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Re Artù:La verità oltre la leggenda

il Sabba delle streghe

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mercoledì 9 gennaio 2019

Napoli Esoterica



Napoli esoterica.

Un viaggio nella Napoli esoterica,la Napoli antica,alla scoperta di luoghi e monumenti legati a leggende e misteri. Un itinerario attraverso chiese,cimiteri,statue,e palazzi,posti e cose che da sempre appartengono un po' al folclore popolare,un po' alla leggenda...al mistero,un po' alla storia.

Sirene innamorate, principi alchimisti, anime purganti e statue sinistre, sono solo alcuni degli elementi che costituiscono il tessuto leggendario di Napoli, la città dai mille volti e dalle mille sfaccettature, la Napoli esoterica.Tantissime sono le storie, che circolano per bocca del popolo su alcuni luoghi della città, storie che fanno di Napoli una città ignota, magica e ammantata di un alone di mistero.Alcuni luoghi, in particolare hanno da sempre la fama di essere legati a culti leggendari ed esoterici, la cui natura e il cui significato ancora non ha trovato una spiegazione razionale di carattere scientifico. Vediamo quali sono i luoghi più conosciuti della Napoli esoterica, che vale la pena visitare almeno una volta nella vita.
Uno degli aspetti più interessanti di Napoli, è la fitta rete di gallerie presente nel sottosuolo, ricca di mistero, leggenda e curiosità. Sono stati scritti molti libri sull'argomento. L’ingresso per il sottosuolo si trova in Piazza San Gaetano.

Qui si trova una cancellata sovrastata da una singolare scritta incisa nel tufo: “Napoli Sotterranea”. Questo è l’ingresso per un mondo suggestivo, magico. I numerosi tunnel qui presenti appartengono in parte agli antichi acquedotti cittadini, in parte si devono al fatto che proprio dal sottosuolo gli abitanti della città attingevano il materiale utile alla costruzione degli edifici presenti in superficie. Vennero spesso utilizzati anche come rifugio durante le guerre.Alcune di queste gallerie sono molto antiche, risalendo alla dominazione greca del IV secolo A.C. ,quando ancora la città si chiamava Neapolis.

Napoli sotterranea

Dal sottosuolo cittadino, secondo le leggende del luogo, provenivano i Monacielli, spiriti buoni e maligni che, il più delle volte, importunavano la gente che viveva in superficie. Si tratta forse del ricordo ormai divenuto leggenda degli abitanti della Terra cava? Di quegli stessi esseri che in altri luoghi d’Italia venivano chiamati gnomi, elfi e fate?

'O Munaciello
'O Munaciello: lo spirito dispettoso della casa

'O Munaciello (letteralmente "piccolo monaco"), nella credenza popolare napoletana, è lo spiritello dispettoso della casa. Un'entità dagli aspetti sia benefici che dispettosi, in realtà. Anche se, generalmente, temuto. Nel folclore napoletano, di solito è rappresentato come un ragazzino deforme o una persona di bassa statura, abbigliato con un saio con cappuccio e fibbie argentate sulle scarpe. La leggenda del "munaciello" ha origini plurisecolari che vedono due ipotesi principali.
La prima, si legge anche su Wikipedia, riportata tra gli altri da Matilde Serao nel suo "Leggende napoletane", il munaciello sarebbe un personaggio realmente esistito. L'origine andrebbe fatta risalire al 1445, durante il regno di Alfonso V d'Aragona e all'amore impossibile tra Caterinella Frezza, figlia di un ricco mercante di panni, ed il garzone Stefano Mariconda.
La storia narra che la coppia ricorreva ad incontri clandestini durante la notte, cui il giovane garzone si recava percorrendo un pericoloso sentiero sui tetti di Napoli. Una notte, però, il giovane fu lanciato nel vuoto e ucciso. La sua amata allora decise di chiudersi in un convento, mentre era in attesa del figlio di Stefano. Il bimbo nacque deforme e la madre, sperando sempre in un miracolo che lo guarisse, prese a vestirlo con un abito da monaco, col cappuccio. Il piccolo (che tutti chiamavano '' 'o munaciello"), a causa del suo aspetto, divenne continuo bersaglio di insulti e sgarbi quando si aggirava per le strade. Da questo, all'attribuirgli poteri soprannaturali benevoli o malevoli il passo fu breve. Morì poi misteriosamente. La Serao riporta però che qualche tempo dopo furono ritrovate in una cloaca delle ossa che avrebbero potuto essere quelle del nano, ed avanza l'ipotesi che i parenti Frezza avessero alla fine deciso di assassinarlo.
Dopo la sua morte, il popolo napoletano continuò a vederlo nei luoghi più disparati dei quartieri bassi, e alla sua sete di vendetta cominciarono ad essere attribuiti tutti gli eventi sfavorevoli della vita quotidiana. Al munaciello, però, furono attribuiti anche poteri magici benefici, come la connessione tra le sue apparizioni e la possibilità di ricavarne numeri fortunati da giocare al lotto.
'O Munaciello: lo spirito dispettoso della casa
„La seconda ipotesi, invece, narra che il munaciello, in origine, sarebbe stato l'antico gestore dei pozzi d'acqua. Proprio grazie alla sua bassa statura, l'uomo riusciva ad entrare nelle case passando attraverso i canali che servivano a calare il secchio.


Quando si parla di luoghi sotterranei legati a leggende popolari,non si può non parlare del Cimitero Delle Fontanelle.

Il Cimitero Delle Fontanelle


Scavato all'interno di un'antica cava di tufo,nel cuore folcloristico di Rione Sanità,il Cimitero Delle Fontanelle ospita i resti dei morti che generalmente,non avevano la possibilità economica tale da garantirsi una degna sepoltura all'interno delle chiese cittadine.
A partire dalla seconda metà del XVII secolo,il luogo fu utilizzato in particolare per accogliere i resti delle vittime della grande peste,del 1636,e successivamente,dell' epidemia di colera,che,nel 1836 esattamente due secoli dopo,mise di nuovo tragicamente in ginocchio la città di Napoli,e dove morì anche Giacomo Lepardi.


Grazie all’opera del parroco dell’adiacente ottocentesca chiesa di Maria Ss. del Carmine, Gaetano Barbati, nel 1872 il luogo fu aperto al culto e le ossa furono collocate nella disposizione attuale, con i teschi posizionati su cataste di femori ai lati delle tre grandi navate che costituiscono l’ipogeo tufaceo.
Fino ai primi anni ’50 del secolo scorso, il sito monumentale era oggetto di un culto,quello delle “anime pezzentelle”: i fedeli avevano la possibilità di “adottare” temporaneamente il cranio di un defunto a loro ignoto, di cui invocavano l’anima, per ottenere grazie e favori e per entrare in possesso dei numeri vincenti al gioco del lotto. 

Secondo antiche leggende popolari pare che all'interno del cimitero delle fontanelle siano conservati i resti di circa otto milioni di persone, il che non è improbabile tenuto conto che sotto il pavimento vi sono migliaia e migliaia di ossa. Il numero dei resti ordinati e riposizionati dal Barbati è di circa 40.000 cadaveri. Nel corso degli anni furono poi aggiunti altre ossa, come ricordato da alcune lapidi, quelle rinvenute durante i lavori per la realizzazione di via Acton, accanto al Maschio Angioino e quelle provenienti dalla chiesa di San Giuseppe Maggiore, distrutta nell'ambito dei lavori di riqualificazione del rione “Carità” (1934). Del resto è noto a chiunque voglia visitare il Castel Nuovo che quella è zona di antiche sepolture e di necropoli. All'interno del cimitero vi è una cappella con presepe e sono presenti alcune statue: fra queste vanno ricordate quella di Gaetano Barbati e la statua nota come “il monacone”, una riproduzione di San Vincenzo Ferrer decapitata, il cui capo in passato era stato sostituito con un teschio. Molti dei teschi ammassati hanno un numero stampato sulla fronte e presentano fori e lesioni: si tratta di scheletri prestati ai medici per studi e lezioni di anatomia.

..Dicevamo del culto delle Anime Pezzentelle...
Dopo interminabili preghiere, se l’anima esaudiva la richiesta, il fedele, dopo averla accuratamente ripulita e lucidata, la riponeva in una teca fabbricata a mano e ricavata da scatole di biscotti e/o pezzi di alluminio e cartone. Numerosissime sono le leggende che circolano attorno a questo culto, come quella del cranio piangente o del capitano. 

Il Cimitero Delle Fontanelle,uno dei luoghi di culto più esoterici di Napoli.

Il cimitero delle Fontanelle (in napoletano ‘O campusanto d’ ‘e Funtanelle) è un antico cimitero della città di Napoli, situato in via Fontanelle. Il luogo è chiamato in questo modo per la presenza in tempi antichi di fonti d’acqua, il cimitero accoglie 40.000 resti di persone, vittime della grande peste del 1656 e del colera del 1836. Si tratta di uno dei luoghi più esoterici di Napoli, custode di una tradizione antica ancora oggi perseguita e custodita gelosamente da persone appartenenti ad ogni generazione.

Camminando silenziosamente all'interno del cimitero mito, leggenda e realtà storica sembrano fondersi assieme in un unico, emozionante, racconto. Tutti i morti seppelliti all'interno del cimitero delle fontanelle sono senza nome, eccezion fatta per le ossa riposte nelle teche all'interno della navata di sinistra. Si tratta di Filippo Carafa, conte di Cerreto, e della moglie Margherita, il cui volto mummificato è legato alla curiosa leggenda secondo la quale costei sia morta affogata da uno gnocco.

Il cimitero è noto perché vi si svolgeva un particolare rito, detto il rito delle “anime pezzentelle”, che prevedeva l’adozione e la sistemazione in cambio di protezione di un cranio detta «capuzzella», al quale corrispondeva un’anima abbandonata chiamata «pezzentella».

Nonostante l’assoluto anonimato di tali ossa, chi entra per la prima volta nell’ipogeo non potrà fare a meno di notare che centinaia di teschi sono stati gelosamente messi da parte, custoditi in teche di ogni materiale, dal prezioso marmo al cartone, passando per vetro, ferro e persino scatole di biscotti: si tratta dell’adozione dei teschi da parte dei fedeli, che spesso indicavano anche nome, cognome ed anno dell’adozione, segno di una devozione popolare tanto forte e radicata da causare persino la risposta della Chiesa ufficiale, che vietò queste forme di culto delle anime del purgatorio, un po’ troppo simili a certi riti pagani di antichissima memoria.
All’interno del cimitero numerosissimi sono i teschi e le ossa dei defunti messi in bella vista, come se fossero a guardia dell’oltretomba stesso. La tradizione vuole che per espiare i propri peccato ogni persona dovesse adottare una “capuzzella” ponendo una moneta sul suo cranio.

Fino agli anni ’50 il culto era tramandato di generazione in generazione, con teschi messi da parte o segnati anche a penna con “è già occupato” (è il caso di un teschio sulla sinistra della statua di Gaetano Barbati), nonostante gli anni di chiusura, un po’ per curiosità, un po’ seguendo i racconti delle proprie nonne, il culto è ripreso negli ultimi quattro-cinque anni, con forme del tutto differenti. Dato che infatti non è più possibile entrare nel cimitero, spostare un teschio e metterlo in disparte come in precedenza, alcuni gesti dei “devoti” attuali mostrano come si possa facilmente sfociare nella superstizione: oggi c’è chi semplicemente posa su un teschio una moneta, un santino, un braccialetto o persino un biglietto dell’autobus senza alcun messaggio sopra o uno scontrino fiscale, quasi a prenotare idealmente teschio ed anima del Purgatorio…

Sono tante le leggende popolari che animano il cimitero delle fontanelle, una delle più note è quella della “capa che suda” (il teschio che suda): sono in tantissimi ad essere convinti che il teschio “di donna Concetta” in condizioni particolari trasudi lasciando umide le mani delle persone che le impongono sul bianco cranio e la terra circostante. E’ facile da individuare fra i tanti conservati nel cimitero, i quanto è l’unico cranio lucido a causa delle ancora oggi continue cure delle devote, circondato da santini, monete, fotografie e persino una spilla di partito (almeno al momento dello scatto fotografico, risalente al 2012).
La leggenda più famosa è però quella del “capitano” (wikipedia). Quanti ancora oggi si recano al cimitero delle fontanelle per devozione, hanno particolare cura dei resti di bambini, alcuni dei quali sono stati raccolti e riposti a parte in teche con all'interno anche giocattoli.

Inizialmente promosso e voluto dalla stessa chiesa, perché consentiva di raccogliere offerte, questo culto verrà in seguito vietato dalle autorità ecclesiastiche e bollato come pagano. La chiusura dell’ipogeo causò delle vere e proprie “rivoluzioni”, con i fedeli affezionati ai teschi che cercavano di forzare l’entrata. Di fatto il culto continuò fino a che nel 1980 il terremoto rese inagibile l’ipogeo e questo fermò la pratica. Dal periodo di decadimento post terremoto non fu immune la chiesa: numerosi furti si verificarono alle tombe, pregne di oro e gioielli.

Per la riapertura al pubblico della chiesa e dell’ipogeo si dovrà aspettare il 1992, quando tali luoghi diverranno nuovamente visitabili.

Tra le tante anime custodite nell’ipogeo, un culto particolare è riservato ad un defunto, il più venerato della cripta, a cui si è attribuito il nome di Lucia. Il cranio è dotato di una corona e velo da sposa, adagiato su un cuscino e con il suo nome scritto in grande sulla parete retrostante. Varie sono le leggende che ruotano intorno a questa donna. Si racconta che morì in un naufragio insieme al suo sposo. Secondo altre versione si trattava di Lucia D’Amore, figlia unica del principe Ruffano Domenico D’Amore, che fu data in sposa al marchese Giacomo Santomago. Lucia non voleva sposarlo e si suicidò. Secondo un’altra versione morì di dolore. Per un’altra ancora, Lucia era innamorata del marchese, ma durante il viaggio di nozze morì annegata. La costante è che la giovane non consumò il matrimonio; il padre, devoto alla chiesa, la seppellì lì e da allora si è creata una particolare devozione per lei, soprattutto da parte delle donne che le chiedono la guarigione da una malattia, o la liberazione dalle pene d’amore.

La commistione profonda tra vita e morte è un ingrediente saliente e tipico della cultura napoletana. Una cultura fatta di storie e strane usanze, di mistici rituali e singolari simboli. Ricavare il senso di alcuni suoi “vezzi” non è possibile. Perché Napoli è così. Non va capita. Va vissuta.

L’antico culto delle anime del Purgatorio, custodito da secoli nell’Ipogeo della seicentesca Chiesa di Santa Maria delle anime del Purgatorio ad Arco, sorse spontaneamente, agli inizi del 1600, quando la nuova chiesa controriformata propose la cura delle anime dei defunti come una delle principali pratiche religiose per stabilire, attraverso preghiere e messe in suffragio, un legame liturgico tra vivi e trapassati.


Il culto delle anime era stato ampiamente sostenuto dalla chiesa cattolica che identificava in esso un modo per raccogliere offerte ed elargizioni tanto che era diventato obbligo di ogni buon credente preoccuparsi di lasciare un testamento che indicasse la cadenza di messe e preghiere in suffragio del defunto. I vivi, come mezzo per espiare i peccati terreni, si preoccupavano di favorire l'ascesa delle anime in Paradiso e di assicurare loro il refrigerio dalle fiamme del Purgatorio durante il periodo di tribolazione.

Ma a Napoli la relazione diretta con l’anima va oltre, scavalca il limite del tempo della vita e penetra in quello che oltrepassa la vita attraverso rituali dove la pietas popolare mostra tutta le sue più profonde sfaccettature. Oggetto di culto diventano le anime anonime, quelle abbandonate e senza nome, quelle i cui corpi, che non avevano beneficiato dei riti di compianto, venivano sepolti nelle fosse comuni. Il rapporto si stabilisce attraverso l’adozione di un teschio, che secondo la tradizione è sede dell'anima, che viene scelto, curato, accudito e ospitato in apposite nicchie. L’anima pezzentella( dal latino petere: chiedere per ottenere), anima anonima o abbandonata, invoca il refrisco, l’alleviamento della pena, e colui che l’ha adottata, la persona in vita, a lei chiede grazia e assistenza.

Da un tempo senza tempo la pietà popolare si prende cura di crani senza nome identificandoli con le anime del Purgatorio, anime il cui abbandono continuerebbe anche nell'altra vita se non fosse per le cure pietose dei devoti. Nell'ipogeo del Complesso del Purgatorio ad Arco, scarabattoli, nicchie, piccoli altarini, raccontano una storia antica, dove si mescolano fede, preghiere e speranze. Lumini, fiori, rosari, piccoli oggetti, messaggi scritti e riposti tra le pieghe dei cuscini dove riposano i teschi, testimoniano la cura, l'amore e la fiducia riposta in queste anime antiche; tra queste, quella di Lucia, è l'anima più amata. Il teschio col velo da sposa, ornato di una preziosa corona, è custodito accanto ad una coppia di teschi che, nell’immaginario popolare, rappresentano i servitori della giovane, una principessa morta giovanissima subito dopo le nozze. A quest'anima la tradizione popolare ha dedicato un complesso altarino eleggendola protettrice delle spose e mediatrice per preghiere e invocazioni.

