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Re Artù:La verità oltre la leggenda

il Sabba delle streghe

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mercoledì 27 marzo 2019

Fleur De Lis


FLEUR DE LIS: SIGNIFICATO E ORIGINE DEL SIMBOLO DEL GIGLIO



Fleur de lis: uno dei simboli più affascinanti che ha accompagnato in varie forme l’umanità nel corso dei secoli. Ad esso sono stati attribuiti numerosi significati, al pari dei molteplici nomi attribuitigli. Approfondimento su Altrarealta.com.
Tra le considerazioni da porre vi è ad esempio l’origine sconosciuta: è noto solo il fatto che tale simbolo è stato adottato dai monarchi francesi. Altro mistero legato al fleur de lis, letteralmente tradotto come giglio, sta nel fatto che non si sa cosa esso voglia rappresentare realmente, anche se le maggiori teorie tendono a dargli un significato floreale, il giglio appunto.
Anche se il simbolo che ha assunto più recentemente fama per il suo collegamento con la dinastia merovingia esso non nasce con essa. Infatti lo possiamo ritrovare in molti luoghi, molto prima dei tempi araldici, già fino dall’antica Mesopotamia. E’ essenzialmente un fiore stilizzato che serviva come elemento decorativo ed stato associato nel tempo alla regalità, specialmente nell’Alto Medioevo.
Fleur de lis e l’uso in Araldica
L’utilizzo di questo simbolo in Arldica si fa risalire al XII secolo. Con certezza è stato dapprima adottato in forma di serie su un campo monocolore da re Filippo II di Francia, oltre che dal padre Luigi VII: siamo tra il 1137 e il 1214.

Dal 1200 lo stemma con base azzurra e con una serie di fleur de lis di colore oro viene associato alla monarchia francese, apparendo su monete e sigilli dal X secolo. Tipicamente si trova nell’impugnatura dello scettro e decora il bordo della corona, oppure viene retto in mano in versione ingrandita assieme allo scettro. Un simbolo che contraddistingue i regnanti francesi dall’XI al XII secolo.
Monete dell’imperatore Federico I lo mostrano mentre regge questo scettro. Si suppone che già al tempo avesse assunto il nome fleur de lis e avesse forti connotazioni religiose, specialmente legate alla Vergine Maria e, più tardi, nel XIV secolo, alla Trinità.

Leggenda legata al simbolo del fleur de lis



La traduzione di fleur-de-lis è fiore del giglio. Questo simbolo che rappresenta un giglio o un fiore di loto stilizzato ha molteplici significati. Tradizionalmente è stato usato per rappresentare la famiglia reale francese, e in questo senso si intende rappresentare la perfezione la luce e la vita.
La leggenda narra che un angelo ha presentato Clodoveo, il re merovingio dei Franchi, con un giglio d’oro come simbolo di purificazione dopo la sua conversione al cristianesimo. Altri sostengono che Clodoveo ha adottato il simbolo quando quando le ninfee gli hanno mostrato come riuscire ad attraversare un fiume e così ad ottenere la vittoria in battaglia.

Giovanna d’Arco quando condusse le truppe francesi alla vittoria contro gli inglesi in aiuto del Delfino Carlo VII nella sua ricerca per il trono di Francia, portava una bandiera bianca che mostrava la benedizione divina sull’emblema reale francese, il Fleur de lis.La chiesa romana cattolica utilizzava il giglio come emblema speciale della Verigne maria. Grazie ai suoi tre petali il fleur de lis è stato anche usato per rappresentare la Santissima Trinità. Le unità militari, incluso delle divisioni della fanteria americana, hanno usato la somiglianza del simbolo con la punta del diamante per identificarlo con il potere e la forza militare.

L’utilizzo del fleur de lis è comune a tutte le epoche e civiltà. Si tratta di un tema grafico trovato su cilindri mesopotamici, bassorilievi egizi, ceramiche micenee, tessuti sassanidi, monete galliche e mamelucche, vestiti indonesiani, emblemi giapponesi e perfino su totem Dogon. I vari scrittori che hanno discusso l’argomento concordano che ha poco a che fare con la grafica del giglio; non sono d’accordo se si tratta di una derivazione del giglio, del loto o della ginestra, o se rappresenta un tridente, una freccia, una doppia ascia, oppure una colomba o un piccione e comunque riteniamo che la cosa abbia poca importanza. Il punto essenziale è che è una figura molto stilizzata, probabilmente un fiore che è stato usato come ornamento o come emblema da quasi tutte le civiltà del vecchio e nuovo mondo.


fonte:

domenica 24 marzo 2019

Pentacolo: Storia e simbologia


LA SIMBOLOGIA DIETRO IL PENTACOLO


Uno dei simboli più conosciuti e utilizzati in tutte le culture e in molte tradizioni è quello della stella a cinque punte o “pentacolo”. 
L’origine del nome potrebbe ricollegarsi al prefisso greco penta- (cinque appunto) o, più probabilmente, alla parola francese “pendacol”, un gioiello o ornamento appeso attorno al collo.

Questo simbolo ha assunto col tempo una doppia valenza positiva e negativa, ma in generale al di là di questa accezione dicotomica, possiamo sottolineare il suo significato esoterico e magico, spesso usato con la funzione di talismano.
Le origini del pentacolo sono molto remote, infatti abbiamo ritrovamenti che testimoniano la sua presenza già in Egitto, in Mesopotamia e in generale in tradizioni storiche e culturali che spesso non hanno nessun punto di contatto, soprattutto se si pensa al differente periodo storico in cui sono state trovate le prime stelle a cinque punte.

