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Re Artù:La verità oltre la leggenda

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sabato 27 ottobre 2018

I Celti: Le origini

I Celti


Le origini

L’origine del popolo dei Celti è indoeuropea. La parola celtico ha origine dal greco keltai che gli abitanti di Marsiglia, città fondata dai Focei, attribuirono ai membri di queste tribù belligeranti.
La loro prima area geografica di residenza è l’Europa centrale, in particolare tra la Boemia e la Baviera, dove ha avuto luogo la cosiddetta "Cultura diUnetice", particolarmente legata alla lavorazione dei minerali ed alla pastorizia. Da questa cultura hanno avuto origine anche gli italici, gli illiri ed i veneti.
Sicuramente la genesi dei Celti ha risentito di una interazione tra varie popolazioni. E’ dunque opportuno fare una premessa.
Intorno al 4000 a.C. esisteva una civiltà, denominata di Atlantide, che abitava nella zona del Baltico (che sarà nel medioevo luogo della Lega Anseatica), in particolare nello Jutland e nella bassa Scandinavia. Questa civiltà, racconta Erotodo, era particolarmente progredita. Abile nella costruzione dei templi e degli stadi, aveva una certa esperienza nella navigazione. 
Ciò è provato dalle costruzioni megalitiche dei menhir della Bretagna (Carnac), dell’Irlanda, del Galles e dell’Inghilterra (Stonehenge), dove nelle vicinanze è stato forse rinvenuto un probabile stadio per le corse equestri. Tali costruzioni di dolmen avevano come scopo la guida agli astri, in cui tali popolazioni credevano.
A seguito di siccità, terremoti e carestie, tale popolo è migrato verso l’Europa centrale, la Grecia (dove c’erano le culture achea e micenea, che furono distrutte), l’Anatolia (dove erano presenti gli Ittiti, la Palestina (in cui hanno avuto origine le civiltà fenicia e semita) e l’Egitto. Questa migrazione è nota come quella dei "popoli del mare". Solo in Egitto, Tolomeo riuscì a respingere la loro invasione. La coda della migrazione dei popoli del mare fu rappresentata dai Dori che si stanziarono in Grecia ed in Egeo.
Intanto, quasi contemporaneamente, secondo una teoria più accreditata tra il 3000 e il 2500 a.C. in Oriente c’erano tre popolazioni indoeuropee: i Kurgan (per le tombe a tumulo che usavano) della zona del Volga - alto Mar Caspio, i Transcaucasici del Caucaso, i Nordpontini della zona del Mar Nero. Queste popolazioni, in particolare la prima, influenzandosi e mescolandosi tra loro fino alla fine dell’età del rame, eseguirono delle migrazioni in: Anatolia (Ittiti), in Mesopotamia (Arii), Grecia (Macedoni e Micenei), Europa (Cultura di Unetice in Boemia, crocevia di popolazioni). 
La divisione cominciò con l’inizio dell’età del bronzo e si perfezionò con l’età del ferro (la Boemia era ricca di ferro) e si implementò con l’addomesticamento della razza equina (la parola cavallo ha la stessa radice in tutte le lingue indoeuropee) e del bestiame. Contemporaneamente nel nord europa, in particolare nella zona della Polonia, compare la civiltà dei Campi di Urne, di origine nordica, che prende il nome dal modo in cui seppellivano i loro morti.
La coda di questa migrazione orientale ebbe luogo con gli Sciti, nell’800 a.C., che si diffusero in Mesopotamia (originando prima la cultura caldea, di cui Abramo ne sarà un rappresentante, e poi quella assira che sarà dominante fino all’avvento dei Persiani), in Anatolia (ove erano presenti già i Frigi, i Lidi ed i Pontini), in Grecia, in Italia (dove dal 900 a.C. erano presenti gli Etruschi e ancora prima i Liguri e gli Italici ) ed in Europa centrale (dove era presente la migrazione dei popoli del nord).
In particolare, con riferimento a quest’ultima, intorno al 700 a.C., nella zona del Salzkammergut (Salisburgo e Carinzia), fino al 450 a.C. si diffuse la cultura di Hallstatt, abile nel commerciare sale (di cui la loro regione era ricca) con i popoli italici e nordici.

Si trattava dunque di una cultura di crocevia, basata prevalentemente su due classi sociali legate all’aristocrazia e alla pastorizia. La fine della cultura di Hallstatt segna l’inizio della cultura di La Tene (450 – 50 a.C.), situata sulle rive del lago di Neuchatel e caratterizzata dall’arte espressionista, dalle rappresentazioni del particolare e dei dettagli, dall’inizio di migrazioni di popoli, dalla valida rete di commercio di massa che furono in grado di impiantare, dalla conseguente nascita di una protoborghesia. Questo passaggio è stato motivato anche da una differente esigenza sociale: nuovi ceti aspirano al potere, per cui la vecchia aristocrazia hallstattiana viene soppiantata.
Dunque all’inizio del 600 a.C., come risultato di queste due ultime culture appena descritte, nella zona che comprende il basso Rodano e l’alto Danubio ha origine la popolazione celtica che, di cultura nomade, comincia a migrare verso l’Italia settentrionale, dove si stanzia attorno a Mediolanum ed entra in contatto con gli Etruschi, l’Europa centrale, facendo scomparire la cultura di Hallstatt, la Francia, da cui hanno origine i Galli, la Germania, dove si integrano con i Germani (Suebi, Marcomanni, Longobardi, Ermunduri, Quadi e Semnoni), popolo proveniente dall’area del Baltico, differente da quello dei Celti, la Gran Bretagna, dove ebbero uno sviluppo più arretrato, la Serbia, la Macedonia e l’Anatolia, dove compaiono i Galati (la parola celtico in greco si scrive gàlatos), che importarono culti religiosi orientali.