L'antico culto, sopravvissuto a guerre e carestie, si manifesta nel tempo in tutta la sua intensità, tanto che nel 1969 il Cardinale Ursi lo vieta perché era oramai troppo diffuso il ricorrere a resti anonimi, piuttosto che ai santi. Ancor oggi il rapporto di reciproco ausilio non si interrompe mai ne’ di notte ne’ di giorno: le grate che mettono in comunicazione la strada e l’ipogeo consentono alle voci, ai lamenti, alle preghiere di raggiungere in qualsiasi momento il teschio che gode della protezione, mentre un pensiero, un fiore, un lumino acceso, sostengono nella dura lotta per il Paradiso le anime del Purgatorio generosamente accolte nel vasto Ipogeo della chiesa.


Un luogo unico al mondo è il Cimitero delle Fontanelle (che prende il nome dalle varie fonti d'acqua che sgorgavano fresche nella zona del celebre quartiere Sanità di Napoli), spettacolare ricettacolo di ossa teschi e di relative leggende.
Tra quelle più celebri,troviamo la leggenda del teschio del capitano.

Il Cimitero Delle Fontanelle. La leggenda del Capitano

Napoli è sempre stata una città in cui convivono sacro e profano, fede e scaramanzia. Ha sempre avuto un forte rapporto con i morti e in particolare con le anime del Purgatorio. Ne è una dimostrazione la cura con cui sono tenuti i teschi del celebre cimitero delle Fontanelle, situato nel rione Sanità. Luogo di culto e pellegrinaggio, il cimitero nasconde in sé una miriade di leggende. La più famosa è senza dubbio quella che riguarda il Capitano. Il suo teschio è considerato come una star del luogo, al punto che, a differenza degli altri, è posizionato in una teca di vetro che ha il compito di preservarlo dall’umidità e dall’incuria dei più curiosi. Per i napoletani, che sono soliti farsi il segno della croce ogni volta che lo nominano, il Capitano è un’anima pia perché aiuta i devoti che si affidano a lui.

La Sposa Cadavere
Articolo di Isabella Dalla Vecchia e Sergio Succu

Conviene per una donna "morire sposa"?
"Con questa mano io dissiperò i tuoi affanni. Il tuo calice non sarà mai vuoto perché io sarò il tuo vino. Con questa candela illuminerò il tuo cammino nelle tenebre. Con quest'anello io ti chiedo di essere mia".
Questa è la celebre frase del film “la sposa cadavere” di Tim Burton, dove nel “mondo di sotto” abitano scheletri e anime spensierate, che fanno una gran festa. Dopotutto che altro possono fare?
Victor, vivente, fa amicizia e quasi si innamora di una sposa cadavere, da lei corrisposto, ma che alla fine rinuncerà a sposarlo sacrificandosi in nome dell’amore, lasciando l’amato a Victoria, la sua promessa sposa e raggiungendo così il paradiso. Già, perché quel mondo di sotto non è l’Eden, ma un “luogo di mezzo”, un’anticamera, una sorta di purgatorio abitato da fantasmi che non riescono ad abbandonare la Terra perché hanno ancora qualcosa da fare.
Sembrerà assurdo eppure questo mondo esiste veramente, è perfino possibile visitarlo e si trova nei sotterranei di alcune chiese, come a Santa Maria delle Anime del Purgatorio di Napoli, che “vanta” ambienti ricoperti da ossa, crani e femori. Questa chiesa è dedicata all’insolito culto per le anime purganti o “anime pezzentelle”, spiriti rimasti “incastrati” tra Terra e paradiso, sospesi tra la tomba e l'oltretomba. Uomini e donne spesso senza nome, cadaveri rinvenuti per le strade in seguito ad epidemie di peste, che venivano raccolti insieme a persone ancora agonizzanti e scaricati in queste grotte per evitare la diffusione del contagio. Provate ad immaginare quei poveri malati costretti ad esalare l’ultimo respiro già nella tomba! Eppure, non c’era altro da fare, uomini e donne ormai morti, venivano accompagnati a chi la morte la stava per incontrare. Salme rimaste qui nel corso di innumerevoli anni, che nel tempo venivano progressivamente riconosciute da chi aveva perso i propri cari, o semplicemente “adottate” da chi ci si affezionava.
Lucia. Da sposa mancata a star delle anime del Purgatorio

Lucia. Questo cranio si trova all'interno della chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco ubicata sul Decumano Maggiore nell'attuale via dei Tribunali.

Il complesso risale al 1616 e fu eretto su incarico di alcune famiglie nobili napoletane per farne un luogo di sepoltura. All'epoca la chiesa fu dedicata al culto delle anime del Purgatorio in modo che dopo la morte si potesse rendere più breve il soggiorno in quel luogo che impediva la riconciliazione con il Signore. A testimoniare la raccolta di fondi organizzata delle famiglie nobili dell’epoca, l’opera di Carlo Celano, “Notitie del bello, dell'antico e del curioso della città di Napoli per i signori furastieri”: “La pietà de' napoletani avendo occhio non solo a’ bisogni corporali de’ cittadini, ma anco alla sovvenzione delle anime, circa gli anni 1604 molti gentil’uomini e devoti cittadini s’unirono e andavano questurando per far celebrare messe alle anime del Purgatorio. In breve accumularono un capitale di 6000 scudi, e eressero una congregazione dentro la chiesa parocchiale”.
Nell'Ipogeo della chiesa, a cui si arriva tramite una botola, esistono lungo le pareti diverse nicchie e altarini. Molteplici teche contengono resti umani risalenti al periodo della peste o al colera del 1836. Questo è il mondo delle "anime pezzentelle" e del famoso teschio di Lucia. Il cranio è dotato di una preziosa corona e di un velo da sposa. È adagiato su un cuscino e ha il suo nome scritto in grande sulla parete dietro. Molte sono le leggende che si nascondono dietro questo semplice accessorio. Secondo la tradizione si tratterrebbe di Lucia D’Amore, figlia di Domenico, principe di Ruffano, data in sposa al marchese Giacomo Santomago. Dato che la giovane principessa non voleva sposare il gentiluomo secondo alcuni si suicidò, per altri morì di dolore. Certi raccontano che tentò una fuga tragica, che era malata di tisi o che fu vittima di un omicidio mentre avanzava verso l’altare. Un’altra versione narra che in realtà ella fosse innamorata del marchese e che durante il viaggio di nozze fosse annegata. L’unica costante è che la giovane non riuscì a consumare il rito del matrimonio. Alla fine il padre, devoto alla chiesa del Purgatorio, decise di seppellirla nel complesso di Santa Maria. Lucia è così diventata una luce di speranza per tutte quelle donne che desiderano trovare l’uomo della propria vita per sposarsi. È conservata in un reliquiario circondato da messaggi e bigliettini che le devote le lasciano intorno per ricevere una grazia, alleviare un dolore o semplicemente per ringraziarla. 

Al di sotto del teschio di Lucia giace una coppia di crani molto più piccoli, uno dei quali adornato da una coroncina. Anche per queste due anime le leggende si sprecano. Si suppone che fossero sposi che per problemi di salute morirono appena prima del giorno delle nozze. 


Infine, tra i resti conservati nella cripta sotterranea, accanto a Lucia, ci sono anche i teschi di alcuni dei fondatori della chiesa come quelli di Giulio Mastrillo e della moglie. Quasi a simboleggiare che coloro che vollero fortemente questo complesso continuano a stare accanto alle anime per cui lo costruirono.


Donna Concetta: la leggenda della “capa che suda”
I più scettici potrebbero dire che è lucida per umidità dovuta al luogo sotterraneo o che le persone anziane sono solite strofinarla per alimentare la leggenda, ma per i più devoti è il sudore delle anime del Purgatorio. Continuando il nostro viaggio nelle leggende del cimitero delle Fontanelle, dopo quella del Capitano, ci imbattiamo nella storia di Donna Concetta. All’estrema sinistra, in una delle diramazioni della navata dei Preti è possibile scorgere il suo cranio, detto “a capa che suda”. Questo teschio, posto all’interno di una teca di legno, è senza macchie. A differenza degli altri che la circondano e che sono ricoperti di polvere e terra, quest’ultimo appare sempre ben lucidato. Per i più credenti quell’umidità è acqua purificatrice, emanata dall’aldilà come conseguenza delle fatiche e delle sofferenze cui sono sottoposte le anime del Purgatorio. Secondo la tradizione si può toccare il teschio di Donna Concetta per chiedere una grazia. Se la propria mano si bagna, la richiesta sarà soddisfatta. Se invece il cranio non suda, è un cattivo presagio poiché significa che l’anima abbandonata sta soffrendo e non può concedere la grazia. Al contrario, si racconta che quando la “capuzzella” appare particolarmente umida, è perché il defunto sta esaudendo una preghiera.

Nello specifico, questo cranio è un vero e proprio talismano della fertilità. Aiuta le donne devote a restare incinte.

Ma chi era davvero Donna Concetta? La leggenda narra che una popolana molto conosciuta nel quartiere, chiamata appunto Donna Concetta, sperava ardentemente di realizzarsi mettendo al mondo un figlio. Per vedere il suo desiderio esaudito decise di recarsi alle Fontanelle per chiedere a un’anima del Purgatorio la grazia. Scelto un teschio a caso, recitò alcune preghiere, si accostò ad esso e lo accarezzò delicatamente per assicurarsi che l’anima del morto accogliesse la sua richiesta. Dopo poco la donna rimase incinta e allo scadere dei nove mesi diede alla luce un bimbo sano e vivace. Terminata la convalescenza conseguente al parto, Donna Concetta tornò al cimitero per ringraziare l’anima del defunto che l’aveva aiutata. Quando arrivò sul luogo notò che il teschio che aveva prescelto come suo interlocutore emanava una luce abbagliante, mentre tutti quelli intorno apparivano opachi e ricoperti di polvere. Da quel giorno la donna adottò il cranio e divenne una fervente devota di quell’anima ignota che le era venuta in soccorso dal suo luogo di espiazione.

Di solito quando i credenti sono in difficoltà e vivono una situazione precaria, decidono di rivolgersi alle anime del Purgatorio perché si crea una particolare sinergia tra coloro che si sentono deboli in vita e coloro che lo sono nella morte. A queste anime però non si possono chiedere miracoli perché non si tratta di santi e non possono intervenire in una situazione eccezionale. A loro si chiedono delle grazie relative alla quotidianità dell’esistenza che hanno a che fare con matrimoni, figli, lavoro o salute.
L’affascinante e drammatica storia di Maria la Sposa…tra mito mistificazione e leggenda.
29 Dicembre 1939 Torre Annunziata, venne ricoperta dalla neve.
Verso le 8 di mattina, il treno 4030 con a bordo dei passeggeri diretti a Roma, rimase fermo sui binari della stazione di Torre Centrale.
A causa della neve, ci furono dei problemi con il congegno per l’azionamento degli scambi ai binari. Gli addetti ai lavori stavano cercando di risolvere il problema.
Il treno Direttissimo 88, con a bordo dei militari provenienti da Reggio Calabria, in quel momento stava per arrivare alla stazione di Torre, la segnaletica continuava a non funzionare, e si decise di far proseguire il 4030 fino alla stazione successiva, e di fermare il treno 88 nella stazione di Torre Annunziata. Il segnale di ferma del 4030 non arrivò al direttissimo 88, il treno prese in pieno la coda del 4030 che proprio in quel momento stava ripartendo. L’urto fu terribile tanto da provocare un incendio, che rese ancora più difficile i soccorsi.
31 morti e un numero imprecisato di feriti. Una catastrofe!
I feriti vennero trasportati all’ospedale civile di Torre Annunziata, mentre le salme vennero portate affianco nella Chiesa di S. Teresa di Gesù.
Nel grave incidente, persero la vita anche due giovani sposini, partiti per il viaggio di nozze, nella valigia della giovane donna fu trovato un abito da sposa.
Nessuno si presentò per reclamare i corpi dei giovani sposi, ed è per questo motivo che le salme vennero deposte insieme alle altre nel Cimitero di Torre, nella cripta della Chiesa del Suffragio.

Verso gli anni 50, una notte la sposa andò in sogno ad un uomo,un ricco commerciante del posto, a lui la sposa, gli indicò il luogo esatto dove erano conservate le sue spoglie mortali, gli disse che si chiamava Maria, e chiese all’uomo di donarle una degna sepoltura, in cambio avrebbe portato fortuna alle giovani donne che si fossero recate sulla sua tomba.
l’Apostolo della Sposa (cosi si fece chiamare l’uomo) in compagnia di alcune “comari” di cui non si sono mai conosciuti i nomi, l’unica cosa certa è che erano donne del quartiere, si recarono sotto la Chiesa Madre del Cimitero Comunale di Torre Annunziata, presero lo scheletro indicato dalla donna e lo vestirono con un abito bianco da sposa, e lo riposero in una nicchia.
Di lì a poco nacque il mito di Maria la Sposa.
Numerose furono le persone che dichiarano di aver sognato la sposa, da tutti venne descritta come una bellissima ragazza dai capelli lunghi e biondi. Svariate sono state le grazie che Maria la sposa ha concesso, ne sono dimostrazione i vari voti lasciati sulla sua tomba, la tomba stessa dove riposa attualmente è tutta in cristallo, donata da una signora per una grazia ricevuta. Le giovani ragazze, vi si recavano con i loro consorti prima del matrimonio per avere la benedizione della sfortunata sposa.Nel maggio del 1965, la teca di Maria la Sposa venne profanata, furono rubati oggetti preziosi, per un valore di circa 10 milioni di lire, provocando l’indignazione della popolazione.
Il pellegrinaggio verso la Sposa di Torre Annunziata non cessava, anzi sembrava aumentare notevolmente tanto da attirare l’attenzione della curia arcivescovile nolana, che con un decreto redatto nell’ Ottobre del 1968 vietò quella “insana” devozione, che assumeva caratteristiche speculative e contrastanti con i principi fondamentali della Chiesa.
Attualmente la storia di Maria la Sposa è caduta nel dimenticatoio, e per vari motivi la tomba che si trova ancora sotto la Chiesa Madre del Cimitero non è più visitabile, anche se secondo alcune testimonianze la Sposa continua ancora ad apparire in sogno e a concedere grazie.
Fatto curioso: anche se il culto di Maria la Sposa è stato molto significativo per la popolazione di Torre e non solo, nessuno ha mai fatto riesumare il cadavere per scoprire la reale causa del decesso, come se scoprire la verità non importasse a nessuno, le persone vogliono credere che il corpo in quella bara di cristallo, sia della povera Maria la Sposa pronta ancora oggi a concedere grazie, la leggenda e la voglia di credere supera, a volte, la verità…

Ma...i misteri di Napoli,non si limitano solo ai sotterranei della città.


Il viaggio tra i meandri esoterici e oscuri di Napoli continua passando per quelle che sono le leggende legate ai fantasmi,agli spiriti del folclore popolare,alla tradizione nata nei vicoli della città,lungo i corridoi degli antichi palazzi.

In superficie sorge la Cappella San Severo, chiesa sconsacrata, divenuta un museo dell’impossibile. 
Sono qui contenute alcune statue e reperti molto interessanti, raccolte dal Principe di San Severo, Raimondo de Sangro.

Le statue qui presenti non sembrano essere state realizzate con un normale procedimento scultoreo, ma con l’ausilio dell’arte alchemica. Analizziamo ad esempio la cosiddetta statua de Il Disinganno, opera del genovese Francesco Queirolo. L’uomo qui rappresentato è avvolto da una rete, la quale si adagia perfettamente al suo corpo.Si dice che il principe avesse trovato un modo per trasformare la stoffa in marmo. Un esempio di questo “miracolo” potrebbe essere il celebre Cristo velato, presente nella stessa cappella, realizzato dal napoletano Giuseppe San Martino.

Fu il duca di Torremaggiore Giovan Francesco di Sangro a far costruire la cappella San Severo all’inizio del ‘600, nel centro storico di Napoli; ma è a Raimondo di Sangro, settimo principe di San Severo, che dobbiamo attribuire il merito di averla resa un luogo così magico e colmo di mistero. Intanto partiamo dal presupposto che la tradizione vuole che Raimondo sia stato il primo Gran Maestro della Massoneria napoletana, un alchimista che faceva diabolici esperimenti. Il più famoso tesoro della cappella è il Cristo Velato: un vero capolavoro che rappresenta una delle più suggestive e belle sculture al mondo. L’opera, di Giuseppe San Martino, avrebbe dovuto essere una semplice statua a grandezza naturale del Cristo coperto da un sudario; ma questo, in realtà, è talmente trasparente e finemente ripiegato che non sembra assolutamente essere di marmo. Per questo si ritiene che la sua trasparenza sia il frutto di un processo alchemico di marmorizzazione compiuto da Raimondo stesso.