La sua connotazione originaria era tutt’altro che negativa: le prime testimonianze ci indicano che il pentacolo era utilizzato in epoca greca,romana e post-romana, come simbolo sacro nella pratica dei culti legati alla dea pagana Venere, incarnazione della forza, della bellezza e soprattutto della sessualità mistica. Il legame della figura con la dea Venere/Afrodite si deve al fatto che il pianeta Venere, visto dalla Terra compie (in un periodo di otto anni) un percorso simile ad un pentagono nel cielo.
Il pentacolo è inoltre una rappresentazione del microcosmo e del macrocosmo:combina cioè in un unico segno tutta la creazione. Le cinque punte del pentacolo simboleggiano i cinque elementi metafisici dell’acqua, dell’aria, del fuoco,della terra e dello spirito. 
Le tre punte superiori rappresentano i tre aspetti attraverso cui si manifestala Divinità, o la Dea triplice del druidismo e della wicca, sebbene il concetto di divinità tripartita sia comune a molte tradizioni pagane e anche indoeuropee. Le punte inferiori rappresentano invece il Dio nei suoi due aspetti di fertilità e divinità dell’aldilà.


Ritroviamo la stella a cinque punte anche nella cultura cristiana, con il significato di luce, sulla grotta di Betlemme. Ma fu nel medioevo che cominciò ad essere vista come simbolo satanico, probabilmente per il suo forte legame con la cultura pagana. 
Successivamente, riapparve come emblema di molte logge massoniche, del comunismo di Stalin e di Mao, come stelletta militare di vari eserciti e persino simbolo delle Brigate Rosse. I significati che nel tempo furono attribuiti alla stella sono stati moltissimi: alcune interpretazioni vedono nel pentacolo non solo una rappresentazione del rapporto tra il mondo divino e quello fisico,ma anche una rappresentazione della figura umana. Osservando il celebre Uomo Vitruviano di Leonardo da Vinci possiamo notare come il pentacolo può essere inteso anche come la rappresentazione schematizzata di un corpo umano con braccia e gambe divaricate. Il cerchio che attornia il pentacolo sta poi a simboleggiare l’infinito; dunque questa alternativa interpretazione simboleggerebbe la relazione che accomuna l’uomo all’infinitezza dell’universo e alla sua valenza mistica, ovvero la Divinità.
Altre ipotesi sulla rappresentazione della stella a cinque punte sono: la divina proporzione o sezione aurea, il numero di Fibonacci, l’Armonia Mundi di Keplero, la regola base del cosmo, della genetica e molto altro ancora. 

La stella a cinque punte rovesciata, ovvero con le due estremità verso l’alto,assume un significato perlopiù negativo: 
con le due punte verso l’alto, la materia (fuoco e acqua) viene posta in alto, simboleggiando la predominanza sullo spirito, come l’energia che discende dall’alto andando a potenziare l’anima dell’uomo.
Nell’iconografia, perlopiù medioevale, la stella utilizzata al contrario, con le due punte rivolte verso l’alto, rappresentava il diavolo, iscritto dentro la stella, con le corna che terminavano verso l’alto.


Si rimane stupiti dalla ricchezza di significati che tale tipo di simbolo ha espresso fino ai nostri giorni; di fatti la stella pentagonale probabilmente è riconosciuto come il simbolo più usato e abusato della storia.



fonte:
http://www.grandimisteri.com/la-simbologia-dietro-il-pentacolo/

venerdì 22 marzo 2019

Il segreto dei fuochi fatui


IL SEGRETO DEI FUOCHI FATUI



Vi è mai capitato di restare chiusi in un cimitero di notte? Sarebbe un’esperienza interessante, soprattutto per riuscire a vedere i fuochi fatui. Piccole fiammelle luminose, di colore azzurrino-verdastro che se rincorse fuggono via.
Da sempre hanno acceso l’immaginazione di tutti coloro che si sono ritrovati a seguirli. Li ritroviamo in moltissime culture, dal nord Europa all’estremo oriente.
Nelle popolazioni più antiche la presenza dei fuochi fatui vicino ai luoghi di sepoltura era considerata la manifestazione dell’anima che abbandona il corpo ormai privo di vita. Ad esempio tra gli antichi egizi era forte la credenza che i fuochi fatui fossero le anime luminose dei defunti e più in vita erano stati buoni, più le loro anime splendeva.



I fuochi fatui appaiono anche nei boschi, vicino a paludi e stagni.
Nell’Europa centrale queste manifestazioni vengono associati a fate, spiritelli o fantasmi che spingono i viaggiatori fuori dal sentiero. O anche ai bambini non battezzati o nati morti, che sono costretti a restare per sempre in una specie di limbo e cercano di condurre chi li osserva verso l’acqua proprio nella speranza di ricevere il battesimo.



In Finlandia invece si narra che conducano a dei tesori nascosti. Mentre in Irlanda i fuochi vengono ricollegati alla leggenda di “Jack-O’-Lantern”, un ubriacone irlandese che, una volta morto, venne rifiutato sia dal paradiso che dall’inferno per via dei troppi peccati e per aver ingannato più volte il diavolo, così fu costretto a vagare per sempre con solo una piccola lanterna.
In Asia ci sono molte tradizioni legate ai fuochi fatui, come ad esempio in Giappone, dove vengono chiamati “Hitodama” in riferimento all’anima di chi è da poco morto o “Onibi” con accezione negativa, che significa “fuochi demoniaci” e sono proprio la manifestazione di esseri soprannaturali che spingono i viaggiatori a cambiare sentiero per seguirli, perdendosi nel bosco.



Molti scienziati hanno provato a dare una spiegazione scientifica ai fuochi fatui. Il primo fu Alessandro Volta nel 1776, che attribuì la loro natura all’interazione tra fulmini e i gas delle paludi.
Più recentemente si è scoperto che probabilmente si tratta della reazione di alcune sostanze, come la fosfina, il difosfano e il metano, in gran quantità nelle sostanze organiche in decomposizione, che a contatto con l’ossigeno bruciano formando quella particolare luminescenza.
Ma alcuni test in laboratorio che avevano lo scopo di ricreare i fuochi fatui sono stati deludenti: infatti riproducendo il processo chimico che sta alla base dei fuochi fatui si sviluppavano anche molto fumo e un particolare odore acre. Mentre le testimonianze non raccontano di fumo o odori strani.
Potremmo anche essere vicini a capire il meccanismo per cui questi fuochi si sviluppano, ma la scienza potrà mai spiegare cosa rappresentano?