In particolare per la Gran Bretagna è opportuno precisare che intorno al 900 a.C. ed al 500 a.C. ci furono due ondate di migrazioni di popoli di origine indoeuropea che si sovrapposero alle popolazioni preesistenti derivate dagli "ex Atlantidi" giunte nel 3000 - 2000 a.C..
La prima fu legata a popoli di lingua gaelica, che partiti dalla Spagna settentrionale, approdarono in Irlanda, Scozia e Isola di Mann. Svilupparono una lingua denominata "celtico Q", poiché al posto della lettera k si utilizzava la lettera q. La seconda migrazione fu caratterizzata da popoli britannici, che partiti dal Belgio, in piena età lateniana, dunque nella massima fase dello sviluppo socio-economico, colonizzarono Inghilterra, Galles e Cornovaglia, sviluppando il "celtico P", poiché la k era sostituita da p. Ad esempio, la parola indoeuropea ekuos (cavallo), si scrive equos in gaelico ed epos in britannico. Dunque la mutazione consonantica q-p caratterizzò due tipologie di popolazioni, che si differenziavano anche per scelte architettoniche ed urbanistiche: le prime vivevano in fortificazioni, le seconde in villaggi.

E’ anche probabile che la migrazione dei secondi spinse i primi verso zone più lontane. Il termine gaelico deriva dalla parola gwyddel che significa "selvaggi" e fu attribuita, in una fase di migrazione, dai Gallesi agli avi degli Irlandesi che vi si insediarono.
I Celti hanno risentito molto della cultura scita, sia per l’uso delle tombe a tumulo, sia per l’allevamento del cavallo, ritenuto sacro, sia per il rito di tagliare e conservare la testa del nemico a protezione della propria capanna, sia per la suddivisione in classi sociali, ove l’aristocratico era chi possedeva più cavalli. Dunque i Celti hanno subito influenze orientali (Sciti, Kurgan, Greci, Etruschi) ed europee (culture di Hallstatt e di La Tene, popoli del nord), sviluppando a loro volta una propria cultura.

Società

Il tessuto sociale celtico si articolava su tre livelli: il druida, sommo sacerdote che presso i Galli aveva il nome di virgobrete (in realtà questo era più un magistrato), uomo di legge, di scienze esoteriche, indovino, conoscitore degli astri e della natura, medico, interprete dei sogni; il cavaliere, uomo di potere economico, politico e militare, la cui fonte di ricchezza era il bestiame (periodo hallstattiano) e l’industria ed il commercio (periodo lateniano); il popolo, composto da servitori. In realtà le decisioni più importanti spettavano al druida. Dunque chi aveva più cavalli (o in generale bestiame) oppure attività commerciali gestiva il potere economico ed era il re della tribù, cioè il capo dei cavalieri.

Questa suddivisione dimostra come l’evoluzione dei popoli celtici andò assieme all’evoluzione del cavallo, animale di grande importanza e di ausilio per loro. Tutto ciò ci mostra come in effetti i Celti derivarono dagli Sciti e dunque dalla cultura dei Kurgan, che avevano la stessa considerazione per il cavallo, mezzo di sopravvivenza sia in pace che in guerra. Tra l’altro, gli Sciti avevano sostanzialmente la stessa struttura sociale.
In particolare dopo il periodo lateniano, ogni comunità celtica si identificava in un gruppo economico: tutti vivevano per quella o quelle attività che gestiva un signore locale. Per questo motivo quando il cavaliere decideva di combattere, tutto il popolo si mobilitava, perché era in gioco la loro sopravvivenza; quando si decideva di migrare, tutti partivano.
Nel corso degli anni i div rsi gruppi economici si sono unificati, per esigenze commerciali e gestionali, dando vita così a tribù più estese e complesse. I clan scozzesi sono un’espressione di questi antichi raggruppamenti sociali. Anche le costruzioni dei villaggi venivano realizzate attorno a quella del cavaliere.
La contrapposizione maggiore tra la cultura greco-romana e quella celtica consisteva nel fatto che mentre la prima si proponeva di conquistare la natura e di dominarla, conoscendo le sue leggi, la seconda preferiva conviverci, sentirsi parte integrante, conoscere il proprio destino per abbandonarsi ad esso. Nell’arte, dunque, non si ricerca la perfezione e la bellezza, ma l’emozione e la libertà.
Nella società celtica il maschio era espressione di vigore e forza e viveva assieme ad altri maschi, fino a che non era tempo di avere figli, per cui si avvicinava alle donne, con cui avrebbe vissuto assieme, continuando comunque a frequentare comunità maschili. Le donne, a loro volta, vivevano in gruppi, separati dagli uomini dove allevavano i figli. Esse esprimevano il coraggio e la tenacia. Gli uomini avevano grande rispetto per loro e ad esse erano molto legate. La prova di ciò ci è data dalle regine della Britannia che hanno combattuto i Romani, come vedremo dopo. Addirittura si dice che in battaglia esse trasmettevano il coraggio ai guerrieri. Tale affermazione rientra in un discorso esoterico che riprenderemo nel prossimo paragrafo. Tuttavia, alcune di esse, di rango basso, potevano essere barattate con dei cavalli.
Al largo della Bretagna esisteva un’isola abitata solo da donne che vi vivevano in comunità ed assunse un ruolo di sacralità.
Gli uomini celtici amavano le feste, dove si raccoglievano assieme e raccontavano saghe e favole, i riti comunitari, dove, alle volte, compivano dei duelli mortali, prediligevano bere (vino, birra, whisky) e mangiare in particolare il maiale arrosto (il cavallo ed il toro erano impiegati per riti sacri). Secondo la tradizione, un buon celtico, oltre che un valente guerriero, doveva essere eloquente.
Il guerriero celtico in battaglia si dipingeva il volto di vari colori, urlava sia perchè voleva spaventare il nemico, sia per esprimere il proprio vigore fisico, di cui era fiero. Amava radersi (i Britanni portavano anche i baffi) e viveva a contatto con la natura.