Stesso ragionamento per la statua della Pudicizia, realizzata in onore alla madre del principe: il velo sembra davvero essere reale e la donna velata è un chiaro riferimento a Iside, dea massonica.


Un altro piccolo particolare inquietante: nella Cavea sotterranea sono conservate le famose Macchine anatomiche, due scheletri di un uomo e di una donna in posizione eretta con il sistema altero-venoso quasi perfettamente integro. Ancora oggi non si sa attraverso quali procedimenti o materiali si sia potuta ottenere una simile e perfetta conservazione dell’apparato circolatorio.


Cappella San Severo:

Chiamata anche con il nome di Chiesa di Santa maria della Pietà o della Pietatella, la Cappella San Severo venne costruita da una figura leggendaria e ambigua,il principe Raimondo Di Sangro,che a Napoli godeva della fama di alchimista e di mago. Stando ad alcune voci, pare che la cappella sia stata costruita su un antico tempio dedicato alla dea Iside. Essa ospita opere d’arte di straordinario rilievo artistico ed estetico, primo fra tutti il “Cristo velato” di Giuseppe San Martino; la scultura si caratterizza per una bellezza tale, che Antonio Canova, non essendo riuscito ad acquistarla, dichiarò che avrebbe volentieri donato dieci anni della propria vita, pur di vedersi attribuita la paternità di un simile capolavoro.

Il Cristo velato è la perfetta rappresentazione dei momenti successivi alla morte del Salvatore: tutto è racchiuso in un unico blocco di marmo, le cui scanalature, i cui solchi lasciano rivivere quei momenti in maniera del tutto realistica, sullo sfondo suggestivo della Cappella San Severo di Napoli.
Il Cristo velato è una scultura marmorea sita nella Cappella San Severo di Napoli. L’opera, commissionata dal principe di San Severo, Raimondo Di Sangro fu realizzata nel 1753 ad opera di Giuseppe San Martino. Nelle intenzioni del committente, la statua doveva essere realizzata da Antonio Corradini, che per il principe aveva già scolpito la “Pudicizia”. Questi, però, morì nel 1752 e riuscì a terminare solo un bozzetto in terracotta del Cristo (conservato al Museo di San Martino). A questo punto entrò in scena un giovane artista napoletano, Giuseppe San Martino. Il principe gli incaricò di realizzare una statua in marmo del Cristo, scolpita a grandezza naturale, coperto da un sudario trasparente ricavato dallo stesso blocco di marmo.

L’opera raffigura il Cristo morto, a grandezza d’uomo, disteso su un materasso marmoreo: I piedi dritti, rigidi e uniti; le ginocchia sollevate lievemente, il petto gonfio, la testa sollevata sui cuscini, piegata su un lato, le mani prosciolte, I capelli arruffati che sembrano quasi mantidi di sudore. Gli occhi sono socchiusi e sulle palpebre restano quasi incastrate le ultime e più dolorose lacrime. In fondo, sul materasso, sono gettati gli attributi della Passione: la corona di spine, I chiodi, la spugna imbevuta di fiele, il martello 

L’occhio e la mente sembrano rivivere quei momenti di dolore straziante ormai giunto al termine; il tempo, che un attimo prima, sembra quasi sospeso l’attimo dopo si spezza. Una religiosa e delicata pietà scandaglia quella tensione, quei brividi, gettando un morbido lenzuolo, le cui pieghe si adagiano perfettamente al corpo. La sofferenza avvolta con amore su se stessa si nasconde sotto i solchi del lembo, ma non abbandona mai l’occhio dell’osservatore.

Il velo, oltre a celare la sofferenza di Cristo, nasconde una leggenda, secondo la quale Raimondo di Sangro avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione del tessuto in cristalli di marmo; da circa tre secoli, infatti, molti visitatori lo ritengono erroneamente come l’esito di una "marmorizzazione alchemica" effettuata dal principe, il quale avrebbe adagiato sulla statua un vero e proprio velo che, col tempo, si sia marmorizzato attraverso un processo chimico.In realtà, il Cristo Velato è stato realizzata interamente in marmo, come ci viene confermato da alcune lettere dell’epoca: lo stesso principe descrive come il velo sia stato cavato direttamente dal blocco marmoreo. C’è, inoltre, una ricevuta di pagamento a San Martino datata 16 dicembre 1752, firmata dal principe e conservata presso l’Archivio Storico del Banco di Napoli che recita:



"E per me gli suddetti ducati cinquanta gli pagherete al Magnifico Giuseppe San Martino in conto della statua di Nostro Signore morto coperta da un velo ancor di marmo."

L’opera del Cristo Velato è stata considerata da subito un capolavoro del ‘700: si racconta che Antonio Canovane rimase così colpito al punto che avrebbe scambiato dieci anni della propria vita con l’autore di tale opera. Si dice inoltre che provò ad acquistarla, ma la sua richiesta fu respinta.

Il Museo Anatomico


In Via Armanni al numero 5, si trova il Museo Anatomico. A parte i notevoli esempi anatomici tradizionali e le deformità umane e animali, sono state qui raccolte le trenta “pietrificazioni” di Efisio Marini (1835-1900), un altro alchimista e scienziato del passato. 

Nacque a Cagliari, studiò a Pisa, morì a Napoli, lì dove sorge il museo che raccoglie alcuni esempi della sua arte. Studiando gli antichi fossili, riuscì a fare di più rispetto ad altri, perché anche se la sua tecnica viene chiamata ugualmente “pietrificazione”, è sicuramente più avanzata. Infatti, egli riuscì a conservare molti arti umani, tessuti e interi corpi, morbidi elastici così come quando erano ancora in vita, sottraendoli al normale processo di putrefazione.

La Tomba di Virgilio


Nel sobborgo di Posillipo, alle spalle della Chiesa di Santa Maria di Piedigrotta, nei pressi della stazione ferroviaria di Mergellina, sorge il Parco della Tomba di Virgilio. Secondo la tradizione, il poeta latino fu anche un maestro di arti magiche. Egli avrebbe accolto i suoi iniziati e apprendisti stregoni nella sua scuola di magia, sull'Isola di Gaiola, proprio di fronte al Parco di Posillipo, lì dove ancora oggi sorge la “Casa del Mago” o “Scuola di Virgilio”. Leggende locali ci narrano di come Virgilio trovò casualmente una bottiglia, mentre zappava nella sua vigna, all'interno della quale erano imprigionati «dodici diavoli che, in cambio della libertà, gli insegnarono tutti i segreti delle arti magiche». Questi diavoli gli rivelarono anche il nascondiglio del Libro magico di Salomone. Leggende o realtà?



Piazzetta Nilo,conosciuta anche come Largo Corpo Di Napoli


Lungo il maggiore dei tre Decumani greco-romani di Napoli, oggi noto al mondo come Spaccanapoli, si apre Piazzetta Nilo che, per la sua posizione nel cuore del centro storico della città, è conosciuta dai napoletani anche come Largo Corpo di Napoli.



Di fronte alla chiesa di Sant'Angelo al Nilo la statua del Dio Nilo, eretta nella piazzetta più di 2000 anni fa, è sicuramente una delle tracce più antiche della presenza straniera in città, perché Napoli è una città di mare cosmopolita e crocevia di popoli e culture diverse che ne hanno plasmato nei secoli la fisionomia.La statua fu eretta fra il I° e il III° sec. D.C., nell'area che si staglia fra la via Mezzocannone ed il primo tratto di Via San Biagio dei Librai, quando nella Napoli greco-romana si insediarono numerosi egizi (provenienti da Alessandria d’Egitto). La colonia venne detta “nilesi”, in onore del grande fiume egiziano e proprio in Largo Corpo di Napoli, dedicarono il loro culto al sacro Dio Nilo.


Per i partenopei, la statua del Nilo simboleggia la città di Napoli che nutre (allatta) i propri figli; da qui ne deriva il nome Corpo di Napoli che ha dato, poi, anche il nome al largo dove è tuttora ubicata. Più volte rimossa e ricollocata in questa sua sede storica, ha alimentato vari misteri, tra cui quello sull'identità sessuale del soggetto raffigurato, un tempo creduto una donna.

Secondo un’antica leggenda, sotto il Dio Nilo giace un presunto tesoro e lo sguardo del Dio sarebbe puntato sull'eventuale nascondiglio.
La statua raffigura la personificazione del fiume Nilo che ha le sembianze di un uomo possente e barbuto semi-sdraiato su un fianco, circondato da puttini a simboleggiare le varie ramificazioni del fiume Draiato, e con i piedi rivolti verso un coccodrillo. Nella mano destra sorregge una cornucopia traboccante Fiori e frutta,simbolo di prosperità e ricchezza, quella sinistro tocca una sfinge. La rappresentazione simbolica è poi completata dalla presenza di un bambino che si arrampica al capezzolo del Dio, probabilmente un affluente del fiume.Il primo restauro arrivò solo nel 1657 quando lo scultore Bartolomeo Mori integrò la statua con la testa di un uomo barbuto, mentre la testa della sfinge è stata ricollocata solo in epoca recente.



Chiesa Del Gesù Nuovo

La Chiesa del Gesù Nuovo è il più importante esempio del barocco napoletano. Edificata verso la fine del Cinquecento nella zona destinata a uno dei palazzi dei duchi di Santa Severina, è stata così chiamata per differenziarla da un altro tempio dedicato al Cristo, subito denominato del Gesù Vecchio.Lo stile ibrido con cui è stata progettata la chiesa, fece si che l’architetto Valeriano, responsabile del progetto, fu accusato di aver eseguito i disegni imitando le opere che Bramante e Michelangelo avevano realizzato a Roma. La facciata è molto caratteristica, in bugnato (pietre appuntite) con tre grandi portali, ciascuno dei quali relativo a una delle tre navate interne.

L’interno del Gesù Nuovo è sontuoso con tantissime decorazioni policrome e marmi preziosi. In tutto vi sono undici cappelle laterali con altrettanti altari, anch'essi ricchi di decorazioni. Gli affreschi sono veramente splendidi, quelli della sagrestia sono di Aniello Falcone, quelli della volta di Antonio Vaccaro e Massimo Stanzione, mentre quello che si estende su tutta la parete d’entrata, la “Cacciata di Eliodoro dal tempio”, è di Francesco Solimena.

Ma ciò che rapisce completamente gli occhi all'interno della Chiesa del Gesù Nuovo è l’altare maggiore, un vero gioiello prezioso, innalzato nel 1854. Al centro si delinea la maestosa statua della Vergine adagiata su un grande globo con affianco sei imponenti colonne di alabastro colorato. Alla base vi sono tre bassorilievi in bronzo, tra cui in evidente mostra la riproduzione dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci e otto medaglioni bronzei a forma di conchiglia con altrettanti busti di santi. Da notare anche i due coretti laterali e le due cantorie con i grandi organi.

Chiesa del Gesù Nuovo: Piazza del Gesù Nuovo.

A piazza del Gesù Nuovo, cuore pulsante del centro storico e luogo di ritrovo della gioventù partenopea, si erge un maestoso edificio di culto, la Chiesa del Gesù Nuovo. Costruita sull'antico palazzo San Severino, per volere di Roberto San Severino, principe di Salerno, la chiesa ha una facciata in bugnato, su cui sono stati rinvenuti dei segni alquanto strani: alcuni hanno ritenuto che sia un codice esoterico scritto in sanscrito, altri invece hanno ipotizzato possa trattarsi di un sistema di comunicazione, utilizzato dai lavoratori della pietra.


Il medico Santo: San Giuseppe Moscati


Nella cappella della Visitazione si celebra il culto di San Giuseppe Moscati, ricercatore, medico e docente universitario, canonizzato da Giovanni Paolo II il 25 ottobre del 1987. Le spoglie del santo erano state conservate nel Cimitero di Poggioreale ma, dopo molte polemiche, furono trasferite nella Chiesa del Gesù Nuovo, dove Moscati si raccoglieva in preghiera ogni mattina prima di cominciare la giornata di lavoro.I suoi resti mortali furono collocati in un’urna bronzea realizzata da Amedeo Garufi proprio per questo scopo. Sulla fronte principale dell’urna ci sono tre bassorilievi che rappresentano dei momenti significativi della vita del giovane medico, morto a soli 47 anni. Nel 1990 Pier Luigi Sopelsa realizzò una statua in bronzo del Santo che rende la sua figura presente ai fedeli che credono molto nelle sue grazie: in questa cappella sono presenti una serie molto numerosa di ex-voto, figure che rappresentano diverse parti del corpo, che la gente gli ha offerto come omaggio per la grazia ricevuta.

I segni misteriosi del Gesù Nuovo

Durante il periodo rinascimentale vi erano a Napoli alcuni “esperti” della pietra che si credeva avessero il potere di caricarla di energia positiva per allontanare le negatività. I singolari segni incisi che si possono osservare sulla facciata, ai lati delle bugne, hanno la forma di punte di diamante e sembra che, data la loro sequenza particolare, lascino intuire una misteriosa chiave di lettura. La leggenda che ruota intorno alla speciale struttura della facciata racconta che chi ha fatto costruire questa monumentale chiesa, probabilmente Roberto San Severino, si sia servito di maestri pipernieri, esperti anche di segreti esoterici e in grado di caricare positivamente le pietre. I simboli occulti posti sulle piramidi della facciata sono legati alle arti magiche o all'alchimia e avevano il compito di dirigere tutte le energie positive e benevoli dall'esterno verso l’interno. A causa dell’inesperienza o addirittura della cattiva fede dei costruttori, queste pietre segnate furono posizionate in modo scorretto e l’effetto fu l’opposto di quello desiderato: tutto il magnetismo positivo veniva riversato dall'interno verso l’esterno della struttura lasciando ampio spazio alla caduta di sciagure sul luogo. In questo modo un po’ bizzarro si spiega il motivo per cui, nel corso del tempo, si siano abbattute così tante sventure su questo edificio: dalla requisizione dei beni ai San Severino, alla demolizione del palazzo, all'incendio della chiesa, fino ai molteplici crolli della cupola e alle diverse cacciate dei Gesuiti.

L'Obelisco dell'Immacolata in Piazza del Gesù a Napoli

La Guglia barocca dell’Immacolata è il più celebre fra gli obelischi di Napoli e si trova a piazza del Gesù Nuovo, praticamente di fronte alla chiesa. L’obelisco fu innalzato nel XIII secolo per ordine dei Gesuiti secondo il progetto di Giuseppe Genuino, grazie ad una raccolta pubblica di soldi promossa da Padre Pepe.
La sua costruzione al centro della piazza suscitò le reazioni negative del duca di Monteleone che temeva che la struttura potesse crollare sulla facciata del suo palazzo nel caso di un terremoto. Il monumento è rivestito da sculture marmoree di Matteo Bottigliero e Mario Pagano. Alla sommità della guglia vi è la caratteristica statua dell’Immacolata. Con la ricorrenza dell’Immacolata, l’8 dicembre, la folla si raduna ai piedi di questo monumento per ammirare il momento in cui i pompieri posano sul capo della Madonna la corona di fiori.

Tra la vita e la morte

Una strana leggenda, insieme alle credenze popolari, vede nella statua dell’Immacolata Concezione una figura che va ben oltre ciò che è palesemente visibile a tutti. Pare che soltanto in alcuni momenti del giorno, grazie ad un particolare gioco di luci ed ombre, ma anche ad una speciale prospettiva, si possa intravedere in questa statua l’immagine della morte. Mettete alla prova il vostro sguardo e osservate la statua da dietro: il risultato potrebbe sorprendervi.

L'obelisco di Piazza del Gesù,tra storia e leggenda

Sulla Guglia dell'Immacolata, secondo la leggenda, ci sarebbero scolpite anche figure richiamanti la morte visibili solo con particolari condizioni di luce
L'obelisco (o guglia dell'Immacolata) che si erge in piazza del Gesù Nuovo, nel centro storico di Napoli, fu commissionato dai gesuiti (nella persona di Francesco Pepe) e progettato da Giuseppe Genoino. La costruzione dell'opera è iniziata nel 1747.
L'opera, alta 30 metri, si ispira alle innumerevoli macchine da festa presenti in quei secoli ed è rivestita da decorazioni marmoree che la rendono uno dei maggiori e più suggestivi esempi del barocco napoletano.L'obelisco rimpiazzò una precedente scultura equestre dedicata a Filippo V, eretta nel 1705 per celebrare la visita fatta in città da parte del re spagnolo avvenuta nel 1702, ma solo due anni dopo la sua collocazione, nel 1707, quando le truppe austriache occuparono la città, il popolo la distrusse.
La struttura è in marmo e presenta quattro iscrizioni latine alla base. E' circondata da una cancellata sulla quale originariamente erano poste dodici lanterne. Le sculture che decorano il monumento rappresentano busti raffiguranti santi gesuiti ed episodi evangelici legati alla Vergine Maria, opera di Matteo Bottiglieri e Francesco Pagano. La decorazione scultorea è disposti sui vari livelli della struttura piramidale che vede in cima la statua in rame dell’Immacolata.
Ogni 8 dicembre è tradizione che la città renda omaggio alla Vergine ponendo sulla sommità un fascio di rose.Il monumento, però, è anche avvolto dal mistero. Infatti, come riferisce il sito napoligrafia.it, alcune leggende narrano che, "insieme agli episodi biblici e alle sculture dei vari santi, siano state realizzate anche figure blasfeme richiamanti la morte che, però, sarebbero visibili solo dal alcune angolazione e in particolari condizioni di luce". 

