come l'Osiride egizio. La tesi di Grisby pare
supportata dal fatto che l'uomo fu decorato con una sostanza vegetale di colore
verde. Provando a superare le ipotesi degli scienziati per quanto concerne
l'uomo di Lindow, Enrico Campanile, nel libro Le religioni antiche,
afferma che “in quasi tutti gli autori greci e latini è fortissimo il
pregiudizio poiché essi pongono in rilievo tutto ciò che vi appariva barbarico
e incivile”. Lo stesso studioso afferma ancora che “l'opinione pubblica vedeva
nei Celti l'espressione di tutto ciò che era negativo, crudele, barbarico,
incivile e anche sciocco, irrazionale, bestiale, e spesso sostanziava tali
giudizi con riferimento a specifici usi valutati, però, in maniera del tutto
astratta e avulsi dal loro contesto culturale o, addirittura, interpretati in
maniera arbitraria e scorretta”.
La
domanda pare scontata: fu il solo Gaio Giulio Cesare ad esagerare, se non
addirittura inventare, eventi riguardanti la ritualità celtica con particolare
riferimento al sacrificio umano? Assolutamente no, anche Cicerone ricordò il
sacrificio umano di ladri e assassini, in mancanza dei quali si sacrificavano
persone comuni, in toni denigratori.
Solo i
romani producevano esagerazioni o menzogne sulle popolazioni celtiche? No,
poiché i greci non furono da meno. Lo scrittore Diodoro riferì di episodi di
sacrifici umani in questi termini: “quando debbono divinare su questioni
importanti, praticano una strana e incredibile usanza, uccidendo un uomo con
una coltellata nella regione sopra il diaframma. Predicono il futuro osservando
le convulsioni degli arti e il modo in cui si sparge il sangue”. La
denigrazione del nemico esiste da sempre e Gaio Giulio Cesare creò,
probabilmente, notizie infondate per giustificare le guerre contro i Galli.
Pare strano agli occhi di un moderno essere umano tale profondo disprezzo per
determinate pratiche, purché inventate, da parte di un popolo che delirava per
i combattimenti tra gladiatori o per la morte di esseri umani dati in basto
alle belve feroci. Parrebbe quasi che si esagerasse la brutale ritualità del
nemico, in questo caso i Celti, per giustificare o sminuire la propria.
Celti-da
Samhain ad' Halloween
In tutta
l’Europa antica, la fine del raccolto coincideva con la festività dedicata alle
anime dei trapassati: vediamo come si è giunti dalla celebrazione celtica di
Samhain a quella odierna di Halloween, passando per la ricorrenza cristiana di
Ognissanti.
A tutti
noi è almeno una volta capitato, quando eravamo piccoli, di travestirci da
mostri, vampiri, streghe o altre creature sovrannaturali. La ormai famigerata
notte di Halloween, prossima ad arrivare, ha contagiato con il suo lato
consumistico e profano tutta una serie di tradizioni che risalgono ad un
passato lontano e affascinante.
La
moderna festa di Halloween poggia su tutta una serie di errate
interpretazioni sviluppatesi nella mentalità cupa dell’età Vittoriana, dove il
gusto gotico per l’occultismo, la negromanzia, la divinazione e il macabro in
genere riscuoteva molto successo nei ceti medio-alti del mondo anglosassone. A
questi aspetti, che diedero il substrato materiale, si unirono quelli più
commerciali che si svilupparono qualche decennio dopo in America, dove sono
andati a creare la festa tanto apprezzata da tutti quei bambini che vanno
in giro per le case al ritornello di“Trick or Treat”.
Qui mi
ripropongo, al contrario, di spiegare al meglio delle mie possibilità la
profondità e la spiritualità di tutta una serie di culti che, dal pagano
mondo agricolo celtico e mediterraneo, sono arrivati alle porte dell’era
moderna attraverso le festività religiose cristiane .
Primo
mito da sfatare. Il termine Halloween è un termine cristiano.
É la corruzione della frase “All Hallow’s
eve” ovvero “Sera della festa dei Santi” – da hallow, che
vuol dire santificare e dall’abbreviazione di evening “eve”, che vuol
dire sera. Questo perché la notte del 31 ottobre venne, nell’Alto Medioevo, a
coincidere con la veglia in attesa della celebrazione di Ognissanti del giorno
successivo. Ma andiamo per gradi.