Dunque, la struttura sociale dei Celti era molto semplice ed in essa nel corso degli anni e dello sviluppo economico si potè inserire anche la borghesia (età lateniana). La società celtica non ebbe modo di articolarsi, viste le contaminazioni romano - germaniche. Solo in Irlanda, dove potè svilupparsi in pieno, andò articolandosi su più livelli: re, druidi (filid), nobili inferiori, contadini (perché possessori di terra), bardi (ceto borghese, a cui era affidato il tramandare la tradizione), lavoratori ed artisti di intrattenimento. Questi ultimi due rappresentano classi sociali non libere. Più tardi, con l’avvento del cristianesimo, il druida diventa anacoreta ed assume un ruolo di consigliere nella chiesa celtica, che avrà dei contrasti con quella romana, sfociati in alcuni casi in eresia.

Sviluppo

I Celti erano composti da diverse tribù, ognuna delle quali si diffuse in uno specifico territorio. Si difesero dai Romani, dai Germani e dalle invasioni asiatiche. Nel corso delle loro migrazioni popolarono un vasto territorio. Videro lo sviluppo di diverse società (kurgan, halstattiana, lateniana) che corrispose anche ad uno sviluppo economico e sociale.
In base alla premessa fatta in precedenza, possiamo visualizzare la seguente situazione, legata sia al popolo celtico che alla regione di influenza relativa, frutto di continue migrazioni:
Serbia: Scordisci (325 a.C.);
Bulgaria: Bastarni (fondatori del regno di Tylis);
Ungheria, Romania, Boemia: Carnuti, Teutoni, Cimbri(forse di origine germana), Menapi, Treviri, Ubii;
Svizzera: Rezi, Rauraci, Carnuti, Elvezi;
Austria: Taurisci, Norici;
Italia Settentrionale: Boi, Senoni,Veneti, Gesati, Insubri, Taurisci;
Spagna e Portogallo: Celtiberi che si mescolarono con la popolazione locale degli Iberi e che ebbero un sviluppo diverso rispetto ai Galli, i Gallaecie gli Asturi (Galizia), i Cantabri (zona di Bilbao), i Tarragonesi, i Baeti (zona di Siviglia), i Vasconi (Pirenei, da cui è originato il termine guascone), gli Arevaci, i Vaccei, i Lusitani ed i Vettoni (nel Portogallo);
Anatolia: Galati (276 a.C.) abitanti della Galazia, arrivati dalle regioni del Danubio;
Macedonia: Tettosagi, Trocmeri, Tolistoagi, che entrano in contatto anche con Alessandro Magno;
Francia: Sequani, Edui, Alverni, Ambroni, Arverni, Parisii (che diedero i natali a Parigi), Aquitani, Vocati, Volci, Bellovaci, Venelli, Eburovaci, Suessioni, Tricassi, Mandubii, Carnuti, Veneti, Namneti, Pitti, Biturgi, Allobrogi, Gesati, Ceutroni, Eburoni;
Paesi Bassi e Belgio: Nervii, Menapi, Suessoni, Remi, Belgi (forse di origine germana);
Germania: Ambroni, Teutoni, Boi, Nemeti, Vangioni, Treviri, Advatici, Usipeti, Tenteri, Eburoni, Ubii, Sicambri (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di influenza celtica);
Irlanda: Ulsteriani (con capitale Emain Magach), abitanti del Mide (centro-est), del Connacht (ovest) e del Munster (sud-est), Scotti (che migrarono in Caledonia che prese il nome di Scozia);
Scozia: Pitti e Caledoni;
Galles: Ordovici, Siluri e Cornovii (che poi migreranno in Cornovaglia)
Inghilterra: Atrebati, Belgi, Catuvellani, Trinovanti, Dumnoni (in Cornovaglia), Coritani, Briganti, Suessoni, Carataci, Novanti, Segovii, Trinovanti, Iceni;
Danimarca: Arudi, Cimbri, Ambroni (si tratta in prevalenza di popolazioni germaniche, di influenza celtica).