L'immagine della morte nell'Obelisco dell'Immacolata di Napoli
L’obelisco dell’Immacolata (anche detto guglia dell’Immacolata) è il più famoso degli obelischi di Napoli ed è situato in piazza del Gesù Nuovo di fronte alla chiesa del Gesù Nuovo.
La guglia fu eretta nel XVIII secolo per volere del gesuita padre Francesco Pepe su progetto di Giuseppe Genoino grazie ad una colletta pubblica. L’opera si ispira alle innumerevoli macchine da festa presenti in quei secoli ed è rivestita da sculture marmoree di Matteo Bottiglieri e di Francesco Pagano. Sulla sommità è posta la statua di rame dell’Immacolata.Ogni anno, l’8 dicembre, dai pompieri viene posta in cima alla statua una corona di fiori in onore dell’Immacolata Concezione.
Sul marmo dell’obelisco, la gente mormora, pare ci siano dei simboli blasfemi e una faccia di scheletro in continuità con le effigi classiche volute dal progetto di Giuseppe Genuino.
La curiosità è stata così forte nei secoli che ogni volta che si rende omaggio alla Madonna ogni inizio di dicembre si è stati accorti alla presenza delle suddette immagini malvagie che non sono mai state confermate.
Ciò che resta da spiegarsi è l’effetto ottico che si può notare in alcune ore della giornata, soprattutto verso sera all’imbrunire, che rendono la statua grottesca: osservando la statua da dietro si noterà che Ella avrà il velo increspato. Aguzzando la vista, con un gioco di prospettiva la statua sembrerà del tutto diversa: il velo coprirà, come un cappuccio, una figura simile alla Morte che brandisce la classica falce.
Difficile risulta credere che anche a Napoli ci sia stato il culto della “Santissima”: la Santa Muerte ha origini incerte per quanto riguarda la data di nascita. E’ certo che il culto sia nato in Messico e che fino agli inizi del Duemila fosse rimasto tale. Dopodiché, un arcivescovo messicano allontanato dalla Chiesa Cattolica, ne professò le regole. Dapprima additato dalla comunità messicana, oggi la religione-culto gode di popolarità, soprattutto nei ranghi delinquenziali.
Comunque sia, la statua tipica della Santa Muerte è uno scheletro in un velo di vario colore a seconda del male da debellare (in giallo: risolve problemi di danaro, in rosso: cancella i crucci in amore; in nero quella generica e più conosciuta…).L’accezione esoterica presenta tra le mani, oltre che la falce e la bilancia, una marionetta e una clessidra, a sottolineare la sua importanze nel conteggio della vita dell’uomo.Spesso si pensa che invocarla inutilmente provocherebbe la morte di un parente o un amico e che, più raramente, la Santa Muerte sia gelosa degli altri santi, che non dovrebbero essere più adorati.Leggenda o realtà che sia, la nostra Vergine Maria dell’Obelisco dell’Immacolata è fatta di rame, che col tempo si è ossidato ed è diventato azzurro-verde.


Piazza del Gesù a Napoli

E’ una delle piazze più importanti di Napoli la cui struttura non è frutto di un disegno ben definito, ma è il risultato del continuo ampliamento della città verso occidente cominciato in epoca alto-medioevale. Piazza del Gesù può essere considerata come la giuntura tra la città antica greco-romana e quella sviluppatasi nel Settecento. Nell'epoca angioina, in questa piazza era posta la porta di ingresso alla città, ma nella prima metà del 1500 fu trasportata in prossimità dello sbocco della nuova via Toledo, che era il vero e proprio fulcro dello sviluppo urbano. Attualmente potremmo dire che questa piazza non dorme mai: durante la giornata è animata dai giovani universitari che si intrattengono per una chiacchiera o una breve pausa caffè prima di ritornare a seguire i corsi, di notte è sveglia fino a tardi grazie ai tantissimi ragazzi che scelgono di gustarsi una birra all'aperto godendo del clima mite di questa città. 

Il "Palazzo del Diavolo"

Leggenda

Palazzo Penne, nei pressi di Largo Banchi Nuovi, ha una "storia" molto particolare. Tra un amore impossibile, un miracolo, ed una persona che è riuscita ad ingannare persino il demonio 
E se il diavolo avesse fatto un giro a Napoli, zona centro storico? C'è una leggenda che racconta qualcosa di simile, e riguarda l'antico Palazzo Penne nei pressi di Largo Banchi Nuovi, chiamato anche “il palazzo del diavolo”.
A farlo costruire fu Antonio Penne, segretario del re di Napoli Ladislao, nel 1409. La leggenda vuole che Penne, appena arrivato in città, s'innamorò di una ragazza. Questa – già corteggiata da altri – gli disse che lo avrebbe sposato se fosse riuscito a costruirle un palazzo in una notte sola.


Fu così che Antonio Penne, per riuscire nell'impresa, chiese aiuto al diavolo, il quale naturalmente pretese in cambio la sua anima con tanto di contratto scritto. C'era una clausola però: Penne avrebbe ceduto la sua anima solo se il demonio avesse contato tutti i chicchi di grano che egli avrebbe sparso nel cortile del palazzo da costruire. 

A palazzo costruito, fu il momento della “prova”. Penne sparse nel cortile grano, ma anche pece: i chicchi di grano si attaccavano alle mani del demonio e questi non riusciva a contare. A quel punto il protagonista si fece il segno della croce, e questo gesto aprì una voragine nella quale il diavolo sprofondò. Un pozzo ora chiuso, ma ancora visibile a chi visita l'antico e meraviglioso palazzo rinascimentale partenopeo.
Presunta tomba di Dracula
Cosa rivela il Codice Dracula? Secondo gli studiosi, il conte Vlad è sepolto nella Chiesa di Santa Maria la Nova; simboli e iscrizioni provano a fare luce sul mistero.
La notizia sensazionale della probabile tomba del conte Dracula identificata a Napoli, da oltre due anni, desta la curiosità di studiosi e l’interesse di epigrafistisul mistero che gravita nella Chiesa di Santa Maria la Nova e precisamente in Cappella Turbolo.

L’interesse iniziale si è concentrato sulla strana iscrizione, scritta in una lingua incomprensibile, posta nella cappella, che è stata tradotta consultando una serie di codici e che ha fornito la chiave di lettura per presumere che nella chiesa, è celata la tomba di un uomo misterioso.

Tutto ha inizio con una clamorosa dichiarazione del 2014, pronunciata da un gruppo di esperti dell’Università di Tallin in Estonia, in merito alla tomba di Vlad Tempes, per cui affermarono: «Sappiamo dov’è la tomba di Dracula a Napoli. Sappiamo anche dove andare a cercare» E da questo momento in poi, numerosi ricercatori ed esperti del settore provano a far chiarezza sul Codice Dracula e delle sue spoglie, incitando gruppi di studio di fama internazionale e incentrando le ricerche su Napoli.
Laura Miriello, tenace studiosa esperta di simboli e codici, mise gli occhi sulla strana iscrizione presente nella cappella già nel 2013 per pronunciarsi soltanto nel 2015. Dopo ricerche e studi attendibili, la ricercatrice infatti dichiarò che l’epigrafe apparentemente incomprensibile, rivelò essere un codice in «unciale» ovvero, una scritta composta da tante lettere provenienti da alfabeti diversi, tra cui quelli riconoscibili, il greco, latino, copto e etiopico.
La Miriello con con equipe di esperti ricercatori ne dedusse che non poteva trattarsi di una sola lingua ma bensì di un codice segreto, di simboli e disegni adottato dagli epigrafisti almeno cinquecento anni prima per occultare un testo; una scritta che poteva rivelare una verità sorprendente e pericolosa.
A seguito della lunga ricerca sulla traduzione del testo, l’epigrafe ha rivelato essere la tomba di un uomo; ma non la sepoltura di un uomo comune o di un re come inizialmente poteva suggerire ma quella sensazionale e leggendaria del conte Vlad III Dracul noto come Vlad Tepes l'Impalatore, il personaggio storico del XV secolo, passato alle cronache come il valoroso guerriero e sanguinario della Romania che tanto ispirò la fantasia letteraria di Bram Stoker nel suo celebre romanzo «Il conte Dracula» del 1897, il leggendario Vampiro della Transilvania. A pronunciarsi sull'argomento e della veridicità sul Codice Dracula, è lo studioso lucano Raffaello Glinni che collabora con l’Università di Tallin, che con la sua equipe italiana, prova a far luce sul perché il conte Vlad è sepolto a Napoli. Egli dichiara: «Nel 1476 il conte Vlad Tempes Dracula, che appartiene all'Ordine del Dragone come il re di Napoli Ferrante D’Aragona, scompare durante una battaglia contro i turchi e viene dato per morto. Una delle sue figlie, Maria, all’età di sette anni viene adottata da una donna napoletana e condotta nel regno di Napoli. Qui in seguito sposa un nobile napoletano della famiglia Ferrillo. La coppia ottiene in «regalo» i territori di Acerenza in Basilicata, ma è legata a Napoli tanto che, alla morte, i coniugi vengono seppelliti a Napoli
Il Dragone è il simbolo presente a rilievo sulla lapide Ferrillo riconducibile all’Ordine, ovvero una congregazione nobile-guerresca, alla quale era iscritto Vlad Tempes Dracula(Dracul-Dragone) e anche Ferrante D’Aragona.
Questo simbolo è stato al centro della discussione di tesi della studentessa napoletana Erika Stella che notò il Dragone sul sepolcro di Matteo Ferrillo, risolvendo l’intricato enigma.
Si ipotizza che nel sepolcro della famiglia Ferrillo, non ci sia il corpo del suo proprietario ma quello di Dracula; non resta che verificare l’autenticità delle spoglie.
Fra le varie ipotesi, gli esperti di fama internazionale, avvalorano la tesi che Dracula non morì in battaglia ma fu fatto prigioniero dai turchi e che sua figlia Maria Balsa, riscattò il padre e lo condusse con sé in Italia, dove fu seppellito a Napoli.
Fra le smentite invece si narra che Dracula ebbe solo figli maschi, e non vi era mai stata menzionata nessuna figlia di nome Maria, finché un giorno, l’esperto Raffaello Glinni, per riscattare l’ipotesi si imbatté in una cronaca antica che raccontava l’arrivo di una principessa slava a Napoli, di origine ignota, messa in salvo per volere del padre dalla persecuzione dei turchi e affidata ad una famiglia napoletana fedele al re Ferrante D’Aragona. Si rivela essere Maria Balsa, adottata e cresciuta a Napoli che sposa il nobile Giacomo Alfonso Ferrillo e fonde il suo stemma con quella del marito, simboleggiato da un Drago.
A dare man forte a questa tesi, sono i simboli evidenti sul bassorilievo: il Dragone è sia il simbolo riconducibile all'Ordine che allo stemma araldico della famiglia Ferrillo, collegati a due simboli di matrice egizia, due sfingi, insolite su una tomba europea. Le due sfingi contrapposte rappresentano il nome della città di Tebe, chiamata dagli egiziani Tepes, ma è anche il cognome del conte e all'interno di quei simboli c’è scritto proprio «Dracula Tepes». Ma potrebbe suggerire la parola turca «Impalatore» l’allusione diffamatoria di Vlad III. Simboli, iscrizioni, nomi che sembrano confermare che il conte Dracula riposi qui, all'interno della tomba in marmo del genero Ferrillo da oltre cinquecento anni.Per ora gli esperti non si pronunciano, tanto meno confermano o smentiscono l’importanza di questa ricerca, portata avanti dal gruppo di studiosi italiani che comprende i fratelli Giandomenico e Raffaello Glinni e il direttore scientifico del Museo delle Antiche Genti Nicola Barbatelli. 
Napoli e il Vampirismo
Citando Dracula e Napoli non possiamo essere immuni al fascino sinistro del «Vampiro»ovvero un demone notturno che ha segnato la cultura della Campania e di Napoli, alimentando storie e leggende tra realtà e fantasia; temuto, invocato e occultato sin dal Medioevo. E’ nel Settecento, nel Secolo dei Lumi che nella mentalità collettiva si focalizza la parola Vampiro (etimologia non proprio chiara in riferimento a stregone) legato al concetto di morte e resurrezione.
Il primo a parlarci di fenomeni del Mistero è l’avvocato napoletano Costantino Grimaldi(1667-1750) che nel suo volume dal titolo «Dissertazione sopra le tre magie» del 1751 ovvero una summa di tutta la letteratura del Mistero espressa in 169 citazioni in latino, cita i casi di voli di streghe, fantasmi, iettature, apparizioni e fenomeni di resurrezioni tra cui anche il vampirismo. Un altro rapporto fra Napoli e il Vampirismo è da ricercare in un cult book, cioè un romanzo a puntate illustrato intitolato «Varney il Vampiro» che circolava in forma anonima nel 1847 e attribuito a Thomas Preskett Prest.
La storia è quella di un nobiluomo inglese affetto di vampirismo che diffonde il contagio proprio a Napoli, la città che sceglie per lasciarsi morire; si affida così alla magia del Vesuvio, lanciandosi nel cratere per porre fine alla sua macabra esistenza.
L’ultimo aggancio al vampirismo napoletano è suggerito dal racconto «Il dottor Nero»del 1907 dello scrittore napoletano Daniele Oberto Marrama, autore di validi racconti fantastici, ricchi di suggestioni tra sensualità, gotico e noir, poco conosciuto in Italia. Il dottor Nero è ambientato a Capri e ruota intorno alle vicende sentimentali di due sposi, un nobile irlandese e una ragazza italiana, insinuati da un sensuale Vampiro, amante della donna.
«Il conte Dracula è morto a Napoli, è stato sepolto nel cuore della città ed è ancora qui»: c’è un gruppo di persone che da settimane percorre strade e vicoli a caccia del segreto.
E non sono ragazzini sognatori, fanatici, esaltati, ma serissimi studiosi dell’università di Tallinn in Estonia. Sono convinti di ciò che fanno, sostengono di avere già in mano i documenti che provano la verità, così hanno avviato una campagna di ricerche sul territorio.
La storia è affascinante, ricca di sfumature, di colpi di scena, però assomiglia troppo alla trama di un romanzo d’avventure per sembrare vera; anche perché, attualmente, manca il particolare che la renderebbe clamorosa, il colpo di scena finale: manca proprio il corpo del conte Dracula. 
Esterno giorno, piazza Santa Maria La Nova, il gruppo che comprende anche gli italianissimi i fratelli Glinni (uno, Giandomenico, ricercatore a Tallinn, l’altro, Raffaello, studioso di storia) e il direttore scientifico del museo delle Antiche Genti, Nicola Barbatelli, varca la soglia del chiostro antico e si avvia a colpo sicuro verso una lapide. L’emozione cresce passo dopo passo fin quando il marmo è lì, a dieci centimetri. L’avevano visto solo in fotografia quel disegno, l’avevano ritrovato in rappresentazioni del ’500, ora lo vedono e restano allibiti. È proprio come avevano immaginato, i «segni» ci sono tutti, è il momento di rendere ufficiale la scoperta e di avviare ricerche formali.