Fonte
http://www.grandimisteri.com/fuochifatui/?fbclid=IwAR3R18ktqCJlZdGcqQl6pqCzt54t5VrfPTE-z0apx1vSGTaiboKyLRfSLB8

lunedì 18 marzo 2019

Strie,Tempestare,Janare,Masche,così venivano identificate le streghe del medioevo.


Strie, Tempestare, Janare, Masche.. 


Ogni regione del Bel Paese ha creato un nome per identificare la Strega, una figura oscura sulla soglia tra l’umano ed il soprannaturale che ha saputo sapientemente mescolare religione, magia popolare e superstizione.
Ad esempio in Toscana,non esiste una vera è propria parola per indicare questa figura, la terminologia cambia molto nelle varie provincie, ma tra le varie zone quali Siena, Volterra, Lucca e Grosseto c’è una parola con la quale maggiormente si può identificare la Strega toscana: ‘Ncantatrice.



Erano donne semplici, per lo più di campagna e spesso molto povere: conoscevano il potere delle erbe di curare o di ferire, il potere del sole e delle maree lunari. 
La loro saggezza era tramandata dalle persone anziane della famiglia e, tranne rarissime eccezioni, sempre per via orale.
Specializzate nella creazioni di filtri, erano abili nell’instaurare armonia o discordia tre le persone. Nel salvare o nel condannare. 
Numerosi sono i processi alle ‘ncantatrici toscane, accusate di operare per il demonio e di aver causato le numerose pestilenze e carestie che squassarono in lungo e in largo l’Europa tra il XIV ed il XV secolo. Molte sono storie andate perdute, per altre vi sono testimonianze scritte in antichi archivi e leggende famose narrate ai turisti. 



La leggenda della Janara, la strega campana da tenere lontana



Cosa significa “Sei una janara?” Le Janare sono streghe che hanno origine nelle campagne di Benevento, ma si sono diffuse ben presto anche nella zona di Napoli. Ecco l’etimologia del loro nome, le leggende che le caratterizzano e i rimedi indicati per tenerle lontane.

La leggenda della Janara è una delle più famose della Campania. Questa credenza è così radicata che dai secoli passati ad oggi ci si chiede ancora se queste streghe, depositarie di antichi e occulti segreti, esistano o meno, se siano reali o frutto della fantasia per riempire i racconti popolari. Di origine beneventana, il loro mito, nato tra i contadini di questa area delle regione, si diffuse in tempi più recenti anche nella zona di Napoli. Ancora oggi, non è difficile incontrare nei piccoli paesi della provincia persone incaricate di tenere questi personaggi quanto più lontani è possibile. Il termine viene spesso scherzosamente rivolto alle donne che hanno atteggiamenti acidi oppure quando non si riesce a dormire per una strana sensazione di oppressione. Ecco l'etimologia del loro nome, le leggende che le caratterizzano e i rimedi indicati per tenerle lontane.



Le Janare: origine e significato del nome

Le Janare sono streghe nate dalla tradizione contadina beneventana, protagoniste di numerosi racconti. Si trattava di donne che possedevano la conoscenza dell'occulto e dei riti magici, come le fatture e il malocchio, capaci di rovinare la vita. Ed ancora oggi incutono timore e rispetto. Il loro nome deriva secondo alcuni da "Dianara", cioè sacerdotessa di Diana, dea della caccia, oppure secondo altri dal latino "Ianua", che significa letteralmente "porta". Secondo la tradizione, infatti, bisognava collocare davanti alla porta una scopa di miglio capovolta o un sacchetto con grani di sale, contando i quali la strega avrebbe indugiato fino all'alba, quando la luce, sua acerrima nemica, l'avrebbe costretta a fuggire via, lasciando così in pace gli abitanti di quella casa o di quella camera in particolare.


La nascita della leggenda delle Janare

La Janara è una figura della tradizione popolare e contadina. Come tutti gli esseri magici può avere sia carattere negativo che positivo. Conosce i rimedi per le malattie grazie alla capacità di mettere insieme ricette a base di erbe magiche, ma può anche scatenare tempeste. In origine non avevano una valenza religiosa, ma pagana, alla stessa stregue delle fate. Tuttavia, ben presto, soprattutto nel Beneventano, si diffuse la credenza che queste streghe si riunissero sotto un albero di noce sulle sponde del fiume Sabato per venerare il demonio, di cui erano figlie, sotto forma di cane o caprone.



Aggressive e acide, andavano in giro nude ed avevano un aspetto mostruoso, simile a quello delle arpie. Si pensava anche che fossero fonte di guai e infertilità oltre che portatrici di malesseri ai danni dei bambini. Erano proprio i più piccoli le loro vittime preferite: essendo figlie del demonio, non in grado di allevare figli, si accaniscono sugli infanti per pure gelosia.


Esiste anche un'altra leggenda, quella della Janara incinta. Si trattava di una contadina vissuta a metà Ottocento che praticava fatture e malocchi. Messa al rogo quando era ancora in stato interessante, la strega avrebbe deciso di tornare a vendicarsi sulle generazioni future per il male subito.


Generalmente, la Janara usciva di notte e si nascondeva nelle stalle dei cavalli per prendere una giumenta a cavalcarla fino alle prime luci dell'alba. Era solita fare delle trecce con le criniere degli animali in modo da lasciare un segno visibile del suo passaggio. Spesso gli equini morivano per il troppo sforzo: questi riuscivano a volare grazie ad un balsamo particolare prodotto dalla mani delle stesse Janare. Si penava che provassero piacere nel cercare di soffocare i giovani durante il sonno, sdraiandosi letteralmente sul loro petto.