Dunque i Celti, durante una loro migrazione, giunsero fino in Turchia. Nel 278 a.C. Brenno, omonimo del condottiero che un secolo prima sconfisse i Romani, invase la Pannonia e da lì, attraverso l’Illiria, giunse in Grecia, distruggendo Delfi, dove venne ferito. Tra il 278 a.C. ed il 270 a.C., trovando resistenza in Grecia, in particolare in Macedonia, una parte della popolazione celtica attraversò lo stretto dei Dardanelli e si stanziò a ridosso della Bitinia, approfittando anche dell’invito del re locale Nicomede, che, in cambio di territori, li assoldò come mercenari per conquistare l’Anatolia ed avere uno stato cuscinetto con i Frigi. La loro espansione ed i loro saccheggi furono interrotti dall’imperatore di Siria Antioco I, che li sottomise e li confinò in Galazia, regione nei pressi di Ankara. Successivamente, nel 230 a.C., il re di Pergamo Attalo I, sconfigge i Galati che si erano ribellati e fa erigere, come segno di trionfo, dei gruppi marmorei. Di questi oggi ci rimane una copia romana del "Galata Morente".
L’altra parte della popolazione, che costituiva il flusso migratorio, caratterizzata in particolare dalla presenza dei Bastarni, sconfitta in Macedonia dal re Filippo, padre di Alessandro Magno, si stanziò in Bulgaria, fondando il regno di Tylis.
E’ opportuno fare una considerazione sull’Irlanda. Fu l’unico paese celtico che non subì invasioni, per cui sviluppò la propria cultura completamente senza subire influenze esterne. Era divisa in cinque regioni: a nord l’Ulster, con capitale Emain Magach, a sud il Munster, con capitale Caisel, ad ovest il Connaught, con capitale Cruachain, ae est il Leinster, con capitale Dinn Rig ed al centro-est il Mide, con capitale Tara, luogo sacro vicino a Dublino. La prima e l’ultima regione furono le più progredite, con la prevalenza finale dell’ultima. Nel 450 d.C. l’Irlanda era divisa in due regni. Il regno del nord abitato dagli Uì Neìll e quello del sud, popolato dagli Eòganachta.
Dediti alla pastorizia, gli abitanti dell’Isola Verde, non erano molto progrediti scientificamente. Amavano la musica, le arti esoteriche, la natura e svilupparono l’alfabeto ogamico fatto di segni, con il quale composero fiabe, divinizzando eroi nazionali, tra cui Cù Chulainn.
Il mito, presso i Celti era importante e questo gli Irlandesi lo applicarono abbastanza. Favole quali la conquista di Etain, Tàin Bò Cùailnge (la cattura del toro di Cooley), the Book of Leinster, the book of Dun Cow, the yellow book of Lecan (le tre massime fonti mitologiche gaeliche), novità sul maiale di Mac Da Thò sono saghe che raccontano di eroi popolari, di dei, come Maeve, divinità della guerra che visse tre volte, ricalcando le religioni scite e le strutture celesti degli inferi, riprese da tutte le altre religioni. Si ripete il tema della reincarnazione e della resurrezione.
Gli Scotti migrarono in Galles, dove i loro discendenti furono chiamati "selvaggi" (gaelici) dalle tribù locali ed in Caledonia, a cui diedero il nome di Scozia, tra questi, sull’isola sacra di Iona approdò San Colombano (563 d.C.) che evangelizzò la regione assieme a dodici discepoli.

Dunque la cultura celtica si interseca con il cristianesimo.
Sia l’Irlanda che la Gallia furono sede di molti conventi, che in realtà erano comuni. La seconda, poi, fu patria di San Martino, vescovo di Tours, nonché della setta eretica pelagiana, che contrapponeva alla grazia divina, professata da S. Agostino, solo la capacità umana.
L’Irlanda era la patria della chiesa celtica, che già esisteva prima dell’evangelizzazione della chiesa romana operata da San Patrizio e da Palladio. Questa fu importata dall’Aquitania che aveva frequenti commerci con l’isola verde, ricca di stagno. 
Nella chiesa celtica non c’era una struttura ed un’organizzazione, esistevano solo abati, la pastorale era semplice, i frati vivevano in luoghi appartati (isole, eremi…), lontano dai conventi, il simbolo più usato era la croce celtica, segno di rigenerazione, contenente al centro la ruota solare. (La prima Croce Celtica, risale al 10.000 a.C., è stata ritrovata in una grotta dei Pirenei francesi).
Imitando i druidi gli abati al posto della chierica usavano una rasatura da orecchio a orecchio, lasciando i capelli sulla nuca lunghi.