Una lettera è stata spedita alla direzione museale per chiedere il permesso di esplorare il monumento, nel frattempo i documenti vengono messi in fila per ricostruire il percorso e dare concretezza alle ipotesi.
Ad ascoltare le parole degli studiosi emozionati tutto sembra confuso, vocaboli scientifici e riferimenti storici vengono dati per scontati, star dietro alle spiegazioni è quasi impossibile. Per afferrare il senso del discorso bisogna ripartire da zero e implorare «fatene una storiella, come se voleste raccontarla a un bambino». Gli studiosi sospirano e provano a riassumere.
«Nel 1476 il conte Vlad Tepes Dracula, che appartiene all'ordine del Dragone come il re di Napoli Ferrante D’Aragona, scompare durante una battaglia contro i turchi e viene dato per morto - spiega lo studioso Raffaello Glinni - una delle sue figlie, Maria, all'età di sette anni viene adottata da una donna napoletana e condotta nel regno di Napoli. Qui in seguito sposa un nobile napoletano della famiglia Ferrillo. La coppia ottiene in ”regalo” i territori di Acerenza in Basilicata ma è legata a Napoli tanto che, alla morte, i coniugi vengono seppelliti a Napoli». Fin qui la storia è nota, proprio Il Mattino l’ha raccontata un paio di anni fa.
Ma la svolta è giunta negli ultimi mesi, quasi per caso. Una studentessa napoletana, Erika Stella, per la sua tesi di laurea si inoltra nel chiostro di Santa Maria La Nova, scatta una foto che le sembra «strana», decide di andare a fondo e coinvolge via mail gli studiosi, anche quelli estoni, che guardano l’immagine e restano sconvolti. Dopo aver cercato a lungo quella traccia, eccola arrivare per mano di una giovane che sta realizzando una tesi di laurea: secondo gli studiosi è la conferma di due ipotesi: 1) il conte Dracula non morì in battaglia ma venne fatto prigioniero dai turchi; 2) la figlia Maria riscattò il papà prigioniero e lo portò in Italia. Alla morte lo fece seppellire a Napoli.
Ma perché tante certezze? Il marmo, che appartiene alla tomba di Ferrillo, il «genero» di Dracula, è denso di riferimenti che non apparterrebbero alle spoglie dell’uomo che dovrebbe essere lì dentro. E qui la realtà diventa romanzo, almeno finché la scienza non dirà che è tutto vero: «Guardate i bassorilievi - spiega raggiante Glinni - la rappresentazione è lampante. Ricordate che il conte si chiamava Dracula Tepes: vedete che qui c’è la rappresentazione di un drago, Dracula appunto, e ci sono due simboli di matrice egizia mai visti su una tomba europea. Si tratta di due sfingi contrapposte che rappresentano il nome della città di Tebe che gli egiziani chiamavano Tepes. In quei simboli c’è ”scritto” Dracula Tepes, il nome del conte. C’è bisogno di altre conferme?». Forse sì, ce n’è bisogno.
Ma il racconto è così affascinante che, a questo punto, speriamo davvero che qualcuno dimostri che è tutto reale...


Chiesa di Santa Maria la Nova: Piazza Santa Maria la Nova


La chiesa, situata a pochi passi da Piazza Giovanni Bovio (Metro: “Università”), fu costruita in stile Barocco, tra il 1279 e il 1599. Ad attirare l’attenzione dei visitatori, all'interno del chiostro affrescato, è un misterioso dragone scolpito sulla facciata di una tomba misteriosa, attribuita a Vlad III di Valacchia, il conte Dracula! La questione ha subito stuzzicato la curiosità dell’Università di Tallinn. Gli studiosi dell’ateneo estone hanno rintracciato alcuni elementi decorativi, che lascerebbero pensare alla tomba del re/vampiro. Innanzitutto, il drago, sulla facciata dell’avello, sarebbe molto simile a quello riportato sui blasoni degli stemmi delle famiglie Blasa e Ferrillo, da cui Vlad discendeva; stranissime sarebbero anche le due sfingi, simbolo della città di Tebe, il cui nome presenta delle assonanze con quello di Vlad Țepeș, che, secondo Giandomenico, Glinni e Barbatelli, sarebbe morto proprio a Napoli; infine, non avendo avuto la possibilità, per motivi legali, di aprire la tomba, l’equipe di studiosi, attraverso una sonda, avrebbe rilevato una temperatura interna di gran lunga più elevata rispetto a quella dell’ambiente esterno. Un mistero irrisolto nella Napoli esoterica.

I Patre de la Nova ovvero i Frati Minori che vivevano all'interno della chiesa di Santa Maria La Nova, costruita nel 1279 per volere di Carlo d'Angiò che, per far spazio alla costruzione del Maschio Angioino, aveva fatto abbattere la vecchia chiesa di Santa Maria ad Palatium, fondata, secondo la tradizione, nel 1216 assieme al convento dei Frati Minori dallo stesso San Francesco durante la sua venuta in città. La nova chiesa con annesso l'omonimo convento venne così edificata in una nuova area adiacente la torre Mastria, prospiciente l’area del porto. Alcuni sostengono che la sua realizzazione fosse opera di Giovanni Pisano, altri invece che il progettista fosse un architetto francese giunto a Napoli a seguito di Carlo d'Angiò; probabilmente era di stile gotico, suddivisa in tre navate. Tra il 1596 e il 1599 la chiesa fu oggetto di restauri affidati ad Agnolo Franco; nel corso del XVII secolo si susseguirono poi diversi lavori che interessarono il rifacimento del soffitto ligneo, del coro, e degli interni in stile barocco con l'uso di stucchi e dorature, oltre che della facciata, che si presenta, secondo uno stile tipico del XVII, divisa in due ordini verticalmente da paraste e orizzontalmente da una trabeazione.

Tramite una scalinata in piperno, adornata da una balaustra in marmo, realizzata nel 1606, si accede al portale d'ingresso, chiuso tra due colonne in granito e sormontato da un'edicola con un bassorilievo raffigurante la Vergine.L’interno è a navata unica, a Croce Latina con sette cappelle su ogni lato; tra tutte spicca quella di San Giacomo della Marca, costruita nel 1504, dove si segnalano gli affreschi della volta con Episodi della vita del santo di Massimo Stanzione (1644- 1646). Di notevole pregio la cupola, affrescata con Storie della Vergine e profeti da Belisario Corenzio, la soffittatura in legno dorato, composta da 46 dipinti eseguiti fra il 1598 e il 1603 da noti artisti napoletani, fra cui Francesco Curia, Girolamo Imparato, Fabrizio Santafede e Belisario Corenzio e l’altare maggiore realizzato su disegno di Cosimo Fanzago.Di rilievo, inoltre, il chiostro piccolo, il cui porticato è sorretto da colonne ioniche in marmo, e l’ex refettorio, dove si conserva l’Andata al Calvario di Andrea da Salerno (1514 ca.). Leggenda vuole che qui sia sepolto il conte Vlad III di Valacchia, meglio noto alla letteratura moderna con il nome di Conte Dracula, portato qui dalla figlia Maria, giunta a Napoli sotto il regno di Ferdinando d'Aragona, andando in sposa a Giacomo Alfonso Ferrillo. A sostegno di tale suggestiva ipotesi sembra che il blasone delle due famiglie Blada e Ferrillo fosse un dragone, lo stesso che compare sul sepolcro che si trova all'interno del chiostro.


La Basilica della Pietrasanta e la leggenda del diavolo-maiale


Si racconta che al Vescovo di Napoli Pomponio apparve in sogno la Madonna. La Vergine Maria gli chiese di costruire un santuario a lei dedicato per contrastare la presenza del diavolo che, sotto forma di maiale, compariva di notte spaventando i residenti del centro storico.


La Chiesa di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta è la più antica costruzione sacra napoletana dedicata alla Madonna. Situata nel centro storico della città partenopea, a due passi da San Domenico Maggiore e da Via dei Tribunali, fu costruita nel 553 d.c. per volontà del Vescovo di Napoli Pomponio. In questo luogo un tempo sorgeva il tempio sacro dedicato al culto di Diana, riservato esclusivamente alle donne, che invocavano la dea romana per ottenere parti non dolorosi. La divinità era la protettrice delle donne, degli animali selvatici, della caccia e custode della verginità. Gli uomini poco tolleravano il suo culto poiché molte donne, pur di evitare matrimoni infelici, preferivano votarsi alla Dea e offrire la loro castità. Le ragazze divenute sacerdotesse furono poi appellate in maniera dispregiativa col nome Dianare o Janare (sacerdotesse di Diana). In epoca Paleocristiana, tutte le donne che ricorrevano all’antico culto della dea furono accusate di stregoneria, bollate come serve del Demonio e bandite dalla città. Forse da qui nasce la leggenda del Diavolo-maiale legata alla nascita della Basilica della Pietrasanta. Secondo questa leggenda il Vescovo Pomponio decise di far edificare la chiesa dopo che la Vergine Maria gli apparve in sogno chiedendogli di realizzare un santuario a lei dedicato. La Madonna gli spiegò che la Basilica avrebbe contrastato la presenza del diavolo che, sotto forma di maiale, compariva tutte le notti nella zona compresa tra Piazza Miraglia e il centro antico, spaventando con il suo grugnito infernale i residenti e cercando di insinuarsi nelle vite dei fedeli. Secondo gli abitanti del luogo, questa presenza malvagia era legata ai vecchi resti del tempio di Diana, dove alcune donne (considerate streghe) dedite a rituali pagani, avevano alimentato il desiderio di vendetta.


La Basilica della Pietrasanta e la leggenda del diavolo-maiale„della dea, consegnando alla città l'orribile maiale. Con l’edificazione della Basilica di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta, questo animale spaventoso scomparve per sempre lasciando in pace i residenti del luogo.

La Basilica della Pietrasanta e la leggenda del diavolo-maiale

Questa storia spiegherebbe anche la presenza di iscrizioni e simboli misteriosi (fra cui la tavola del gioco romano «ludus latrunculorum» antica dama) presenti sul Campanile della Basilica. Risalente all’epoca romana, il Campanile è una delle più antiche torri campanarie d’Italia. La sua caratteristica è l’arco che oggi appare più basso a causa del livello dell’asfalto che si è alzato nel corso dei secoli e da cui sono nate molte leggende. Proprio sul Campanile si possono notare alcune piccole sculture in marmo, rinvenute durante gli scavi sul tempio di Diana, che rappresentano teste di suino. Queste sculture fanno palese riferimento alla leggenda del diavolo-maiale e alla Festa della Porcella (o gioco). La festa si svolgeva ogni anno nel mese di maggio per ricordare l’intervento prodigioso della Madonna che esorcizzò il male, scacciandolo per sempre. L’usanza voleva che l’abate di Santa Maria Maggiore sgozzasse nel Duomo di Napoli, una grossa scrofa offerta dai fedeli (simbolo del male) e destinare il suo prodotto, la porchetta, all'Arcivescovo della città. In questo modo si sarebbe consumato il rituale esorcizzante del bene sul male. Questa festa continuò fino al 1625, anno in cui fu deciso di abolirla perché ritenuta indecorosa e pagana. Per quanto riguarda, invece, il nome della Basilica (“della Pietrasanta”), secondo alcuni deriverebbe da una porzione di roccia su cui era stata scolpita l’immagine della Madonna, ritrovata dal Vescovo Pomponio sul luogo dove stava per sorgere il santuario a lei dedicato. Secondo altri farebbe riferimento a una pietra, forse in marmo, su cui era incisa una croce e custodita nella chiesa: pare che chiunque la baciasse, avrebbe ottenuto l’indulgenza da tutti i peccati. Questa pietra, però, non è mai stata ritrovata. C’è chi sostiene sia custodita nella chiesa a protezione di Napoli e che nei sotterranei della basilica, siano celati segni e iscrizioni legati al mito dei Cavalieri Templari seguaci del culto della Madonna Nera (trasposizione della dea egizia Iside). Quale tra queste ipotesi sia vera non c’è dato sapere, l’unica cosa certa è che la Basilica di Santa Maria Maggiore della Pietrasanta è la prima costruzione sacra dedicata alla Vergine Maria e su cui convergono epoche storiche diverse: qui antico e moderno si fondono.



Lago d’Averno, l’antica porta degli inferi a un’ora di auto da Napoli
Mitologia vuole che il Lago D’Averno,

 a pochi minuti da Napoli, fosse l’ingresso dal quale Enea discese agli Inferi



L’ingresso dell’Inferno e un luogo “fatato”. Sembra un ossimoro, ma stiamo parlando di un luogo reale. Il Lago d’Averno è un lago di origine vulcanica che si sviluppa nelle vicinanze di Pozzuoli, in provincia di Napoli. All'apparenza sembra essere una semplice distesa d’acqua dolce, e in effetti è innegabile che sia così. Ma in sé nasconde qualcosa di più, una mitologiche parte dalla celebre Eneide latina di Virgilio. Leggenda vuole che il Lago d’Averno fosse l’ingresso agli Inferi, dal quale Enea entrò per la sua discesa nel regno dei morti.

Un’altra storia legata al lago è quella della Fata Morgana, un personaggio legato alla mitologia celtica. Un marchese ottocentesco, tale Giuseppe Ruffo, raccontò d’aver avuto una apparizione/sparizione, quando il Lago sembrò incredibilmente scomparire dalla sua vista e lui ricollegò il fatto alla Fata Morgana, attorno alla quale gravita una leggenda a riguardo (pienamente smentita dalla scienza).C’era una grotta profonda e immensa di vasta apertura, rocciosa, difesa da un nero lago e dalle tenebre dei boschi sopra la quale nessun volatile poteva dirigere il cammino con le ali impunemente”. Così si presentava il Lago d’Averno agli occhi di Enea, attraverso le parole del poeta Virgilio.
Il territorio sul quale il bacino si è sviluppato è di per sé unico. Infatti si trova sui Campi Flegrei, la vasta area magmatica dalla vivacissima (e pericolosissima) attività vulcanica, ancor più temibile del Vesuvio. Il nome del Lago d’Averno deriva dal greco Avernus, ovvero “senza uccelli“. Questo perchè le acque del lago emanavano gas nocivi che risultavano letali per i volatili e che resero lo specchio d’acqua sguarnito di fauna (cosa che, per fortuna, non sussiste oggi).
Il lago non è l’unico luogo d’interesse nella zona, visto che a pochi passi si trovano il Tempio d’Apollo e l’Antro della Sibilla Cumana, formando una zona particolarmente mitologica e piena di misteri.
Palazzo Spinelli.

Edificio legato alla tradizione folcloristica dei Fantasmi Di Napoli.
In particolare alla leggenda di Bianca,che vi fu murata viva al suo interno, per uno sguardo in più.




Dietro dei mille portoni di via dei Tribunali, si apre, al numero 362, il singolare Palazzo Spinelli di Laurino, un edificio risalente al XV secolo, a cui è legata la prima storia di fantasmi di Napoli che vi vogliamo raccontare.Palazzo Spinelli di Laurino, in via Tribunali, già appartenuto in passato al poeta Giovanni Pontano (1429 – 1503), fu acquistato e ristrutturato nel ‘700 circa dalla famiglia Spinelli, duchi di Laurino dal 1567. Lungo lo scalone dell’edificio, qualcuno afferma di aver visto passare il fantasma di una fanciulla che la tradizione napoletana conosce come Bianca, damigella orfana della nobildonna Lorenza Spinelli.
Crudele, cinica, tirannica ed egoista, Lorenza non degnava il principe consorte della benché minima considerazione, tant'è vero che, nel momento in cui quest’ultimo decise di partire per la guerra, entrato nelle stanze della moglie per porgerle il suo affettuoso saluto, si sentì persino rispondere bruscamente. Il principe, andato via piuttosto seccato, incrociò in quel’attimo i dolci occhi della bella Bianca, intenta a pettinare la sua signora, riflessi in tutta la loro comprensione nello specchio della stanza. Uno sguardo innocente ma sufficiente di per sé a destare sospetti nella mente di Lorenza. Un gesto compassionevole punito col più atroce dei supplizi. Leggenda vuole che Bianca, del tutto indifesa, pronunciò come ultime parole ”Famme pure mura’ viva, ma in allegrezza o in grannezza tu me vidarraje.” Si racconta infatti che il fantasma della fanciulla apparisse tra le mura del Palazzo ad annunciare un lieto evento o una disgrazia.

Bianca fu infatti murata ancora viva proprio in una delle numerose stanze del palazzo.

Seppur innocente, non ebbe affatto modo di difendersi, lasciandosi comunque sfuggire la sarcastica minaccia che prima o poi sarebbe tornata, nella buona e nella cattiva sorte. Difatti, da allora in poi, si dice che il suo spirito sia apparso in seguito agli Spinelli sempre tre giorni prima di un lieto evento, di un lutto o di una disgrazia. E per quel che se ne sa, la sventurata damigella non avrebbe tuttora mai abbandonato il palazzo.

Proprio l’incredibile bellezza e le suggestioni del palazzo hanno fatto sì che divenisse location per diversi film ambientati a Napoli. In particolare si ricordano tre film legati al grande e indimenticabile Marcello Mastroianni: Maccheroni, in cui il palazzo è l’abitazione del protagonista; Giallo Napoletano e La Pelle in cui lo stesso Mastroianni assiste a due eventi misteriosi.Una particolarità dell’edificio è il cortile interno a pianta ellittica, l’unico a Napoli; il cortile è adorno di statue e stucchi di notevole bellezza. Notevole è pure lo scalone sanfeliciano composto da due rampe: la prima, in asse con la parete di fondo e la rampa successiva, ha una doppia rampa con duplice prospettiva e come sfondo ha dei cippi romani in due nicchie. Inoltre è presente la cappella di famiglia.Oggi il palazzo è in stato di degrado, con la facciata danneggiata per lo staccarsi del parametro in stucco che mette a nudo la struttura in tufo. Nello stesso stato versa anche il bel cortile ornato da statue.
C’è da dire comunque che secondo Annamaria Ghedina, sul libro “Fantasmi di Napoli”, la storia di Bianca è mutuata da una vicenda trevigiana.