Tutte le culture agricole dell’antichità avevano una serie di rituali e momenti cultuali che scandivano passaggi importanti dell’anno. I romani – mutuandole spesso dagli etruschi – avevano alcune festività legate al ciclo di nascita-morte-rinascita della vita. Uno, molto arcaico, era il Mundus Cereris, nel quale si pensava che in tre specifici giorni dell’anno (24 agosto, 5 ottobre, 8 novembre) il mondo dei vivi e quello dei morti sarebbero entrati in comunicazione. Stessa cosa avveniva nei Saturnalia (tra il 17 e il 23 dicembre), nei quali giorni le divinità infere e gli spiriti dei defunti avevano la facoltà di tornare sulla terra e perciò andavano placate con offerte di cibo, banchetti e sacrifici.
I culti
che, ai fini di questo articolo, ci interessa indagare di più, sono però quelli
celtici. La festa di Samhain, che intercorreva tra il 30 ottobre e il
2 di novembre, detta anche Trinuxtion Samonio capodanno celtico, è stata
quella pratica rituale sulla quale si poggerà in seguito la liturgia
cristiana. Samhain è stato visto, nella concezione gotica che abbiamo
accennato all’inizio, come un vero e proprio “Principe delle Tenebre” o
un oscuro “Signore della Morte” [3], ma in verità non ci sta alcuna
prova che fosse una divinità celtica. In gaelico antico samain – oppure samuin o
ancora samfuin – vuole solo dire “fine dell’estate” dall’unione
delle parole sam e fuin, oppure, secondo un’altra lettura,
semplicemente “riunirsi assieme”. Questo perché nella cultura celtica
l’anno solare era diviso in due periodi; l’inverno, detto geimhreh, che
iniziava con la festa di Samhain e l’estate, detta samradh, che
iniziava con la festa di Beltane.
L’anno
agricolo nuovo, da qui il fatto che Samhain risultasse essere il
capodanno celtico, iniziava proprio con novembre, poco dopo la fine dei
raccolti, che erano stati appena immagazzinati per l’inverno. Una festa
del genere era presente anche nel mondo mediterraneo, come testimonia il
culto di Cerere proprio tra ottobre e novembre, ma i latini scelsero di far
coincidere l’inizio dell’anno con la primavera – da primum, ovvero prima
stagione – e il mese di aprile – da aperire, ovvero che apre l’anno.
Edwin
Landseer, “Scene from A Midsummer Night’s Dream. Titania and Bottom”.
Ma che
cosa si faceva durante la festa di Samhain? In primo luogo era un momento
di ricongiungimento di gruppi familiari, clan, tribù, persino nazioni intere –
gli irlandesi si riunivano presso la sacra collina reale di Tara, ad esempio –
con il fine di ringraziare gli dei per il buon raccolto e propiziarseli per
quello che si andava ad iniziare nell’anno a venire. Allo stesso tempo era
un momento nel quale la terra andava simbolicamente a dormire, quindi a
morire per poi rinascere la primavera seguente. Per questo motivo quei giorni
erano considerati come un momento dove il mondo reale dei vivi si
incontrava con quello di Annwyn – degli spiriti – e di Sidhe –
delle fate
In
ragione di questo si pensava che gli spiriti di coloro che erano morti
sarebbero potuti temporaneamente sfuggire al loro stato per tornare a far
visita alle persone care ancora in vita. Dal canto loro, per facilitare il loro
arrivo, era consuetudine mettere delle candele accese alle finestre delle case,
per indicare loro la strada. Allo stesso tempo si preparava del cibo in più e
si apparecchiava per coloro che erano scomparsi, in modo che potessero unirsi
alla tavola dei loro familiari ancora una volta. I romani e gli etruschi,
ma anche i celti e perfino i cristiani, talvolta sollevano recarsi direttamente
nei luoghi di sepoltura, per pranzare con i defunti, tra le tombe.