La chiesa celtica adattò il modello cristiano all’amore per la natura, per la fantasia, per i luoghi fiabeschi. E’ evidente che, nonostante le dominazioni e le influenze, la filosofia dei Celti rimase incontaminata. In Irlanda, come in Scozia, non si annoverano martiri, segno che il modello cristiano fu accolto pacificamente. Tuttavia ci sono molti santi, nominati anche con la segnalazione degli anacoreti, uomini, che si distinguevano per la semplicità, il vigore, la mitezza.
Ci furono notevoli dissidi tra chiesa celtica e chiesa romana: alle volte si rasentava la scomunica, come quando Fergal, vescovo di Salisburgo, credeva che sottoterra esistesse un mondo parallelo, in base al modello celtico.

Lo scontro decisivo tra le due chiese fu nel 663 d.C. nel concilio di Whiotby. In questa sede il dissidio principale, preso a pretesto dalla chiesa romana, consisteva nella festa della Pasqua, che gli abati celtici festeggiavano tre giorni dopo le Palme, secondo la tradizione di Giovanni Evangelista. La chiesa di Pietro e Paolo uscì vincitrice.
Tuttavia gli abati celtici continuano la loro evangelizzazione in Europa: Sangallo (Svizzera), Bobbio (Pavia), Francia, Salisburgo, Scozia, Inghilterra, Germania.
Nel 410 d.C. i Sassoni, gli Angli e gli Juti, popoli germanici, occupano l’Inghilterra. I Britanni si ritirano in Cornovaglia, Galles (dove c’è il vallo di Olla), Bretagna e Scozia. Nel 440 Ambrogio Aureliano prende il potere e sconfigge i germani.

Nel 491 compare il mito di Artù che, attraverso dodici battaglie, scaccia gli invasori. Dopo il 500 l’Inghilterra è di nuovo in mano ai germanici, che abbracciano la chiesa romana. L’Irlanda vivrà le invasioni vichinghe (793 d.C.) e comincia un periodo di migrazioni degli irlandesi verso l’Europa. Successivamente sarà la volta delle invasioni normanne, che importeranno l’amore per l’agricoltura e la pastorizia.

Nel 1066 il duca Guglielmo di Normandia riprende l’Inghilterra e restaura la chiesa celtica, rinasce il mito del Graal e di Artù, che viene abbracciato anche dalla Francia, per puri scopi politici, in opposizione al domino della chiesa romana. Nel 1180 Chretien de Troyes scrive il Perceval, nel 1210 Wolfram von Eschenbach compone il Parsival.
Il re Artù non sappiamo se sia esistito veramente. Sappiamo che richiama il dio celtico Artaios. Questo re si avvaleva del druida Merlino, il cui padre, secondo la tradizione, era Ambrogio Aureliano, a sua volta fratello di Uther. Da quest’ultimo nasce Artù che estrae la spada dalla roccia (caliburnus) e diventa signore di Camelot. Sposa Ginevra e fonda una tavola rotonda di 150 cavalieri. Con essi battè i Sassoni, i Pitti e gli Scotti. Suoi compagni sono: 
Tristano, che innamorato di Isotta, andò in Francia dove morì; 
Lancillotto, che circuì Ginevra; 
Galvano, che si avventura sulle Orcadi, combattendo contro il cavaliere verde; 
Galahad, figlio di Lancillotto, e Percivale che vanno alla ricerca del Graal. 
Artù, alla fine, accompagnato da alcune donne, si ritira su un’isola, da cui farà ritorno successivamente.

Dunque, ci sono tutti gli elementi delle saghe celtiche: il re e il druida, che lo consiglia e guida; le riunioni assieme, rievocate dalla tavola rotonda; le sofferenze per l’amore, vissute da Tristano e Lancillotto; la lotta contro il nemico di Galvano, come Cù Chulainn, contro il drago; la rigenerazione, come quella di Artù, che fa ritorno da un’isola misteriosa, cioè muore e si rigenera.
Siamo di fronte ad un eroe mitizzato, come è nella cultura celtica. Il Graal, poi, rappresenta le nature di Cristo: umana nel sangue e divina nell’acqua. Entrambe sono unite assieme dallo spirito. Questi sono i tre elementi raccontati da Giovanni, che era il più seguito dalla chiesa celtica. Chi possedeva il Graal, possedeva questi tre elementi. Di nuovo la fantasia serve ai Celti per superare le avversità della vita, che in questo caso erano rappresentate dai Germani.
Tuttavia, come già detto, questa figura mitica fu strumentalizzata dai popoli invasori che volevano contrapporsi alla chiesa di Roma.