La leggenda di Bianca, infatti, secondo la Ghedina, è una leggenda che riguarda la famiglia comitale dei Collalto. Essa narra di una giovane e bella ancella che sarebbe stata murata viva a causa della gelosia della sua padrona. Il suo fantasma si manifesterebbe ai componenti della famiglia Collalto vestito di bianco per annunciare gioie oppure di nero per annunciare sciagure. A riprova di ciò la Ghedina cita un’intervista che la contessa Maria di Collalto rilasciò, nel maggio del 1925, al giornale austriaco Neues Wiener Journal. Qui presenta la storia iniziando dalla lotta tra le due famiglie più potenti dell’entroterra della Repubblica di Venezia: i Da Camino a Ceneda ed i Collalto a Treviso. Entrambi di origine longobarda, questi due casati si dettero battaglia per secoli prima di arrivare alla pace. Questa fu confermata dal matrimonio del conte Tolberto di Collalto con Chiara Da Camino. Qui entra in gioco Bianca: ella era figlia di un dipendente dei Collalto, forse orfana, e fu allevata con i figli del conte precedente che, così, vi si erano affezionati. Tolberto la mise poi a capo della servitù femminile di Chiara. Ma questa pare avesse un carattere particolarmente geloso, tanto che Tolberto, quando ebbe occasione di partire per una guerra, pare non ne fosse molto dispiaciuto.
Il giorno della partenza, dal castello di Collalto, però, il conte entrò armato nella stanza della coppia, dov’era Chiara. Qui vi era anche Bianca, che stava pettinando la padrona. Uscendo, la contessa vide attraverso lo specchio che il marito salutava Bianca, la quale aveva le lacrime agli occhi. Quando il conte fu distante, presa dalla gelosia la fece imprigionare nelle carceri e, benché dicesse di non aver avuto nessuna relazione d’amore con Tolberto, la fece murare viva in una torre del castello, probabilmente nella sua stanza. Al ritorno Tolberto cacciò Chiara per il gesto che aveva compiuto o, secondo un’altra versione, si accontentò alla notizia che Bianca era morta.
Da allora, secondo la tradizione, il fantasma di Bianca appare alla famiglia Collalto quando sono vicine gioie o catastrofi: dalle testimonianze, Bianca apparirebbe con una veste bianca e, nel caso di sventure, con un velo nero sul volto.
Mutuata o meno – non c’è prova che l’una sia antecedente all'altra – non leva fascino alla nostra Bianca e a Palazzo Spinelli, dove non si contano i suoi numerosissimi avvistamenti…

Palazzo San Severo

La storia d’amore di Maria D’Avalos e di Fabrizio Carafa è probabilmente una delle più struggenti storie d’amore di tutti i tempi. Ancora oggi, si dice, i loro fantasmi animano le vie del centro storico.

Maria D'Avalos,una storia d'amore e morte,nel cuore di Napoli

1590. Le mura di Palazzo San Severo sono testimoni di un’orribile tragedia: l’assassinio della bellissima Principessa Maria D’Avalos e del suo amante il Duca D’Andria Fabrizio Carafa.

Napoli è una città ricca di storia, e tra le sue tante narrazioni non mancano storie di fantasmi, il fantasma di Maria d’Avalos è una di queste. Piazza San Domenico Maggiore è il luogo in cui si aggira questa oscura presenza, una donna condannata al dolore eterno che vaga nella zona, tra l’obelisco ed il portale di Palazzo San Severo, vagando nelle notti di luna piena alla ricerca del suo amore perduto.
Fabrizio Carafa duca d’Andria e Maria d’Avalos, furono degli amanti imprudenti e sconsiderati e si narra che furono pugnalati a morte, il 18 ottobre 1590, dal principe Carlo Gesualdo nella camera all'interno del Palazzo San Severo in cui consumavano la loro dirompente passione. Sebbene diverse siano le versioni di tale vicenda, la loro tragica fine li ha resi leggendari e immortali.
Dopo quel giorno, il fantasma della bellissima Maria d’Avalos vaga tutte le notti per le buie strade di piazza San Domenico Maggiore, emettendo strazianti lamenti in cerca dell’amante perduto e lasciando brividi di terrore alle persone che hanno la sfortuna di ascoltarli. Alcune voci sottolineano che durante le notti di luna piena questo fenomeno è più definito.
Il Palazzo San Severo, vico S. Domenico n° 9, fu costruito nel XVI secolo per volontà del Duca di Torremaggiore Paolo di Sangro, come residenza della casata. Accanto al palazzo, nel quale dimorò il Principe di S. Severo, Raimondo de Sangre, filosofo, alchimista ed appassionato di ricerche esoteriche, venne edificata anche la chiesa di Santa Maria della Pietà, utilizzata come luogo di sepoltura della famiglia e denominata poi Cappella San Severo.
Il principe di San Severo ideò personalmente l’apparato settecentesco della cappella il cui mistero è legato ad un sudario di marmo trasparente, il quale con un artificio ancora insoluto, fa “trasparire” sotto, il bellissimo viso del Cristo morto.

Curiosità – Nel 1609 Carlo Gesualdo, mosso da forti sensi di colpa per quell'orrore commesso, commissionò al pittore Giovanni Balducci una tela, Il Perdono di Carlo Gesualdo, conosciuta anche con il nome di La Pala del Perdono, in cui si celano tutti segni del suo pentimento; dipinto conservato nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie, a Gesualdo Avellino.

Per risalire alle cronache del tempo, dobbiamo fare un passo indietro e ricostruire la vita coniugale di Maria D’Avalos con il suo consorte, il cugino Principe Carlo Gesualdo. Entrambi di stirpe reale, lei di ramo spagnolo e lui di rame napoletano, convolano a nozze il 28 maggio del 1586 su dispensa del Papa Sisto V nella chiesa di San Domenico Maggiore a Napoli.


Carlo Gesualdo noto come Gesualdo da Venosa era un’eccellente compositore italiano di musica sacra e madrigali, attualmente riconosciuto come maestro, ha ispirato le più ardite composizioni dei musicisti del suo tempo e dei cantautori attuali.Maria D’Avalos donna di incredibile bellezza, aveva sposato suo cugino in terze nozze: rimase vedova dalle prime nozze con Federico Carafa, e vedova anche dalle seconde con Alfonso Gioieni, perdendo in disgrazia anche i figli avuti dai due precedenti sposalizi.Forse il matrimonio non le si addiceva o meglio il destino aveva forgiato per lei, anziché il ruolo di moglie... quello di un’ amante appassionata.

Il marito e l’amante

I due sposi andarono ad abitare a Palazzo San Severo (Palazzo di Sangro) in Piazza San Domenico Maggiore, e dalla loro unione nacque un figlio, Emanuele. Il matrimonio proseguiva all'apparenza sereno, ma dopo quattro anni qualcosa mutò: Maria non negava pubblicamente il fatto che suo marito fosse poco attraente, privo di interessi e ossessivo nei modi, cominciò ad odiare lui e la sua musica, allontanandosi man mano dall'uomo per sentirsi attratta dal nuovo.
Durante una festa aristocratica della nobiltà napoletana, le fu presentato il Duca Fabrizio Carafa, di nobile famiglia illustre, conosciuto con l’appellativo l’Arcangelo dato l’enorme fascino e avvenenza che emanava, sposato con la nobildonna Maria Carafa da cui ebbe quattro figli.
Tra i due scoppiò una scintilla di passione prepotente a prima vista e nel giro di poco fra scuse fugaci, divennero amanti; dapprima si incontravano di nascosto alle feste per poi finire nelle stanze private della principessa, e scambiarsi ore di intensa intimità.
Maria aveva trovato l’amore che sognava da tempo ma lontano da una normale relazione, questa, si presentava come un fuoco pericoloso.

L’intrigo e la vendetta


Le voci della loro relazione cominciare a prendere forma in tutti gli ambienti napoletani, dal popolo alla nobiltà, bisbiglii, sussurri e smorfie circolavano senza pudore.
Don Gesualdo, dapprima piombò nei suoi silenzi, non volendo credere a tutte quelle calunnie che circolavano intorno; componeva struggenti melodie dedicate alla moglie, nella speranza di un ritorno. Ma aveva già intuito il peggio, ovvero il timore di un tradimento.
Un giorno quelle lingue furono troppo ardite e informarono della tresca amorosa al marito.
Le testimonianze dell’epoca sono contrastanti sulla vicenda: si presume che fosse stato lo zio del principe, don Giulio Gesualdo o il segretario gesuita deforme detto o’ prevetariello, a spifferare il tutto, forse perché invaghiti di Maria e rifiutati più volte dalla donna, covavano sete di vendetta.
I due amanti avvisati del pericolo che stavano correndo, decisero per un po' di non incontrasi neanche in pubblico, limitandosi ad inviare lettere appassionate. Ma il distacco li stava consumando: Maria esortava l’uomo ad avere coraggio e ad affrontare la situazione minacciando di troncare la relazione. Fabrizio da parte sua era disposto a morire per la sua amata purché avrebbe lasciato su due piedi quell'uomo, di cui invidiava esserne il marito.
Una sera, Don Gesualdo comincia a coltivare l’idea di vendetta anche se il pensiero lo terrorizzava,colto dal sospetto del tradimento; e qui la vicenda diventa un po' confusa.
A notte fonda, finse di partire per recarsi a caccia nel parco degli Astroni; si presume che egli si sia nascosto in attesa dell’arrivo di Fabrizio e che sia entrato poi con violenza nel palazzo, ed insieme ad alcuni servitori muniti di spade archibugi, alabarde e solo allora, avrebbe messo in atto la vendetta.Giunto davanti alla camera da letto (nella speranza di trovarla sola) spalancando la porta, vide i due amanti avviluppati l’uno nell'altra e pazzo di gelosia, prese un pugnale e cominciò a colpirli con brutalità fino a sfinirli a morte. Altre cronache presumono che siano stati i suoi sicari ad uccidere gli manati e non lui di prima persona.
L’orrore era stato compiuto e sporco di sangue in preda alla follia, fuggì per strada piangendo e disperandosi senza meta, finché si allontanò da Napoli, temendo la vendetta dei congiunti.
La camera della morte era situata nell'angolo sinistro del Palazzo, al secondo piano.


Il giorno seguente i Regi Consiglieri ed i Giudici Criminali della Gran Corte della Vicaria entrarono nella camera da letto e trovarono il corpo straziato senza vita di Fabrizio Carafa e a tre passi da lui, giaceva il cadavere insanguinato della bella Maria. Per il disonore e lo scandalo arrecato alla nobiltà, i corpi dei sfortunati amanti furono esposti nudi come monito, la mattinata seguente in mezzo alle scale del palazzo e tutta la città corse a vederli. Molteplici furono le versioni fantasticate della storia.
I corpi furono sepolti secondo disposizione delle relative famiglie: Maria d’Avalos, su fu sepolta nel lato destro della Chiesa di S. Domenico Maggiore, nella Cappella di Ferrante Carafa, suo primo marito ed insieme ai suoi figlioletti Ferdinando e Beatrice.

Fabrizio Carafa, invece, fu seppellito in una bara e consegnato al gesuita Don Carlo Mastrillo su disposizione della moglie Donna Maria Carafa, che per il disonore si ritirò a vita monastica.

Leggende

Negli anni ”90 l’Università di Pisa ricevette l’incarico di scoperchiare le tombe in cui secondo ipotesi, riposavano gli scheletri dei due amanti; vi erano dei resti mortali: si ipotizzò per le lesioni ricevute quello di Fabrizio Carafa, ma di Maria D’Avalos non vi era traccia. Forse lì non c’è mai stata.
Si dice che dalla notte della tragedia fino ai secoli dopo, coloro che abitavano nei pressi del palazzo potevano distinguere bene le urla strazianti di Maria D’Avalos.
In più, sul Palazzo San Severo pendeva una sciagura: chi lo abitava era maledetto fino alla settima generazione; questo durò fino al 1889, quando un’ala del palazzo crollò portando con sé la stanza del peccato e dell’omicidio. Altre voci dichiarano che tra l’obelisco di San Domenico Maggiore e il portale del Palazzo di Sangro dei Principi di San Severo si aggira una figura eterea, di tale bellezza che singhiozza: il fantasma di Maria.
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Chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio


Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco,
la chiesa de “ 'e cape e morte”.
Un vero e proprio viaggio nel culto delle 
"anime del purgatorio"


Purgatorio ad Arco
La chiesa delle anime pezzentelle


Nel cuore del centro antico di Napoli, lungo via dei Tribunali, si trova la chiesa di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco, nota al popolo partenopeo come la chiesa “de’ ’e cape ’e morte”. Varcandone la soglia comincia un vero e proprio viaggio nella cultura napoletana tra arte, fede, vita, morte. Dalla piccola e bellissima chiesa del ‘600, che custodisce i preziosi marmi e il Teschio alato di Dionisio Lazzari, insieme a capolavori di Massimo Stanzione, Luca Giordano e Andrea Vaccaro, si scende nell’antico e grandioso ipogeo che ospita ancora oggi l’affascinante culto rivolto a resti umani anonimi che diventano speciali intermediari per invocazioni, preghiere, richieste di intercessioni. Un piccolo museo allestito negli spazi dell’elegante sagrestia completa l’itinerario.


Mirabile gioiello seicentesco venne commissionata nel 1616, dalla congregazione laica Opera Pia Purgatorio ad Arco, all’architetto Giovan Cola di Franco, e consacrata nel 1638. La struttura fu concepita su due livelli, una chiesa superiore che rimandasse alla dimensione terrena e un Ipogeo, area cimiteriale, che rappresentasse concretamente il Purgatorio.
La cura delle anime del Purgatorio era uno dei punti principali della nuova chiesa contro riformata e tutto l’apparato decorativo del Complesso venne ideato per ricordare, a passanti e fedeli, che le anime attendevano una preghiera in suffragio per potersi liberare dal fuoco del Purgatorio e ascendere al Paradiso. La facciata, la decorazione della chiesa e della Sagrestia, gli arredi liturgici, ogni cosa rimanda al tema del Purgatorio, ed anche l’intero programma iconografico è dedicato al tema del trapasso attraverso testimonianze del Seicento: il Transito di San Giuseppe (1650-51) di Andrea Vaccaro, nella terza cappella a sinistra, la Morte o Estasi di Sant’Alessio, capolavoro giovanile (1661) di Luca Giordano, nella terza cappella a destra. Splendida, nella sua preziosità, la tela della parete di fondo, raffigurante La Madonna delle anime purganti (1638-1642), di Massimo Stanzione, che sovrasta il Teschio alato, pregevole scultura marmorea di Dioniso Lazzari, oggi celato dall'altare; in alto, al di sopra dell'arco trionfale, corona la sequenza la scena classicamente composta di Sant’Anna offre la Vergine bambina al Padre Eterno (1670) di Giacomo Farelli, e lucente per i toni cromatici, nella prima cappella a sinistra, San Michele Arcangelo che abbatte il demonio (1650) di Girolamo De Magistro.

L' Ipogeo
Attraverso un’apertura nel pavimento della chiesa superiore, scendendo per alti gradini, si accede ad un grande e scarno ambiente, una vera e propria chiesa inferiore, che rappresenta uno dei luoghi più celebri della città, e ancor oggi ospita il culto intenso e spontaneo delle anime del Purgatorio. Al centro del pavimento si apre un’ampia tomba anonima circondata da catene nere e illuminata fiocamente da qualche lampadina. Lungo le pareti laterali, scarabattoli, nicchie, piccoli altarini, documentano il culto che spontaneamente nacque, fin dal seicento, nella chiesa inferiore, mentre sulla parete di fondo l’antico altare seicentesco mostra un’austera decorazione con grandi croci nere. Un’apertura laterale introduce attraverso un corridoio, all'ambiente dedicato alla Terra santa, dove, tra gli altri teschi, si trova quello di Lucia, l’anima tanto amata alla quale la tradizione popolare ha dedicato un complesso altarino.



Impressiona la vastità dell’ambiente concepito come una chiesa inferiore, con cappelle laterali e altare centrale e risulta evidente la volontà di contrapporre la ricchezza decorativa della chiesa superiore all'austerità dell’ipogeo che, come hanno dimostrato i documenti, rappresenta una parte integrante del progetto originario. Vennero acquistate infatti all'inizio del ‘600 una serie di taverne per offrire concreta materializzazione al Purgatorio e per dare spazio anche alla Terra Santa dove trovavano sepoltura i membri della Congrega mentre un ossario era destinato ad accogliere i defunti comuni. La chiesa inferiore è a navata unica con aperture laterali. Alla metà del ‘700 la zona fu allargata e rivestita da una ricca decorazione in maiolica con motivi decorativi – teschi e ossa e piccoli inserti floreali - realizzata dal riggiularo Giuseppe Barberio.