Bisogna
capire che il mondo dei morti non era visto in chiave negativa o paurosa nel
passato, soprattutto quando riguardava il rispetto e il ricordo dei proprio
cari estinti. Questi ultimi infatti, quando giungevano in quei giorni
sulla terra, venivano ad incontrare gioiosamente i loro familiari, che a
loro volta preparavano banchetti in loro onore. Queste tradizioni
ancestrali permangono ancora in certi ambienti rurali. In Sicilia esistono
infatti i dolci dei morti, antico ricordo del cibo che si lasciava agli spiriti
dei defunti proprio in questi giorni. In quanto alla Sardegna, mia nonna
mi ha spesso raccontato che, nella notte tra l’1 e il 2 di novembre, era uso
comune in paese il porre candele accese alle finestre, apparecchiare le tavole
con posti in più e lasciare del cibo vicino alla porta d’ingresso delle case.
Nel
mondo celtico, incentrato sul tempo cosmico rappresentato dal cerchio di
nascita-vita-morte-rinascita, il passaggio dall’estate all’autunno-inverno era
proprio il momento in cui la terra moriva per poi rinascere [6]. Per
questo la festa di Samhain aveva tutta una serie di aspetti
mitico-rituali profondi e articolati – purtroppo poco conosciuti
scientificamente, visto che riguardano una civiltà che non conosceva la
scrittura – che di sicuro, in linea generale, ricomprendevano aspetti
orgiastici, rottura delle norme tradizionali di comportamento, riti
beneauguranti o legati alla fertilità, sacrifici di animali – in genere i
primi nati, come segno propiziatorio di fecondità nelle greggi e nelle mandrie.
Ma il
più suggestivo rituale il cui ricordo si è tramandato è, a mio parere, quello
del falò sacro. Il 30 ottobre, nelle colline della Britannia, della
Gallia, dell’Irlanda e della Caledonia venivano preparate delle enormi cataste
di legno. Il 31 queste venivano accese e, in concomitanza, i fuochi
dei focolari di ogni singola abitazione di tutti i villaggi venivano
spenti per tutta la notte. L’indomani, il primo giorno di novembre, i druidi si
recavano di casa in casa a portare le braci ardenti del sacro fuoco nuovo,
che simbolicamente delineava il trapasso dell’anno vecchio in quello che appena
incominciato.
Bene,
questo era più o meno quello che avveniva nelle origini. Ma poi cosa
accadde con l’avvento del Cristianesimo? Il processo di cristianizzazione
dei pagani non fu un evento né miracoloso, né tanto meno scontato. I primi
padri della Chiesa, in seguito all’Editto di Tessalonica del 380, con il quale
l’imperatore Teodosio imponeva il Cristianesimo come religione di Stato e
iniziava a perseguitare tutti coloro che veneravano gli antichi dei, dovettero
lavorare per molti secoli al fine di far digerire la loro nuova fede ai pagani.
Nel 835
d.C., vista la resistenza dei culti campestri legati a Samhain nel
mondo celtico e a Cerere, Demetra e altre divinità minori in quello
mediterraneo, il Papa Gregorio II decise di spostare la data nella quale si
celebravano tutti i Santi dal 13 maggio al primo di novembre. Quasi
due secoli dopo, nel 998, Odilone di Cluny iniziò a far recitare nel suo
monastero benedettino una preghiera “pro requie omnium defunctorum” il
2 di novembre. Ben presto questa idea venne colta da Roma, che la
istituzionalizzò, inserendo molte delle attività cultuali pagane nel rito
cristiano, mettendo in campo quel sincretismo religioso che le ha permesso, con
un lavoro lungo secoli, di far digerire in maniera quasi indolore la nuova
religione, poggiandola sulle tradizioni e sulle credenze di quelle
vecchie. Difatti le offerte di cibo ai defunti, i fuochi e le luci
accese, le maschere per spaventare gli spiriti malvagi tipiche delle tradizioni
cristiane rurali, sono tutti aspetti pagani, perfettamente conservati
all’interno di una lieve patina di superficiale cristianizzazione
Vorrei
chiudere questo rapido viaggio nel passato con una nota divertente, riportando
il mito che sta alla base delle famose zucche di Halloween, ovvero
la leggenda di Jack O’Lantern. Jack O’Lantern, anche detto Stingy
Jack, era secondo una vecchia leggenda irlandese l’ubriacone del villaggio,
oltre che un inveterato scommettitore. Si dice che una volta, proprio durante
una notte di Halloween, incontrò il diavolo per strada e lo invitò a bere
a casa sua. Più tardi, tutti e due abbastanza alticci, si fecero una
passeggiata e arrivarono davanti ad un vecchio albero. Jack, sempre in
cerca di scommesse, sfidò quindi il diavolo ad arrampicarsi sopra di
esso. Il diavolo, sorridendo, salì sull’albero con facilità, ma Jack
incise una croce sulla corteccia, intrappolandolo lassù grazie a quel simbolo
sacro. A questo punto il Jack gli propose un patto: il diavolo, se voleva poter
tornare a terra, doveva promettere di non tentarlo più. Il diavolo accettò.