Attività
Le fonti storiche che raccontano dei Celti sono svariate: Erodoto, Cesare, Livio, Polibio (il più accurato), Posidonio, Diodoro Siculo, Dionigi di Alicarnasso, Strabone, Dione Cassio, Tacito.
I Celti erano una popolazione prettamente nomade. Furono i primi ad introdurre l’uso dei mantelli colorati e dei pantaloni (brache) entrambi ereditati dagli Sciti. Molto bravi dunque nell’arte della tessitura e della tintura.
Abilissimi, poi, nella lavorazione dei minerali, in particolare del ferro, introdussero l’ottone e per molto tempo lavorarono la smithsonite, un particolare minerale, sostitutivo dello zinco. Conoscevano molto bene le varie tecniche di fusione. Erano anche capaci nella cottura del vetro (bianco e colorato), nell’uso dello smalto e nella lavorazione dell’ambra. Tali pratiche furono perfezionate nel corso del passaggio dalla cultura hallstattiana a quella lateniana.
Era dedito all’allevamento del bestiame (la parola pecus la ritroviamo anche tra i Galati), in particolare mucche e pecore; da queste ultime si traeva la lana. Popolo guerriero, utilizzavano splenditi elmi piumati ed alcune volte corazze (anche se combattevano quasi sempre nudi), tipo quelle medioevali. La spada celtica era corta e veniva impiegata come arma da taglio. Più tardi ne furono forgiate di più lunghe, tutte intarsiate e adornate di pietre, ma si parla di dopo il 500 d.C..

Amavano radersi il volto e pettinare i biondi capelli all’insù, indurendoli con del gesso. In battaglia si coloravano il viso e, dopo aver danzato, si lanciavano nudi addosso al nemico urlando: prediligevano il corpo a corpo ed il primo assalto. Per questo con le spade colpivano, menando dei fendenti, che non si rivelavano mai colpi mortali. Polibio racconta che le loro piccole spade si piegavano dopo i primi colpi. Fu questo uno dei motivi che li fece perdere contro i Romani, che invece usavano la spada e le lance, colpendo con dei colpi mortali, evitando il corpo a corpo. 
Solo successivamente gli Etruschi ridestarono l’uso del carro da guerra che avevano prima appreso sia dagli Sciti che dai popoli del nord (ex Atlantidi) e poi dimenticato. Gli scudi, poi, ben rifiniti ed incisi, erano piccoli rispetto al corpo, sempre perché i Celti confidavano nell’impeto dell’assalto. I Romani avevano scudi lunghi; fu anche questo un motivo della disfatta celtica. Tra l’altro i loro eserciti non erano ben organizzati e le loro tattiche di guerra si basavano prevalentemente sul furore bellico.
Dunque i Celti, per via del loro furore e della scarsa tattica, erano destinati a perdere le battaglie contro un esercito organizzato. Questa particolarità costituì un serio pericolo per Annibale, nella sua calata in Italia, poiché, in battaglia, la parte celtica del proprio fronte di attacco era la prima a cedere. Il generale punico seppe utilizzare questo potenziale difetto a proprio vantaggio, inserendo i Celti al centro del proprio schieramento, dando origine alla sua famosa tattica a tenaglia, nella quale il centro cedeva e risucchiava il nemico che veniva finito dalle ali, ove era presente la cavalleria.
L’unico re celtico che capì che, in battaglia, bisognava usare una strategia oltre al furore fu il gallo Vercingetorige, che, impiegando la tattica della "terra bruciata", minava a colpire gli approvvigionamenti dei Romani, ottenendo qualche successo. In particolare, aveva capito che se avesse accettato lo scontro diretto con i Romani avrebbe perso.
Dal punto di vista dell’edilizia, i Celti abitavano prevalentemente in capanne di legno, circolari o rettangolari, ed in villaggi.
Cesare chiama Vici i villaggi non fortificati e oppidum le costruzioni - roccaforti, di cui le terre celtiche sono piene. I Celti, invece, indicavano con il termine dunum la fortezza e con nemeton un luogo sacro. Soprattutto in Gallia, le loro città avevano mura di cinta spesse.
Con l’influenza degli Etruschi e dei Greci, che avevano fondato Marsiglia ed influenzavano il commercio di quelle regioni, costruirono case di pietra con piccoli vani. Amavano vivere all’aperto, sotto le querce, ritenute sacre, secondo la cultura del drynemeton (luogo delle querce), ove si tenevano riti sacri e processi.
Un esempio è la città di Manchung nelle paludi del Danubio, crocevia tra Ungheria e Baviera, distrutta nel 15 d.C. in modo misterioso e violento. Città grandissima (7 km mura di cinta), conteneva tante fabbriche, vicine tra loro, basate sul prototipo della catena di montaggio, introdotto dai Greci. Si trattava di una città tipica dell’espressione lateniana, dove c’erano schiavi e signori, dove il commercio aveva il suo valore (specie quello di massa), dove il denaro aveva la sua importanza.

Come sepolture dapprima utilizzarono le tombe a tumulo, tipiche della cultura indoeuropea ereditata dai Kurgan (si ritrova tra gli italici, i sanniti, gli illiri….), poi predilessero l’inumazione.
Commerciavano e lavoravano il sale, in celtico hal: molte città della zona del sale hanno come suffisso iniziale questo termine. Prediligevano l’uso delle botti a quello delle anfore. Inoltre lavoravano l’ambra, con la quali arricchivano le loro collane.