Rimedi per scacciare la Janara
Secondo la tradizione, l'unico rimedio per tenere lontana la Janara era afferrarla per i capelli, suo punto debole, e alla domanda "ch’ tien’n man’?", rispondere "fierr’ e acciaij" cosi da impedirle di liberarsi. Se invece si cattura quando è ancora trasparente sarà lei stessa a dichiarare protezione sulla casa per sette generazioni. Ancora, per evitare che entrino in casa basta porre un sacchetto colmo di sale o una scopa con le setole rivolte all'insù davanti alla porta di ingresso, contando le quali la strega avrebbe indugiato fino alle prime luci dell'alba.



La spiegazione scientifica
Ancora oggi si dice che, quando qualcuno di notte ha una strana sensazione di oppressione al petto, sia la Janara che stendendosi sul corpo non lascia respirare. La fortuna di questa credenza è da associarsi probabilmente alle paralisi del sonno o paralisi ipnagogica, che si presenta come un brusco risveglio nel cuore della notte e i cui sintomi sono senso di pesantezza sul torace, incapacità di respirare, allucinazione o suggestione della presenza di mostri. In Europa, un tempo si credeva che questo disturbo fosse causato proprio da esseri malefici. La visione di un fantasma, però, è solo una proiezione della mente, anche se alcune credenze continuano a essere molto diffuse facendo leva sullo stress delle persone colpite, per questo gli antichi rimedi per scacciare via quelle figure hanno ancora oggi molti seguaci. Ma questo disturbo ha una solida spiegazione scientifica che esclude ogni fattore paranormale, sia mitologiche creature che abitanti di altri mondi.


La janara: una leggenda tutta campana

Quante volte, nelle sere d’estate, con amici o parenti vi siete trattenuti fino a tardi raccontando storie o leggende capaci d’incutervi paura? Quante volte, avendole comunque più volte ascoltate, di notte vi siete coperti col lenzuolo fino al viso? Tutti abbiamo avuto la pelle d’oca nel sentire certi racconti. E tutti, a partire forse dall’infanzia, abbiamo avuto il terrore di nominare quella parola: la janara, una delle tante specie di strega presenti nelle leggende popolane. Creatura del folclore campano, nata da un mondo di superstizioni, la janara nasce a Benevento per poi divenire tipica anche delle altre province della Campania, tra cui Caserta.

L’origine della janara: la strega beneventana



Un termine singolare, quasi creato apposta per essere distinto dalla più generica figura della strega. La janara, infatti, era una donna con una vasta conoscenza dell’occulto, della magia, capace di lanciare malocchi e che, a differenza della strega, era una persona insospettabile. Sempre presente alle messe domenicali, capace di condurre la vita di una brava madre di famiglia. La notte, invece, emergeva la sua vera natura sinistra, carica di odio ed invidia.



Il nome janara ha una specifica etimologia nata inizialmente a Benevento. La janara infatti, non sarebbe altro che la rivisitazione volgare della Dianaria, sacerdotessa di Diana, dea della caccia ed associata all’elemento della Luna. A Benevento, infatti, in un’epoca di conversione al Cristianesimo, i ben pochi pagani rimasti continuarono a venerare divinità quali Ecate, dea della notte, dell’oscuro, e della negromanzia, e la stessa Diana. Dopo l’arrivo dei Longobardi, molti di questi pagani si unirono al culto barbaro che adorava una dea dalle fattezze della Vipera.
Da questo mix di credenze sembra quindi generarsi la figura della janara, capace di esercitare rituali, insieme alle sue simili, ai piedi di un antico Noce beneventano, sulle sponde del fiume Sabato. Leggenda narra, infatti, che tale posto fosse il luogo di ritrovo di ogni strega il venerdì, il sabato, e tutte le notti della luna piena. San Barbato, intollerante a tali facezie, fece tagliare l’antico Noce. Tuttavia, lo stesso albero sarebbe ricresciuto nel corso dei secoli, rimanendo sempre il luogo d’incontro delle streghe.


L’altro significato che viene attribuito alla janara, è quello che deriva dal termine ianua, porta. Elemento che ritroviamo spesso nella rivisitazione casertana della storia.
La janara di Caserta

Ben presto, da Benevento, la credenza popolare si estese a quasi tutte le province della Campania, ognuna delle quali con particolarità tipiche. Di base, la janara era sempre quella donna insospettabile che conduceva una doppia vita. A Caserta la tradizione contadina era concorde col fatto che essa potesse infilarsi dappertutto: talvolta tramutandosi in vento, talvolta strisciando sotto le porte, come olio,compiendo ogni malefatta possibile al povero sventurato preso di mira. La porta (da cui, appunto ianua, janara) se ben protetta, avrebbe potuto tenerla lontana. Ma in che modo?



Quante volte, entrando a casa di parenti o amici, o perfino vicino la nostra porta di casa, abbiamo trovato una piccola scopa? Usanza tramandata dai nostri nonni, sicuramente. Bene, questa stessa scopa – che deve essere rigorosamente di miglio – riusciva a distrarre la strega che, malata di aritmomania (la mania di numerare piccoli oggetti), avrebbe poi passato l’intera notte a contarne i rametti. Così come la piccola scopa, anche diversi sacchetti di sale, messi sempre fuori la porta, avrebbero attirato l’attenzione della malvagia, che si sarebbe messa a contare gli stessi chicchi. Piccoli escamotage per proteggersi dalle sue malefatte.
Chi aveva una stalla e degli animali era – purtroppo – maggiormente esposto. La janara infatti si nascondeva nelle stalle durante le notti, per poi cavalcare i cavalli fino allo sfinimento, ovvero fino alla morte. Inoltre, le criniere dei poveri animali presi di mira, venivano intrecciate ed impossibili da districare: un dispettoso segnale che la janara lasciava del proprio passaggio.
Altri piccoli rimedi

Ma cos’altro ci tramanda la tradizione folkloristica delle nostre terre? Addirittura tale entità malefica, con occhio attento e vigile, poteva essere riconosciuta e addirittura allontanata. Nelll’Alto Casertano vigeva spesso l’usanza di individuare la strega fuori la chiesa, alla fine dalla Messa.
La donna che, per ultima, usciva dall’edificio era da identificare come strega della notte precedente. Ciò veniva attribuito al fatto che tale donna amasse rimanere più tempo degli altri in Chiesa, per un atteggiamento inconsciamente dispettoso verso le forze del bene. Chiunque avesse avuto la presunzione di aver individuato una janara, trovandosi in sua presenza, avrebbe dovuto pronunciare la frase «Janara, oggi è Sabato»; tale dicitura avrebbe distolto la strega dal far visita alla famiglia di colui che muoveva l’accusa, ricordandole di raggiungere, essendo il sabato giorno di rituali, le altre streghe nei loro intimi punti di ritrovo.