Il Complesso



Il seicentesco complesso di Santa Maria delle Anime del Purgatorio ad Arco sorge in via dei Tribunali, nel cuore del centro storico. La chiesa barocca nasce nel 1616 su iniziativa di alcuni nobili per dare sepoltura alle persone povere della città, senza famiglia e senza casa.


Oltre alla chiesa, il complesso comprende anche: il Museo dell’Opera Pia, dove sono esposti oggetti liturgici, paramenti, suppellettili, argenti, manoscritti, dipinti; una chiesa inferiore, che si trova al di sotto della chiesa superiore principale.
L’elemento di maggiore interesse è proprio la Chiesa Inferiore, a cui si accede tramite un’apertura nel pavimento della chiesa superiore e scendendo alcuni alti gradini. Questo luogo, chiamato Ipogeo, è uno dei più simbolici di Napoli, dove ancora si celebra il culto delle anime del Purgatorio. In un’atmosfera altamente suggestiva, tra scarabattoli, nicchie, lampadine dalla luce fioca, piccoli altarini, teschi, si potrà avere un’idea del culto per le anime che nacque spontaneamente fin dal seicento nella città di Napoli.

Il mito di Proserpina e il culto della melagrana

Questo frutto esotico spesso ricorre nell'iconografia napoletana con un duplice significato: la vita e la morte. Ma è anche legato alla massoneria, e nella simbologia cristiana rappresenta la fede e la fecondità

Percorriamo su e giù le strade e i vicoli di Napoli, ma, distratti dalla frenesia quotidiana, spesso non prestiamo attenzione ai numerosi simboli e misteri che questa città ci rivela. In diversi dipinti, sculture e Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana„bassorilievi, è presente un frutto, dalla buccia dura e dalla polpa ricca di grani rossi e succosi, carico di significati simbolici: la melagrana. Come mai questo frutto esotico ricorre spesso nell'iconografia napoletana? Che significato ha? Per capirlo dobbiamo ritornare indietro nel tempo. Il melograno è considerato, accanto alla vite, uno degli alberi da frutta coltivati più antichi. Una leggenda narra che Venere lo donò agli uomini facendolo piantare a Cipro.


Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana



Per questo motivo nell'antica Grecia era considerato un albero da frutto sacro, simbolo del matrimonio e della fertilità. A confermalo sono i numerosi dipinti in cui viene raffigurata questa divinità con una melagrana nella mano destra. Questo frutto esotico è legato, però, anche ad un altro mito, che molto ha a che fare con Napoli: il rapimento (o ratto) di Persefone. Si narra che questa dolce fanciulla (Proserpina per gli antichi romani), figlia di Zeus e Demetra, venne rapita da Ade (Plutone per i romani), Signore degli Inferi, e da lui sposata con l’inganno. Una volta appreso della scomparsa della figlia, Demetra, dea dell’agricoltura e dei raccolti, iniziò a cercarla ovunque disperata. In questa sua ricerca dimenticò la crescita delle messi e il rigoglio della vegetazione, e sulla Terra giunse un duro inverno che sembrava non voler finire mai. Zeus, così, preoccupato per la triste sorte degli uomini che morivano di fame e di freddo, informò Demetra di quello che era accaduto alla figlia. La reazione della Dea fu molto dura: non avrebbe fatto ricrescere la vegetazione sino a quando Persefone non fosse tornata a casa. Intanto la dolce fanciulla, imprigionata negli inferi e destinata a diventarne la regina, si rifiutava di mangiare qualsiasi cosa. Un giorno, però, le fu offerta con l'inganno della frutta, e la giovane si cibò di sei grani di melagrana ignorando le conseguenze che le avrebbe portato questo frutto (chi mangiava i semi di melagrana sarebbe stato costretto a rimanere negli Inferi per l’eternità). Zeus, per placare la rabbia di Demetra, decise allora di intervenire trovando un accordo con Ade: siccome Persefone non aveva mangiato un frutto intero ma solo sei grani, avrebbe soggiornato nell'Ade solo per sei mesi, nel periodo rimanente sarebbe potuta tornare dalla madre. Nel periodo in cui Proserpina tornava sulla Terra, Demetra faceva inverdire e fiorire la natura (stagione primavera-estate) per la grande gioia di avere la figlia con sé; nei mesi in cui ritornava negli Inferi, invece, travolta dalla malinconia, spogliava gli alberi e rattristava il paesaggio (stagione autunno-inverno): in questo modo i greci si spiegavano il ritmo delle stagioni.



In questo mito la melagrana rappresenta la morte e la rinascita a nuova vita: la dea si ricongiungeva per sei mesi con il suo sposo per poi risorgere presso la madre e permettere alla vegetazione di rifiorire. Non a caso la melagrana divenne il simbolo del nutrimento dei defunti: numerosi geroglifici raffiguranti la melagrana sono stati scoperti all'interno di tombe egizie che risalgono a 2.500 anni fa. La melagrana assume, così, un duplice significato: la vita e la morte. Ma questo frutto è anche il simbolo del matrimonio, dato che i grani del frutto ricordano l’abbondanza e la fecondità. Ancora oggi in Grecia è usanza rompere una melagrana durante i matrimoni, e ai proprietari di una nuova abitazione si suole regalare il frutto per buon auspicio.Questo frutto esotico è legato anche al mondo della Massoneria: la melagrana è la loggia massonica e i suoi grani sono i suoi membri, legati da un vincolo di fratellanza e condivisione, sulla base di idee e conoscenza. Nella simbologia cristiana, invece, rappresenta la fede, l’unità tra popoli e culture diverse, la fecondità e l'abbondanza, come testimoniano le decorazioni e le iconografie religiose. Nelle Sacre Scritture è simbolo del martirio di Cristo e di tutti coloro che hanno dato la vita per Lui. Molti dipinti a tema religioso raffigurano Madonne con questo frutto. Tra questi ricordiamo il tondo di Botticelli, Madonna della melagrana, che raffigura la Vergine con in braccio Gesù bambino, i quali tengono in mano una melagrana.Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana



Come dicevamo all'inizio, la storia di questo frutto coinvolge anche Napoli, città ricca di simboli, che quotidianamente sfuggono al nostro sguardo. Numerose sono le opere che raffigurano questo frutto dal forte significato simbolico. Tra questi ricordiamo la Cappella Minutolo, nel Duomo di Napoli, resa famosa dall'Andreuccio di Boccaccio. Sulla facciata laterale del sepolcro di Enrico Minutolo, troviamo un bassorilievo raffigurante la “Madonna col Bambino”: una madre che ha tra le mani la melagrana, contesa con un bambino feroce e dallo sguardo minaccioso.

Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana

Spostandoci in via Carbonara, troviamo il complesso di San Giovanni, che nasconde numerosi simboli, alcuni dei quali legati alle arti alchemiche. All'ingresso laterale della Chiesa, sulla parte anteriore, oltre ad alcune statue, si nota la scultura di una donna, che tiene in braccio un bambino, mentre regge nella mano destra una melagrana, richiamando alla mente - secondo Palumbo e Ponticelli - la regina degli Inferi, Persefone. Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana


Napoli, il mito di Proserpina e il culto della melagrana

Questo frutto esotico, continua ad essere, ancora oggi l'emblema della fertilità e della prosperità. A Napoli un'antica credenza vuole che si ponga un piatto colmo di melagrane ancora acerbe al centro della tavola in cucina aspettando che maturino sino ai primi giorni di novembre, in concomitanza della commemorazione dei defunti. Si crede che una volta spaccatisi i frutti, questi assorbano al proprio interno tutte le energie negative della casa.


Sancha, il fantasma che piange nella Basilica di Santa Chiara


Tutt’oggi nella Basilica di Santa Chiara ciò che inquieta e incuriosisce è la presenza di uno spirito. Tra le mura di questo antico luogo di culto è possibile avvertire la presenza del fantasma di Sancha che dal 28 luglio del 1345, giorno in cui la donna venne tumulata nel monastero, vaga per la il monastero, tra i chiostri adiacenti, i viottoli e i suoi giardini. Sancha vestita con un abito lungo cammina a passo lento senza una meta con il capo chino e le mani giunte come se stesse pregando. Triste, insicura e con un’espressione terrificante, quest’ultima alzerebbe lo sguardo e fermerebbe il suo cammino solo in rare occasioni.

La gotica Basilica di Santa Chiara rappresenta uno dei più importanti complessi monastici di Napoli,realizzata dall’architetto Gagliardo Primario tra il 1310 e il 1328 per volere di Roberto D’Angiò e della moglie Sancha di Maiorca. Oltre a diversi avvenimenti importanti, tra cui un episodio legato allo scoppio della Battaglia di Lepanto, è in questo luogo che la storia e la bellezza si fondono con il mistero. Tutt’oggi nella Basilica di Santa Chiara ciò che inquieta e incuriosisce è la presenza di uno spirito. Tra le mura di questo antico luogo di culto è possibile avvertire la presenza del fantasma di Sancha che dal 28 luglio del 1345, giorno in cui la donna venne tumulata nel monastero, vaga per la il monastero, tra i chiostri adiacenti, i viottoli e i suoi giardini. Sancha vestita con un abito lungo cammina a passo lento senza una meta con il capo chino e le mani giunte come se stesse pregando. Triste, insicura e con un’espressione terrificante, quest’ultima alzerebbe lo sguardo e fermerebbe il suo cammino solo in rare occasioni.

Lo spirito di Sancha ed il suo volto bagnato dalle lacrime non sono stati mai descritti in modo perfetto poiché si narra che chiunque abbia osato disturbare la sua preghiera abbia immediatamente perso la vita.
Ancora oggi sono in molti a pensare erroneamente che il fantasma della Basilica di Santa Chiara sia quello di Giovanna I d’Angiò la quale fu fatta assassinare da Carlo di Durazzo il 12 maggio del 1382. La sovrana venne sepolta in un luogo sconosciuto o in una zona della sagrestia di Santa Chiara.



Chiesa dei Girolamini o di San Filippo Neri

La chiesa dei Girolamini  si trova in Via dei Tribunali.

L'edificio fa parte di un vasto complesso monumentale che comprende anche una pinacoteca e una libreria con 150000 volumi. L’edificio è denominato anche di San Filippo Neri ed è dedicato a Santa Maria della Natività e a Tutti i Santi.
La sua costruzione risale al XVI secolo, secondo il progetto di Giovanni Antonio Dosio, che riadattò il precedente Palazzo Seripando in modo che potesse accogliere la chiesa e il convento. Inoltre era previsto l’abbattimento delle preesistenti chiese dei Santi Demetrio e Simeone, dei Santi Cosma e Damiano e di San Pantaleone, in modo da creare il Largo dei Girolamini antistante la nuova struttura. Alla sua morte, l’opera fu completata da Dionisio Nencioni Di Bartolomeo che vi lavorò fini al 1619, anno della sua inaugurazione. Nel XVII secolo, dopo il 1655, venne edificata la cupola da Dioniso Lazzari che modificò anche la facciata. Quest’ultima, fu ritoccata di nuovo nel 1780 su progetto di Ferdinando Fuga che aggiunse anche due campanili. Ai lati della sommità, troviamo due statue iniziate da Cosimo Fanzago e terminate da Giuseppe Sanmartino, raffiguranti San Pietro e San Paolo. Sempre del Sanmartino, invece, le statue di Mosè e Aronne, i Putti con le Tavole della Legge e l’Agnello mistico sul portale.



Descrizione
La cappella, situata sulla sinistra del presbiterio, è decorata con un ciclo di affreschi dedicati alla vita di san Filippo Neri di Francesco Solimena. Appare qui evidente lo studio sulle opere di Mattia Preti, evidente anche nelle figure del transetto (Abramo e Melchisedech, Mosè e David), dipinte dall’artista negli stessi anni, e nei bozzetti per gli affreschi eseguiti nella chiesa conservati presso la Quadreria dei Girolamini.

Chiesa dei Girolamini Napoli


La chiesa dei Girolamini (o Gerolomini, o di San Filippo Neri) è una chiesa monumentale di Napoli ubicata nel largo omonimo, con impianto architettonico di tipo basilicale e intitolata alla Natività di Maria Santissima e a tutti i santi-La sua decorazione in oro, marmi e madreperla le valsero il titolo di Domus aurea. Il suo interno presenta una concentrazione di opere di grande qualità di artisti sia napoletani che di estrazione toscana, emiliana e romana che la rendono, assieme all’annesso convento, uno dei più importanti complessi monumentali della città.
L’intero edificio conta al suo interno, oltre che dalla chiesa, anche di una prestigiosa quadreria (prima pubblica di Napoli), di una ricca biblioteca (la più antica biblioteca pubblica di Napoli e seconda in Italia), di due chiostri monumentali e infine dell’oratorio dell’Assunta (detto anche “degli artisti”). Il complesso monumentale è stato dichiarato monumento nazionale nel 1866 con le leggi eversive del patrimonio ecclesiastico. A partire dal 2010 tutto il convento è stato interamente musealizzato; nel 2016 ha fatto registrare 13 631 visitatori.


Esterno

La facciata principale della chiesa è su largo dei Girolamini, lungo via dei Tribunali.

Il prospetto su largo Girolamini è impaginato su due ordini delimitati da una trabeazione: nel registro inferiore, articolato per mezzo di lesene scanalate, si aprono tre portali, di cui quello centrale è il maggiore; il gruppo scultoreo sovrastante il portale centrale, opera di Giuseppe Sanmartino, raffigura Mosè ed Aronne con le tavole dei comandamenti in ebraico sorrette da angeli.
La parte superiore della facciata è alleggerita mediante un finestrone rettangolare sormontato da un timpano triangolare, oltre il quale svetta un coronamento costituito da un timpano arcuato e spezzato, al centro del quale si innalza un setto decorato con l’immagine della Madonna col Bambino, detta “della Vallicella”, sempre opera del Sanmartino.



La cupola fu eretta a metà del XVII secolo da Dionisio Lazzari, poi demolita e ricostruita nel corso dell’Ottocento. Il Lazzari realizzò anche la facciata, che fu rifatta in marmi bianchi e bardiglio nel 1780 su disegni di Ferdinando Fuga; ai lati è delimitata da due campanili gemelli dotati di orologi (uno solare e uno di sei ore) sulle cui trabeazioni sono poste le statue di Pietro e Paolo, iniziate da Cosimo Fanzago e ultimate ancora una volta dal Sanmartino.

Interno

L’interno presenta una pianta a croce latina suddivisa in tre navate per mezzo di dodici colonne di granito dell’Isola del Giglio (sei per lato). Con i suoi 68 metri di lunghezza e i 28 metri di larghezza è tra i più vasti edifici di culto napoletani.
Sulla contro facciata c’è un affresco di Luca Giordano raffigurante la Cacciata dei mercanti dal tempio del 1684; ai lati, sulle porte di accesso ai campanili, ci sono gli affreschi datati 1736 di Ludovico Mazzanti che rappresentano La cacciata di Eliodoro (a sinistra) e La punizione di Ozia (a destra).Tra la navata centrale e quella a sinistra, lungo il colonnato, è visibile una lapide in memoria di Giambattista Vico sepolto, secondo le antiche guide di Napoli, nell’ipogeo sotto la cappella di Sant’Agnese.
Il soffitto a cassettoni, gravemente danneggiato dai bombardamenti del 1943 venne decorato nel 1627 dai napoletani Marcantonio Ferrara, Nicola Montella e da Giovanni Iacopo De Simone con La Gloria di San Filippo e La Madonna della Vallicella. La navata è affrescata lungo le arcate con immagini di santi, eseguiti nel 1681 da Giovan Battista Beinaschi.
La cupola conserva frammenti di un ciclo di affreschi facenti parte della ricostruzione del 1845, eseguiti da Camillo Guerra con scene del Paradiso. Di Ludovico Mazzanti si sono invece conservati nei peducci una serie di Evangelisti, affrescati nel 1735-40, mentre le arcate del transetto vedono gli affreschi su Abramo, Melchisedech, Mosè e Davide databili 1727-30 di Francesco Solimena.

Il presbiterio è cinto da una balaustra marmorea e nell’abside, a pianta rettangolare, è collocato sul fondo il dipinto di Giovanni Bernardino Azzolino (secondo altri Luigi Rodriguez) raffigurante la Madonna della Vallicella e tutti i santi con ai lati le due grandi tele di Belisario Corenzio raffiguranti la Cattura di Cristo e la Crocifissione del 1615 circa. Intorno all’altare sono collocate le statue lignee scolpite da Giuseppe Picano, allievo di Giuseppe Sanmartino, raffiguranti San Pietro, Sant’Andrea, San Giovanni e San Giacomo, tutte del 1780 circa; i bozzetti delle prime due si trovano al Metropolitan di New York. Ai lati della balaustra sono collocati due Angeli reggi fiaccola del 1787 scolpiti in marmo bianco di Carrara da Giuseppe Sanmartino.
L’altare è ottocentesco, l’originale seicentesco opera di Dionisio Lazzari è ora collocato nella chiesa di Sant’Agata a Sant’Agata sui Due Golfi, vicino Sorrento. La tribuna è invece caratterizzata da un’opera attribuita a Luca Cambiaso su Angeli che portano i simboli della Passione, da un dipinto sul Compianto sul Cristo morto del 1603 di Giovanni Bernardo Azzolino, da un frammento di un dipinto su Angeli che portano i simboli della Passione del 1680 circa di Luca Giordano e da una Flagellazione databile 1605-1610 di ignoto autore.