Amanti del vino, producevano anche la birra. Inventarono il servizio turistico della pensione completa, che si teneva nelle stazioni di cambio.
In generale, erano dediti alla manifattura (questo fu trasmesso loro dagli Etruschi) ed al commercio, anche per questo si frazionarono molto (di cui Roma approfittò): si può dire che ciascuna unità economica era una tribù (questo fu un difetto della cultura lateniana). Quindi davano una grande importanza al denaro.
I Celti che vivevano in zone marittime svilupparono un’abile capacità di navigazione. Possedevano navi più robuste di quelle romane: erano fatte di quercia, con vele di pelle. Le caravelle della Lega Anseatica del 1300 erano fatte su questa stessa base, mentre le navi vichinghe erano più sul modello leggero. I Bretoni ed i Britanni in particolare esercitarono un’attività piratesca.
Il popolo celtico amava molto la musica (in particolare l’arpa) che veniva impiegata per celebrare riti sacri e di preparazione bellica, per raccontare le gesta di eroi e per impiegare la propria fantasia, luogo di rifugio dalle storture della vita. Infatti era molto diffusa la divinizzazione di eroi espressa attraverso le saghe.
Per i Celti la fama era tutto, soprattutto nella misura in cui gli altri li ricordavano.
A tale proposito espressero una tradizione soprattutto orale. Un esempio relativo a questo argomento è dato dai Celti d’Irlanda, che, per mezzo del loro isolamento storico, rappresentano una razza celtica incontaminata. Essi usavano molto le saghe ed i miti.
Erano anche conoscitori della magia e delle scienze esoteriche.

Religione
Secondo la tradizione Eracle, divinità - eroe ellenico, giunto in Gallia, fondò Alesia e si invaghì di una principessa locale. Questa colpita dal suo vigore e dalla sua possenza fisica, si unì all’eroe orientale. Frutto dell’unione fu il giovane Galates, che salito al trono, diede il suo nome al popolo: galati o galli. Questa tesi propagandistica dimostra il legame tra Occidente ed Oriente
La religione celtica ha molte affinità con le religioni delle culture indoeuropee, in particolare con quella scita. Essa si basa su concetti molto semplici: la reincarnazione della vita, la rigenerazione, la resurrezione, l’amore per la natura, la sacralità di alcune piante (la quercia in Gallia e Galizia, il tasso in Britannia, il torbo in Irlanda). Gli alberi erano il tramite con il firmamento e separavano l’uomo dagli dei celesti. Attorno ad ogni villaggio c’erano dei boschi sacri (drynemeton) dove si eseguivano riti e dove veniva giudicata la gente dai druidi.

Si usavano spesso anche i dolmen ed i menir megalitici, già realizzati dalle precedenti civiltà, per rappresentare una continuità tra l’uomo ed il firmamento.
La morte rappresentava per i Celti una breve pausa per una vita eterna: esisteva infatti la reincarnazione (in cui si crede anche in India), per questo si amava la natura, perché si poteva rinascere in altre forme di vita. Il concetto di rigenerazione era fondamentale ed a simboleggiarlo c’era la croce celtica. Il tema della resurrezione è importante, perché indica una continuità della vita ai danni della limitatezza della morte.

Dunque il celtico non si preoccupava se in battaglia moriva, anzi questo gli dava più onore, tanto poi risorgeva. Andavano nudi in battaglia perché, in preda al loro furore bellico, comunicavano con gli dei direttamente e quindi emettevano calore. Non è escluso che i druidi conoscessero delle tecniche yoga, atte a creare uno stato di trance nei guerrieri nella fase pre-bellica. Essi infatti eseguivano dei passi di danza prima di combattere, proprio per entrare in contatto con le divinità.

I Celti, specialmente quelli d’Irlanda, credevano che alcune divinità vivessero sottoterra. Con loro si entrava in contatto attraverso pozzi e stagni. Attorno ad ogni villaggio c’erano zone ritenute sacre anche per questo. In Vandea sono stati trovati pozzi contenenti alberi e resti umani e animali: agli dei si sacrificava tutto, sia il simbolo della fertilità che la vita stessa. Esistevano cerimonie celtiche, presiedute da druidi, in cui, con un sottofondo musicale, si portavano in processione alberi che, alla fine, venivano sepolti in pozzi.

I Celti non credevano nel peccato, quindi la loro morale era molto semplice.
Collezionavano le teste dei nemici (in Irlanda il cervello) sopra le porte delle loro capanne o su pali conficcati nel terreno, sia perché questo accresceva la loro fama, sia perché quando il nemico fosse rinato lo avrebbe fatto senza testa, quindi più debole.

I Galati trasmisero ai loro cugini europei il mito scita del piccolo dio Attis e della sua madre Cibele, dispensatrice di coraggio e gran madre di tutti, che poi, se vogliamo, è lo stesso mito fenicio del dio Baal e della dea Baalat.
Dunque la donna rappresentava il coraggio, che specialmente in battaglia era molto utile, e la fertilità che si ricollega alla rigenerazione della vita: esisteva una forte venerazione per la madre. Non è escluso che esistessero druidesse, come le abitanti dell’isola bretone o la sacerdotessa di Vix della Baviera.
Il ruolo del druida è molto simile a quello del bramino indiano la società celtica e quella indiana sono simili: il re - cavaliere assomiglia al rajas indiano). A tale proposito si sottolinea che alcune parole del gaelico sono molto simili al loro omologo indiano.