Processo ad una strega

In ultimo, chiunque fosse stato in grado di scovare la janara quando ancora trasparente (quindi in forma di vento o olio) sarebbe stato benedetto dalla stessa creatura. In pratica la strega, divenuta corporea nel momento in cui scoperta, prometteva di non toccare più la famiglia dell’interessato, fino alla settima generazione.

E se invece arrivava nella camera del malcapitato?

Ma cosa succedeva se non vi fossero stati scopettini, frasi magiche o eroi del momento ad ostacolarla? La janara strisciava fino al letto del malcapitato preso di mira dall’invidia e, ritornata nelle sue dimensioni umane, amava mettersi con tutto il suo corpo sul petto dello sfortunato, fino a soffocarlo.
Nel casertano, poi, esiste un’altra simpatica variante. In realtà la strega, giunta ai piedi del letto, non tornava nelle sue dimensioni umane bensì, tramite un incantesimo, s’infiltrava nei sogni del poveretto, creando incubi a quest’ultimo come essere rincorso da animali, malmenato e alla fine perfino ucciso. Un traumatico risveglio con qualche sorpresa: lividi nei punti esatti dove nel sogno avrebbe subito le percosse!



In ultimo segnaliamo un’altra variante, sempre casertana, della creatura. La janara non sembra essere una entità maligna appartenente esclusivamente al genere femminile. Si narra infatti che, chiunque fosse nato di sesso maschile, durante la notte di Natale, fosse destinato a diventare lo janaro. Di giorno un uomo qualunque, di notte portatore di male e sciagure, lividi o perfino morte.
Insomma, le janare fanno gola a tutti gli affamati di occulto e folklore, figlie di superstizione, di mostri creati dall’ignoranza e dalla paura di ciò che non si conosce. Basti pensare alla sensazione di soffocamento e paralisi, attribuita spesso alla malefatta della strega: per questa, oggi, esiste una valida spiegazione scientifica che sarebbe quella della paralisi ipnagogica. Ma il nostro inconscio non smetterà mai di farsi agitare dall’esistenza di una dimensione paranormale. Per cui, nel dubbio, meglio lasciare le nostre scope dietro la porta.




Ad Aversa ci fu una delle poche condanne per stregonerie in Italia. 

Quello che segue è il racconto della strega Martuccia, contadina di giorno e fattucchiera di notte, condannata a morte dopo un lungo ed estenuante processo.

Inizia la caccia alle streghe!


Siamo nel XVI secolo e Caserta è da poco passata alla famiglia degli acquaviva . Più a sud invece, ad Aversa, persiste la dominazione aragonese con vari principi, conti e signorotti a governare i centri limitrofi. Uno scenario apparentemente tranquillo, tuttavia la Penisola è in subbuglio. Il motivo? Le Guerre d’Italia, cominciate con la discesa di Carlo VIII dalla Francia, ma anche per lo scatenarsi della caccia alle streghe. Nel 1487, infatti, viene pubblicato il Malleus Maleficarum, ovvero una guida utile su come riconoscere e punire chi esercitava la stregoneria. Il libro ebbe un successo senza precedenti diventando presto un best-seller, nonché simbolo di questa campagna della Santa Inquisizione.


In tutta Europa migliaia di persone (l’80% donne) vennero accusate di operare in combutta con il demonio. E per coloro che non riuscivano a dimostrare il contrario c’era solo uno scenario possibile: bruciare per redimersi dai peccati.





 In terra italica si hanno notizie di diverse condanne, quasi tutte esclusivamente al nord. In Campania, invece, se ne contano solo due: una a Benevento e una nell’aversano, ovvero quella della strega Martuccia.


La strega Martuccia

La storia di Martuccia nel tempo ha subito varie modifiche, giungendo a noi con toni mistici e quasi leggendari. In verità non si ha nemmeno la certezza del nome. Sappiamo solo che era una contadina diLusciano, piccolo comune dell’agro aversano. In quegli anni l’intera zona soffriva di una profondacarestia. I campi non rendevano e la fame attanagliava la popolazione. E dato che le disgrazie non vengono mai sole, gli abitanti combattevano anche contro una violenta epidemia di peste. Tutti soffrivano, tranne Martuccia. Il suo raccolto era sempre florido, le sue terre sempre ricche di frutta, ortaggi e quant’altro. Il cibo abbondava in ogni stagione, nonostante le difficoltà del periodo. E questo fece insospettire i vicini. Non solo per la fertilità delle sue campagne, ma anche per il continuo ritrovamento di animali morti privati della testa.

La cosa infatti generò non poche ombre, soprattutto perché si trattava delle bestie degli stessi vicini. E quando questi lo fecero presente alle autorità, si iniziò ad indagare. Con il famoso Malleus Maleficarum si scoprì che tale rito serviva per aumentare la fertilità delle proprie terre, a scapito di quelle del vicinato. Ecco allora due risposte al prezzo di una, con la conclusione di trovarsi dinanzi ad una strega. Trascinata per i capelli per le vie del centro fino al cospetto del vescovo di Aversa, la strega Martuccia negò ogni accusa, profanando addirittura il crocifisso portatole per la redenzione. Non certo una mossa saggia.



La condanna


Dopo il processo, ella venne rinchiusa nel castello di Casaluce in attesa della definitiva condanna. Durante quei giorni più volte le fu chiesto di abiurare, ma la risposta era sempre la stessa: non sono una strega. Le sue terre erano floride per cause a lei sconosciute, mentre le violenze contro gli animali erano figlie di antichi dissapori con il vicinato. Insomma, nulla che avesse a che fare con la magia.