Quando, anni dopo, Jack morì, le porte del Paradiso gli furono negate a cause
dei suoi vizi. Jack si diresse quindi all’inferno, ma il diavolo gli impedì
l’accesso per vendicarsi della sua bravata, condannandolo a vagare nel limbo
tra il mondo dei vivi e quello dei morti, senza meta.
Gli
venne però dato un tizzone ardente, per illuminare il suo cammino
nell’oscurità. La tradizione afferma che Jack mise il tizzone in una rapa o una
cipolla svuotata, in modo da farlo durare più a lungo, e così iniziò il suo
solitario e triste cammino per l’eternità, con la possibilità di accedere al
nostro mondo solo la notte della sua bravata col diavolo, ad Halloween. Quando
agli inizi del secolo ci fu la carestia delle patate in Irlanda, molti
irlandesi migrarono in America, portando con loro le loro antiche
tradizioni e storia, compresa quella di Jack O’Lantern. Negli Stati Uniti
però trovarono le zucche, che si adattavano meglio ad essere intagliate
rispetto alle rape o alle cipolle e da allora è nata la tradizionale zucca
di Halloween.
Prima di
salutarci, un paio di considerazioni conclusive. Alla fine tutte queste antiche
pratiche e credenze religiose nascono in un mondo antico, mosso da valori e
principi in parte alieni al nostro frenetico mondo moderno e urbanizzato – come
l’importanza dei cicli delle stagioni e i raccolti –, in parte da altri che
condividiamo o che almeno dovremmo curare con attenzione come il senso delle
tradizioni, dei valori sociali e familiari, del senso di appartenenza ad un
popolo e a una cultura.
Ma la
cosa che più ci accomuna con tutte quelle generazioni di uomini dimenticate e
ormai solo polvere è il grande mistero del cuore umano, che non si vuole mai
rassegnare alla scomparsa dei propri cari estinti e delle persone a cui ha
voluto bene. E infine, soprattutto, che ancora rimane, oggi come allora,
affascinato e allo stesso tempo terrorizzato dal grande mistero della morte e
di che cosa avviene dopo di essa.
fonti
Astrup
Jonsokbål, “St. John’s Night Fire”.
di Alberto Massaiu
originariamente pubblicato sul blog
dell’autore
immagine: Karoly Kisfaludy, “Ossian Conjures up the Spirits on the Banks of the
River Lorca”
https://doc.studenti.it/appunti/letteratura/stregoneria-medioevo.html
-https://viaggiatoricheignorano.blogspot.com/2017/12/i-sacrifici-umani-presso-i-celti.html
Fabio
Casalini
Bibliografia
Ries
Julien, L'uomo e il sacro nella storia dell'umanità, Jaca Book, 2007
Taraglio
Riccardo, Il vischio e la quercia. Spiritualità celtica nell'Europa druidica,
L'età dell'acquario, 2001
Grigsby
John, Warriors of the Wasteland. Watkins Publishing, 2005
C.
Renfrew, P. Bahn, L'essenziale di archeologia, Zanichelli, Bologna 2009
Giordano
Berti, Miti dei Celti d'Irlanda, Lo Scarabeo, Torino, 1994
Melita
Cataldi, Antiche storie e fiabe irlandesi, Torino 1985.
Giovanni
Giusti, Antiche liriche irlandesi, Salerno Editrice, Roma 1991.
Augusta
Gregory, Dei e guerrieri d'Irlanda, Studio Tesi, Milano 1991.
Françoise
Le Roux e Christian-J. Guyonvarc'h, I Druidi, ECIG, Genova, 1990
Campanile Enrico, le religioni antiche, la terza edizione 1994
https://cronologia.leonardo.it/mondo16a.htm
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