Sacrestia

La sacrestia, in linea d’aria alle spalle dell’abside, è raggiungibile da due porte poste sulle cappelle presbiteriani  del transetto.
Nella volta, notevole è un affresco seicentesco raffigurante San Filippo Neri in gloria (740×400 cm) opera di Giovan Battista Beinaschi, secondo i più recenti studi, mentre la guida secentesca del Celano (1692) lo assegna a Luca Giordano.Di particolare pregio anche il pavimento a commesso marmoreo e gli armadi in noce che recano lo stemma del cardinale Vincenzo Maria Orsini di Gravina, papa col nome di Benedetto XIII. Le porte dorate della sala e l’altare sulla parete frontale sono databili al XVIII secolo; questa è decorata nella cupoletta e nella volta da affreschi del 1750 di Leonardo Olivieri, mentre la tela che la decora è una copia dell’Incontro di Cristo con San Giovanni Battista di Guido Reni, il cui originale è oggi in quadreria.
La sacrestia ha ospitato fino ad epoche recenti l’antica raccolta d’arte dei padri oratoriani; i quadri erano anche collocati nella sala attigua che conduce alla chiesa attraverso il cappellone dei Martiri, nel transetto destro. Fino al 1907 era presente in loco anche il Sant’Antonio Abate (1517-1518 circa) del Correggio, poi spostato in quell’anno al museo nazionale di Capodimonte.

Cripta

Sempre dietro l’altare maggiore, al di sotto della sacrestia, si sviluppa la cripta della chiesa.

Questa è costituita da due stanze: la prima serviva come sepoltura nella terra dei padri oratoriani, la seconda è custode di centinaia di ossa. Inoltre il luogo è caratterizzato da un affresco raffigurante San Filippo, la cui base è accompagnata da un altarino in marmo. In base ad una antica tradizione i teschi erano oggetti di culto, tant’è che vi si trovano ancora bigliettini di richieste fatte dai credenti, esattamente come accadeva nel ben più vasto cimitero delle Fontanelle. Secondo un’altra leggenda, il luogo fungeva addirittura come ulteriore laboratorio di studio del principe Raimondo di Sangro.

I sotterranei sono stati chiusi nel 1979 e riaprono solo in via eccezionali

Convento

Il convento dei Girolamini, o anche Casa dei Padri dell’Oratorio, si sviluppa adiacente alla chiesa, la cui facciata principale col relativo ingresso insiste di fronte al duomo di Napoli, al civico 144 di via Duomo. Il convento fu edificato a partire dal 1587, nello stesso periodo in cui furono avviati i lavori alla prima chiesa chiesa voluta dai padri Oratoriani, sul preesistente palazzo Seripando. Negli anni novanta dello stesso secolo, con la nascita della nuova chiesa dei Girolamini, e fino alla prima metà del Seicento circa, il complesso fu poi ampliato con l’aggiunta del secondo e più grande chiostro (degli Aranci) e di altre sale e corpi di fabbrica fino a raggiungere le dimensioni attuali.
La facciata risale al Settecento e consta di due ingressi: quello di sinistra, dopo un ampio scalone e passando anche per il settecentesco oratorio dell’Assunta, uno dei cinque oratori del convento utilizzato tutt’oggi per le funzioni religiose, conduce direttamente alla navata di destra della chiesa; quello di destra invece, conduce ai due chiostri monumentali da cui poi si sviluppano tutti gli altri spazi del complesso.

I chiostri dei Girolamini sono:

il chiostro piccolo, a pianta quadrata, è detto “Maiolicato” e venne realizzato su progetto del Dosio sullo spazio occupato dal vecchio palazzo Seripando. Il corpo di fabbrica è sorretto da quattro colonne per lato, mentre agli angoli ci sono pilasti in piperno con due semicolonne; la pavimentazione in maioliche è di fine ottocento. Al centro c’è un pozzo tardo-cinquecentesco;
il secondo, più grande, è detto “degli Aranci”, proprio per le coltivazioni di agrumi. Fu eretto negli anni trenta del Seicento sui disegni di Dionisio Nencioni di Bartolomeo e di Dionisio Lazzari. La struttura del corpo di fabbrica è sorretta da possenti pilastri ed i giardini sono ad una quota più bassa rispetto agli ambulacri con cui sono collegati tramite due scale con ringhiera in ferro battuto.
Dal chiostro grande è infine possibile raggiungere altri ambienti, come i restanti quattro oratori, dei Dottori, della Purificazione, di San Giuseppe e dei Mercanti e la storica biblioteca, custode quest’ultima della più antica raccolta libraria della città e che si compone di circa 200.000 manoscritti, di cui circa 6.500 riguardanti composizioni ed opere musicali dal XVI al XIX secolo. La biblioteca è inoltre ospitata in sale di grande pregio artistico delle quali, la maggiore per rilevanza artistica e dimensione, dedicata proprio a Giambattista Vico, che donò le prime edizioni di tutte le sue opere al convento. Al primo piano del complesso religioso, infine, alcune sale ospitano la collezione della storica Quadreria.

Quadreria

Il convento ospita al primo piano la Quadreria dei Girolamini, nella quale sono esposte importanti opere di scuola napoletana, come quelle di Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Francesco Solimena, di un giovane Jusepe de Ribera e Luca Giordano, ma anche di altre scuole dell’Italia centrale, su tutte quella romana, bolognese e toscana, con opere di artisti quali Guido Reni, Federico Zuccari, il Sermoneta, Francesco Vanni, Francesco Curradi e Francesco Gessi.
La quadreria è frutto di donazioni fatte da privati, già dalla fondazione del complesso, e da opere provenienti direttamente dalle raccolte dei padri oratoriani.
Aperta al pubblico negli anni venti del XVII secolo, si tratta della prima quadreria pubblica della città.






Il Diavolo nel Convento dei Girolamini. La leggenda di una terribile persecuzione

Il Convento dei Girolamini ospita una leggenda molto inquietante: fu tramandato il celebre episodio che riguardò il nobile Carlo Vulcano, intenzionato a prendere i voti, il cui cammino spirituale fu turbato dalla presenza del Diavolo che sconvolse le sue terribili notti.


Il Complesso Monumentale dei Girolamini (Chiesa di san Filippo Neri) è senza dubbio, una delle più belle opere del Barocco napoletano, sorto nel 1592 nel cuore del centro storico di Napoli.
Vanta di al suo interno, di una superba Quadreria, la prima pubblica di Napoli che conserva e mostra ai visitatori, i migliori dipinti del Seicento, passando dalla scuola napoletana con le opere di Luca Giordano, Francesco Solimena, Battistello Caracciolo, Massimo Stanzione, Jusepe de Ribera fino a incontrare quella romana, toscana e bolognese fra cui i capolavori di Guido Reni; annessa sono incorporati due magnifici chiostri monumentali, il più piccolo detto il «maiolicato» il più grande chiamato «degli aranci». Questi immettono ai piani superiori, dove si accede all’Oratorio dell’Assunta e alla più antica e preziosa Biblioteca, seconda per rilievo in Italia, che custodisce manoscritti religiosi, volumi e libri antichi ben conservati che ne fanno un’eccellenza del nostro patrimonio culturale.
Nel 2010 arriva l’accordo che permette di includere il Convento dei Girolamini nel circuito dei musei di Napoli e di quelli ubicati in Via Duomo, lungo la «Via dei Musei».

La Biblioteca si è resa protagonista nel 2012 con l’infelice vicenda di cronaca giudiziaria del «Saccheggio dei Girolamini» legata al furto di ben quattromila volumi preziosi, sottratti al convento di nascosto e venduti clandestinamente all’estero. Il caso divenuto di portata nazionale, ha acceso i riflettori sull’importanza del sito storico da tutelare come bene dell’umanità.
Ora il sito museale, fra numerosi sforzi e iniziative tese a valorizzarne il patrimonio culturale, è tornato a risplendere attraverso un progetto, grazie all’accordo siglato tra l’Università Federico II e il Mibact, tra il rettore Gaetano Manfredi e la direttrice generale del ministero delle Biblioteche Rossana Rummo, che hanno lanciato da quest’anno, il nuovo corso di alta formazione in «Soria e filologia del manoscritto e del libro antico» il cui scopo è far diventare del museo, un luogo di studio e di ricerca.

Si sa che a Napoli, conventi e demoni suscitano nell’immaginario collettivo, una certa fantasia popolare: quali cause possono scatenare le forze del male in un’oasi di pace?

Misteri e leggende di Napoli, Satana tra i Girolamini: una storia di infestazione demoniaca tra le Mura del convento.


Un episodio citato dalle fonti è quello che vide coinvolti: il Convento dei Girolamini, il nobiluomo Carlo Vulcano e il Diavolo in persona. Non è inusuale trovare situazioni sinistre nei conventi napoletani, teatri di fatti e avvenimenti che vedono impiegate le forze del bene contro le forze del male, atti di magia e stregoneria celati fra antiche mura religiose.
Il perché di tanta magia è spiegato dal fatto che il centro storico di Napoli è ricco di energie antiche che rimandano ai culti egizi, greci e romani, su cui sono state erette molte chiese …

Carlo Vulcano e il Diavolo. L’Inferno al convento

Si narra che il nobile Don Carlo Vulcano Cavaliere di Sorrento, spinto dal volere paterno per apprendere l’arte della meditazione, entrò nel Convento dei Girolamini nel 1696 con l’intento di soggiornarvi e approfondire i suoi studi.
Era la sera del 4 maggio del 1696 quando fu svegliato di soprassalto nel cuore della notte da un terribile fracasso; apparvero nella sua cella, una moltitudine di ombre che lo spaventarono a morte. Fu tanta l’agitazione che fuggì invocando aiuto.
In suo soccorso arrivò il maestro dei novizi Niccolò Squillante che tentò di placare il suo terrore, convincendolo che si sarebbe trattato di un incubo e persuaso a tornarsene nella sua cella, invitato a riposare. Ma da quella sera, quelle visite sinistre continuarono per circa un mese a turbare l’anima del pover’uomo. Il convento ne risentiva: di giorno era un’oasi di pace ma di sera, al calar della notte, si tramutava in un vero inferno e si assistevano a lanci violenti di pietre, rotture inspiegabili di mobili, colpi e bussate alle porte, furti di oggetti, scritte latine che apparivano e scomparivano senza una reale spiegazione, voci sguaiate, strascichi di catene, gemiti e bruciature sugli abiti. Spesso venivano ritrovati monaci legati con il loro stesso saio, in preda a stati confusionali.


Dopo vari tentativi nel cercare spiegazioni e soluzioni plausibili, mentre accrescevano gli scongiuri e le preghiere per allontanare questa cattiva avversità, i monaci si convinsero che dietro quei terribili fatti, vi fosse in realtà la presenza del Diavolo, intenzionato a rubare l’anima di Carlo Vulcano (il suo obiettivo principale) inducendolo alla perdizione allontanandolo dalla via spirituale.
I monaci esausti di questi accadimenti che offendevano il luogo santo, chiamarono il padre priore che in via cautelare, decise di allontanare e mettere in salvo il giovane Carlodal convento, al fine di placare tutte queste manifestazione diaboliche. Il caso volle che appena il giovane varcò l’uscio, quella sera stessa, il fenomeno si arrestò.
Il 20 settembre Carlo Vulcano fu affidato alle cure del convento del S.S. Salvatore a Capri ma anche qui, il Diavolo cominciò a mostrare la sua ferocia nei suoi confronti e negli altri; si accanì sulle suore inducendole alle tentazioni, andavano a fuoco oggetti sacri e mobili, si persero le chiavi di tutte le porte e cominciò a sparire cibo e denari.
Anche qui la situazione era tragica: Carlo era sempre intenzionato a prendere i voti tentando di fronteggiare ad ogni costo Lucifero che lo istigava e lo percuoteva continuamente.
Il 30 marzo del 1697 nonostante la vita difficile che gli rese il demonio e le violente percosse che riceveva, Carlo divenne prete: dal quel giorno in cui prese i voti, si udì distintamente un grido agghiacciante; il Diavolo abbandonò il convento e rinunciò per sempre alla sua anima e al tentativo di corromperlo.
Una delle possibili spiegazioni a questa vicenda, secondo l’esperto scrittore Mario Buonoconto è da individuare nella curiosità del nobile Carlo. La Biblioteca dei Girolamini, era impiegata come Scriptoria (molto in uso nel Seicento) sicuramente custodiva fra i suoi volumi, libri segreti di magia, negromanzia e stregoneria(imancabili in ogni convento che si rispetti) consultabili per ragioni di studio e per eventuali esorcismi da applicare.
Si presuppone che Carlo, recatosi nel convento, non perché spinto dal desiderio di meditare o assecondare la sua vocazione spirituale ma piuttosto per consultare di segreto i volumi proibiti per ottenere in cambio qualcosa, pare che qui abbia invocato e scomodato il Diavolo e gli spiritelli dispettosi, leggendo a voce bassa, le formule un rituale potente senza avervi segnato dapprima un cerchio di protezione. Potrebbe questa essere la vera ragione?

Ancora oggi, la leggenda, suscita un certo fascino sinistro…


Palazzo Petrucci e i fantasmi delle teste decapitate dei traditori


Il Palazzo Petrucci è situato a Piazza San Domenico Maggiore, costruito nel ‘400 da Bertrando III Del Balzo marito di Beatrice D’Angiò, per poi essere successivamente acquistato alla sua morte da Antonello Petrucci, Conte di Policastro.



Antonello Petrucci nacque a Teano, grazie al suo ingegno ricoprì numerosi e importanti cariche grazie al Re Ferrante che riponeva molta fiducia in lui
La sete di potere di Antonello cresceva sempre di più, e sempre di più voleva entrare in quella cerchia di nobili e potenti che tanto stimava ed invidiava, ed è proprio per consolidare la sua posizione sociale decise di imparentarsi con un altra nobile famiglia, per assicurare al secondogenito la mano di Sveva Sanseverino iniziò a intraprendere stretti rapporti con i feudali riuniti in congiura ai danni del sovrano.
Re Ferrante scoprì il tradimento e fece arrestare Petrucci e i suoi complici e dopo averlo sottoposto a torture ottenne la confessione di tradimento. Il 15 maggio del 1487 lo giustiziò al Maschio Angioino. Ma sembra che il Petrucci non abbia mai abbandonato l’antico edificio, e che tra quelle antiche mura si riunisca ancora il fantasma del Petrucci e degli altri congiurati, di notte si udirebbero strane voci e strane ombre animano ancora quell’ antico palazzo dove si presume siano ancora sepolti le teste decapitate di quei sei uomini condannati per alto tradimento alla corona.








Fonti:
https://grandenapoli.it/il-diavolo-nel-convento-dei-girolamini-la-leggenda-di-una-terribile-persecuzione/

http://leggendedinapoli.altervista.org/mito-maria-la-sposa/?doing_wp_cron=1546886544.3327090740203857421875

 Marino Niola, “Il purgatorio a Napoli”, Meltemi Editore, Roma, 2003
Katia Alesiano, “Il culto degli anonimi. Intervista a Stefano De Matteis”
Ciro A. R. Abilitato, “Il cimitero delle Fontanelle”

https://grandenapoli.it/maria-davalos-una-storia-damore-e-morte-nel-cuore-di-napoli/

https://www.vesuviolive.it/vesuvio-e-dintorni/notizie-di-napoli/69310-donna-concetta-la-leggenda-della-capa-suda/

http://terredicampania.it/blog/leggende-popolari-e-luoghi-insoliti-il-volto-esoterico-di-napoli/29/01/2017/

https://www.ilmattino.it/napoli/cronaca/dracula_napoli-452285.html
ttps://grandenapoli.it/codice-dracula-la-sua-tomba-napoli/http://www.napolitoday.it/cronaca/palazzo-penne-leggenda-diavolo.html

Roberta D’orsi
https://www.10cose.it/napoli/chiesa-piazza-gesu-napoli

https://www.napoli-turistica.com/piazzetta-nilo-largo-corpo-di-napoli/

http://terredicampania.it/blog/leggende-popolari-e-luoghi-insoliti-il-volto-esoterico-di-napoli/29/01/2017/

https://mayaegitto.altervista.org/limmagine-della-morte-nellobelisco-dellimmacolata-di-napoli/

di Giorgio Pastore



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