Purtroppo per lei tale spiegazione non soddisfò il vescovo che decise per la punizione peggiore: il rogo. Sul piazzale antistante al castello si consumò la condanna. Le fiamme avvolsero il corpo della strega Martuccia, uccidendola dopo atroci sofferenze. Non appena il fuoco esaurì la sua furia, non rimase che una nube di fumo nero a levarsi nel cielo. Dei resti della donna, tuttavia, non vi era traccia. Non un cumulo di cenere, non un frammento dei suoi gioielli, ossa o vestiti. Assolutamente nulla. Per il vescovo e la popolazione fu motivo di sollievo. Una strega in meno dissero. Ma da quel giorno, nei pressi del castello e nelle campagne vicine, non crebbe più niente, nemmeno un filo d’erba. E per alcuni questa non fu altro che la vendetta postuma della strega.




Benevento è stata nella credenza popolare sempre la capitale delle streghe, ln in quel territorio contadino e genuino dove le leggende e le tradizioni hanno un peso, le janare erano la specie piu feroce di quelle streghe.



Esse si riunivano sotto quel noce famoso ancora esistente ed in prossimità del fiume sabato per celebrare le loro malvagità notturne, tra quei falò accesi e quelle vittime sacrificali che spesso erano animali rubati nei campi dei contadini.
Nella provincia di Avellino poi al confine con quel Beneventano le streghe prendevono il nome di "maciare", che erano come le "janare" ma piu dispettose e più adatte a quelle malocchiature che portavano a situazioni negative in particolar modo in amore. Infatti esistevano quelle neutrallizatrici, tra le donne anziane, di quegli effetti malefici delle maciare.

Era uso comune quando si rompevano fidanzamenti o matrimoni dire è stata "la maciara".

Si racconta che agli inizi del '900 in una zona di campagna abbastanza impervia, lì dove quegli alberi dominavano, vi era un rustico, una casa di campagna dove vivevano due sorelline Anna ed Alessia, la loro vita era scandita da quei ritmi caratteristici di quelle zone contadine, allo studio ed all'amore per quegli animali della loro stalla tra cui uno splendido pony.
Le sorelline erano abbastanza grandi da conoscere chi erano le janare, ne erano affascinate e nel contempo quel fascino superava quella forte paura, più volte avevano chiesto alla madre ed ai contadini delle terre attigue di avere spiegazioni su quelle credenze su quelle streghe, su cosa facevano, sulle,loro malvagità ed abitudini, quindi avevano appreso una buona parte di conoscenza di quelle credenze popolari che talvolta si catalizzano in quella realtà diventando un tutt'uno.

Un giorno quel pony scomparve dalla stalla e la disperazione delle due sorelline fu tanta, quel pony era diventato ormai per loro un compagno di giochi ed a nulla valsero le ricerche che furono fatte anche tra i compaesani in quelle campagne.
Allora decisero, pensando che fosse stato rapito dalle streghe, di recarsi la notte seguente all'albero di noce, all'insaputa dei genitori che erano tranquili sapendo che le ragazzine dormivano nella loro stanzetta.
Cosi tra boschi e campagne la sera seguente s'incamminarono con due torce per farsi luce e per raggiungere il posto maledetto. Si recarono quindi alla foce di quel fiume ovvero, in prossimità di quell'albero di noce li dove la leggenda narra che avvenivano quei riti malefici, quei sabba delle streghe.
Il cammino fu notevole ma la perseveranza delle ragazzine fu premiata e quando incominciarono a vedere dei fuochi e sentire delle urla disumane capirono di essere vicine.

Giunsero quindi a poche decine di metri da quel sabba di malvagità in atto e nel mentre erano intente, nascoste tra gli alberi, a cercare dove fosse il loro pony, furono rapite da Sarminia.
Sarminia era quella più anziana, il suo aspetto incuteva timore finanche da lontano, quei capelli lunghissimi sporchi e impettinabili, quegli occhi che parevano due fiamme accese e quello sguardo cattivo di malvagità fatte, e da fare.
Furono così imprigionate in una gabbia, nel mentre le altre streghe decidevano cosa fare di quelle prede, di sicuro sarebbero state sacrificate la notte seguente in uno di quei sabba infernali sotto quell'albero di noce.

All'alba, le streghe, però, si dovevano ritirare lontano da quella luce, infatti le streghe non potevano vivere alla luce diurna, uscivano solo di notte. Usanza nota era in quei tempi di mettere fuori l'uscio di casa un scopa di baggina ovvero intrecciata di fili di paglia ed un sacchetto di sale a piccolissimi granuli, affinché nel perdere tempo a contare questi, ovvero i granuli ed i fili di paglia, le streghe all'avvicinarsi della luce del giorno scappassero via.
Quando il giorno dopo iniziò a calare l'oscurità, le ragazzine prigioniere erano ben consapevoli di quanto, da lì a poco, sarebbe avvenuto. Con molta difficoltà ed astuzia riuscirono ad aprire quella gabbia che le impriggionava con una forcina che portavano sempre nei loro capelli lunghi, e finalmente riuscirono a scappare.
Quando le janare si accorsero che erano fuggite, le loro urla furono terrificanti, si oscurarono le stelle nel cielo che sovrastava quelle campagne, i lupi iniziarono ad ululare, il cielo si trasformò all'improvviso in un covo di lampi, anche gli uccelli notturni presero il volo da quei luoghi.
Era l'ira delle janare l'ira per la fuga delle due prigioniere. Le urla si ascoltavano anche quando queste erano ormai lontane:


unguento unguento,

siam le streghe di benevento,

supra acqua e supra vento e supra omne maltempo,

vi verremo a prendereeeeeeeeee

domani notte verremo alla vostra abitazione


Si sentì così rimbombare in quell'oscurità e tra quegli alberi che parevano terrificati anche loro, in quelle foglie e quei rami immobili nonostante il forte vento.
Appena arrivarono a casa, le sorelline distrutte, si tuffarono nel letto e senza dormire per la paura iniziarono a studiare un piano diabolico. Prima dell'imbrunire del nuovo giorno, quando era stato profetizzato che sarebbero arrivate le janare a riprenderle, decisero di sistemare fuori all'uscio di casa due scope di baggina e due sacchetti grossi di sale a granuli piccoli.
Al mattino, finalmente col sole, senza aver dormito tutta la notte per la paura, uscirono di casa e trovarono davanti alla porta d'ingresso una quantità notevole di cenere ancora fumante.
Le streghe avevano perso moltissimo tempo a contare i fili di quelle scope ed i granuli di quei sacchetti di sale messi lì per ingannarle, e senza accorgersi del sorgere di quella luce del giorno mortale per loro, finirono incenerite.
Si racconta ancora che da quella cenere seminata in quella terra vennero fuori dieci arbusti fortemente spinosi, mai tolti che mai più sono morti e dopo centinaia di anni sono ancora presenti.



fonti:
Sarminia, la leggenda della strega di Benevento


https://caserta.italiani.it/scopricitta/janara-strega-campania/
https://napoli.fanpage.it/la-leggenda-della-janara-la-strega-campana-da-tenere-lontana/
https://www.agoravox.it/Sarminia-la-leggenda-della-strega.html

lunedì 4 marzo 2019

L' Oroboro


L' Oroboro


Esiste un simbolo che attraversa molteplici tradizioni e che ancora oggi è oggetto di riflessione, di pratica e venerazione per coloro che sono intenti nello studio di ciò che può essere soglia verso il profondo. L' Oroboro è presente nella tradizione gnostica, ermetica ed alchemica e le sue origini sono ancora più lontane perdendosi lungo le valli del Nilo.

Questa particolare ed affascinante rivisitazione del cerchio, sembra raccogliere in se profondi significati, rimandando ad altri simboli, ed altri concetti, che nella loro interezza sono raccolti e composti lungo le spire di questo serpente indifferentemente intento a nutrirsi di se stesso.



L'Uroboros(Oroboro,Ouroboro, Ourorboros, Oroborus, Uroboros o Uroborus) è un termine che deriva dal Greco (ουροβóρος:coda), un altro etimo vorrebbe Uroboros come Re Serpente ( Ouro come Re, ob come serpente ) .

Nella trattazione classica questo simbolo rappresenta l’eterna ciclicità delle cose tutte, che hanno inizio da una fine precedente, e una fine che genera un nuovo inizio. Comprendiamo come tale prospettiva possa essere rivolta sia verso espressioni sociali quali il corso di una civiltà, oppure a rappresentazione della teoria dei cicli cosmici o del giubileo sephirotico, ma anche in una visione microcosmica legata ai cicli interiori dell’uomo.



Non possiamo notare che questa ricchezza interpretativa deriva dall’antichità del simbolo stesso, che nel corso dei millenni ha svolto funzione di arca, raccogliendo valore e significato dalle diverse tradizioni che lo hanno tramandato, fino ai nostri giorni.

Già 3.000 anni fa in Egitto questo simbolo risultava legato al ciclo temporale delle stagioni e degli astri, non dimenticando come una parte della cosmogonia egizia individuasse nel serpente che striscia fuori dal ventre del caos il principio dinamico ed ordinatore. Il movimento come tempo, il tempo come movimento, da cui è facile immaginare l’ulteriore passaggio verso l’eterna circolarità degli elementi tutti: perennemente caduchi, perennemente fecondi.

Da Hieroglyphica di Orapollo nella traduzione in volgare di M. Pietro Vasolli da Fiuizano

: Quando vogliono scrivere il Mondo, pongono un Serpente che divora la sua coda, figurato di varie squame, per le quali figurano le Stelle del Mondo. Certamente questo animale è molto grave per la grandezza, si come la terra, è ancora sdruccioloso, è simile all’acqua: e muta ogn’ anno insieme con la vecchiezza la pelle. Per la qual cosa il tempo facendo ogn’ anno mutamento nel mondo, diviene giovane. Ma perché adopra il suo corpo per il cibo, questo significa tutte le cose, le quali per divina provvidenza son generate nel Mondo, dovere ritornare in quel medesimo. " 


Dall’Antico Egitto, grazie ai Fenici, questo simbolo giunge in Grecia e da tale culla del sapere filosofico viene impregnato di altri significati sostantivizzanti, per poi essere raccolto dalla Roma Imperiale, da confraternite gnostiche, e successivamente in ambito alchemico ed ermetico, fino ai giorni nostri dove la massa di significati dialettici e speculativi spesso confonde, più che erudire.

E’ infatti obbligatorio chiedersi se oltre ad una valenza universale L'Uroboros, non assommi in se anche valori attribuiti dalla particolare prospettiva, inflessione, ed operatività delle varie comunità magico-iniziatiche che lo hanno adottato, inserito nella ritualità, nella docetica, reso vettore immaginifico di comunicazione


Se è indubbio che in comunità sapienziali espressioni di società agricole, che hanno quindi nel corso delle stagioni il fulcro della loro continuità, l'Uroboros rappresenta la sinterizzazione dell’eterno processionare del tempo, dell’alternarsi di riposi, semine e raccolti, cosa possiamo dire quando esso viene eletto da ermetisti, gnostici, filosofi o alchimisti ?
Il serpente da sempre associato all’arte medica, in virtù del potere del suo veleno che può causare la morte, ma da cui sempre è stato riconosciuto potente elemento di elisir per curare, ed inseguire il sogno della vita eterna. E’ nella natura del serpente rigenerarsi, mutando la pelle, lasciando il vecchio involucro e sostituirlo con il nuovo.

Nei circoli alchemici l'Ouroboros assume un triplice valore simbolico. Esso è inteso come elemento di perpetuazione della vita, come espressione di un antico e profondo sapere che governa le leggi del cosmo, ma anche come perfetta rappresentazione dell’Opera Alchemica, su cui mi soffermerò brevemente. In molti vi è la tendenza a ritenere l’Opera come il susseguirsi, lineare, delle tre piccole Opere (al nero, al bianco e al rosso), niente di più errato.
Le tre opere non si succedono meccanicamente l’una all’altra, ma bensì esiste un piano circolare dove continuamente dal nero andiamo al bianco, dal bianco al rosso, in cui tutta ha sempre inizio e fine, e dalla fine nuovo inizio.


Un motto alchemico è che solamente chi ha l’oro genera l’oro, e questo tipo di oro di cui andiamo parlando è inizialmente racchiuso proprio nel nigredo, che deve essere compreso ed intrapreso nella propria natura. Ecco perché precetti morali non possono e devono trovare applicazione alle leggi dell’Opera, in quanto si opera sempre su piani inferiori e piani superiori, ed è da illusi pensare il contrario pena profondi squilibri fra i centri dell’uomo (sessuale, emozionale, intellettuale), che possono genera situazione di profondo scompenso.
Nei circoli ermetici l'Ouroboros sembra raccogliere una molteplicità di significati, che pongono questo glifo come espressione macrocosmica e microcosmica al contempo ( notiamo come spesso questo serpente è rappresentato con una parte bianca e una nera, oppure nera e rossa, o bianca e rossa ). Da un lato viene sottolineato il ciclo del tempo, l’annualità, i dodici mesi, ricordato l’eterno ciclo delle cose dominato da Chronos.


Dall’altro si pone l’attenzione sulla necessità di una chiusura ermetica, onde impedire che l’uomo divenga cibo della Luna. Suggerendo si la comprensione dei cicli naturali da parte del mago, e quindi il governo degli stessi, ma anche il suo porsi in controtendenza rispetto ad essi. Non fungendo da batteria energetica, non disperdendo ciò che deve rimanere all’interno ed impiegato sui piani superiori della fisiologia occulta dell’uomo.

L’Uroboros ci permette di spendere alcune rapide riflessioni attorno agli opposti complementari, il maschile e il femminile, che fondamentale rilevanza hanno nell’operatività esoterica. Come ben sappiamo il cerchio rappresenta in genere il femminile, l’utero cosmico in cui la sostanza caotica prende forma, la grande formatrice Binah dell’albero sephirotico, la separazione fra ciò che è fuori e ciò che è dentro. Al contempo il serpente, il drago, è simbolo fallico e maschile per eccellenza. E’ il serpente dell’antico testamento che offre alla donna il frutto della conoscenza del bene e del male.



Riporto il motto che spesso accompagna l’Uroboros :

En to Pan . 

Nell’Uno il Tutto, questo il significato, del trittico inciso attorno al serpente che si divora la coda, nutrendosi di se stesso. 

Si noti però che tale monito non rappresenta uno stato di fatto che ritroviamo in natura, in quanto in natura non esiste l’autocannibalismo il divorare noi stessi, casomai l’istinto di sopravvivenza porta a divorare nostri simili (in alcune specie animali successivamente al rapporto sessuale), ma bensì la stigmatizzazione di un comportamento contro natura, contro tendenza rispetto a quello che dovrebbe essere il naturale ciclo delle cose tutte: raffinatori e fecondatori all’esterno di energia.

Se l’ampio ciclo, o meglio il ciclo esterno, uroborico è l’eterno ritorno delle stagioni, degli astri, della morte e della vita quaternaria, il ciclo interno uroborico è il preservamento, la dinamizzazione, e la creazione di un qualcosa che in precedenza non c’era. Il lettore attento che è giunto fino a questo punto, non potrà negare che nell’atto di cui si va parlando, senza troppo parlarne, coloro che sono veramente attori danno tutto, prendendo tutto, al contempo esaltando la propria identità, io trascendentale, a discapito di un io mondano e psicologico.


Livres des figures Hièroglyphiques:

” Questi sono i due serpenti avvinghiati al caduceo di Mercurio, da cui egli deriva il proprio grande potere e che assume qualsiasi forma egli voglia..Quando i due serpenti vengono messi nella fossa mortuaria si mordono l’un l’altro crudelmente.. Attraverso la putrefacio perdono la loro precedente forma naturale per assumerne una nuova e più nobile ... (N.Flamel)
Ancora, come largamente accennato in precedenza, dobbiamo vedere l’Uroboros come un mudra di chiusura energetica. Dove nelle operazioni ad un vaso e nelle operazioni a due vasi niente viene disperso, ma tutto viene compreso all’interno dell’Opera, maggiore o minore. Compreso e reso dinamico, affinchè si giunga al sacrificio di entrambe le parti al fine di dare vita al nuovo.
Ambedue questi sacrifici, del maschile e del femminile, dell’elemento fisso e dell’elemento volatile, attraverso la fissazione delle acque ardenti (eros e thanatos) permettono il fluire di un nuovo tipo di energia, altrimenti occultata, presente a livello potenziale.
La quale può essere governata ed indirizzata all’interno, come all’esterno, in guisa del tipo di risultato che si intende ottenere.



“Osservate bene questi due draghi, perché sono i veri principi della filosofia (Gnosis), che i savi non hanno potuto insegnare ai loro figli. Quello posto in basso e privo di ali è detto fisso e permanente, o uomo. Quello posto in alto è il volatile, la cupa vergine nera. Il primo sarà chiamato zolfo, caldo e secco. L’altro verrà chiamato argento vivo, freddo e umido… Quando si sono uniti e, quindi, trasformati nella quintessenza, possono vincere tutte le cose metalliche massicce, dure e resistenti.” (N.Flamel, Chymische Werke)

Questo serpente divora se stesso. Questo cerchio è animato. Esso è indistintamente maschile e femminile. E’ meravigliosamente Altro. E’ dentro, ed è fuori. E’ caos ed è ordine. E’ soglia e chiave, è chiave e soglia.


Tratto dallo splendido sito fuocosacro.com
fonte:
https://www.oroboro.eu/blog/2013/04/04/La-simbologia-del-serpente-Loroboro-.aspxL

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