I druidi erano il centro della religione celtica. Ebbero anche una valenza politica. In Gallia, in particolare, sotto la dominazione romana, difesero i costumi celtici e portarono avanti un sentimento rivoluzionario antiromano che sfociò secoli dopo durante la fine dell’Impero Romano. Essi non pagavano tasse, non espletavano il servizio militare, non erano legati al loro territorio come il resto della popolazione. Erano, in pratica, i veri capi della tribù. Avevano un falcetto in mano che li rappresentava, anche perché erano conoscitori di erbe mediche, che venivano raccolte con una certa ritualità. Alcune, perché velenose, erano raccolte con la mano sinistra (era quella che valeva di meno), altre con la destra. Essi seppellivano i morti in tumuli, secondo la tradizione dei kurgan.

I druidi si riunivano in assemblee e c’era il majestix (il grande re) che affidava i vari compiti a loro. Si diventava druida solo dopo aver superato una prova che consisteva nel ritirarsi nel bosco sacro e giungere all’aldilà (attraverso prove di allucinazioni ed ipnosi): solo chi vi era stato ed aveva fatto ritorno tra i mortali poteva guidare un popolo.
I Celti avevano 374 divinità. In realtà molte erano copie di altre, per cui se ne contano circa 60. Tra questi si ricorda: Teutate, dio barbuto, presente nei riti sacrificali, Beleno omonimo di Apollo, Arduinna da cui presero il nome le Ardenne, Belisama omonima di Minerva, Nemetona dea della guerra. Il più importante di tutti era Lug, che diede il nome a Lione e Leida. Simboleggiava un grande druida e sapeva suonare l’arpa, lavorare il ferro, combattere da valoroso, fare magie. Questi fu il progenitore del germano Wotan, che era chiamato anche Odino ed era il signore del Walhalla.
Wotan era il grande druida ed era il signore del calore magico che infiamma il guerriero. Dunque tra Germani e Celti c’è questa trinità divina in comune: Wotan-Odino, Donar-Thor, Ziu-Tyr, presso i primi; Teutate, Eso e Tarani presso i secondi. Teutate era il più potente e si placava con sacrifici di sangue. Eso era identificato con il toro, anche egli assetato di sangue. Tarani era il dio della guerra e preferiva il rogo. Successivamente, Lug prese il potere su tutti. La volta celeste era la proiezione della vita terrena, per questo si ipotizzavano lotte e nascite di dei. Alla fine uno prevalse e fu il successo dei druidi. Il concetto di trinità è molto ricorrente nelle religioni dei popoli di origine orientale.

Roma

Nel 322 a.C. i Senoni ed i Boi avevano colonizzato la Gallia Cisalpina ed erano scesi sino alle Marche, annientando gli Etruschi, che avevano fondato la Lega delle Dodici Città, e le popolazioni italiche.
Il primo contatto di Roma con i Celti fu nel 387 a.C., quando Brenno, capo dei Senoni, presso il fiume Allia ottenne una grande vittoria e marciò su Roma, saccheggiandola ed incendiandola.
I Romani si rifugiarono sulla rocca del Campidoglio dove furono presi d’assedio, senza capitolare. Qui si assistette all’episodio di Brenno che, per andare via, pretese dell’oro (probabilmente quello del sacco di Veio), pronunciando la famosa frase: "guai ai vinti". In realtà sembra più probabile che tra i Senoni ed i Romani fu siglato un accordo di pace e che la propaganda romana abbia enfatizzato questo episodio al fine di esaltare la gloria capitolina. Successivamente la città fu ricostruita sotto la guida di Furio Camillo, che riuscì a convincere la popolazione a non trasferirsi a Veio, città etrusca appena conquistata, ancora intatta. Dopo questo avvenimento i Romani svilupparono un certo terrore verso i Celti.

L’episodio appena descritto nacque a seguito di un’invasione celtica presso l’Etruria (avevano già conquistato il nord Italia che precedentemente era stato sotto l’influenza etrusca), avvenuta esattamente a Chiusi, centro di produzione vinicola di cui i Celti erano particolarmente ghiotti.
L’aneddoto legato a questo episodio narra di un certo Aruns di Chiusi, la cui moglie era stata tradita da un lucumone locale, che chiamò i Celti in suo aiuto. Quando videro l’orda gallica alle porte i chiusini chiamarono i Romani, che bramosi di conquista nei confronti etruschi, ma diffidenti verso gli invasori, si limitarono ad inviare tre ambasciatori a trattare la pace. Tuttavia questi offesero i Celti e combatterono al fianco degli Etruschi contro di loro, perdendo. In seguito a questo episodio, Brenno, dopo aver distrutto la tirrenica Melpun, marciò verso Roma come rappresaglia. Naturalmente c’è una ragione più pratica dietro questa guerra: i Celti avevano bisogno di terre e di ricchezze ed effettuavano continuamente delle migrazioni.

I Celti ricompaiano contro i Romani nella battaglia di Sentinum del 295 a.C., nel corso della terza guerra sannitica, accanto ai Sanniti, Umbri, Etruschi , Lucani e Sabini dove subiscono una sconfitta.
I Romani erano risoluti nell’allontanare il pericolo celtico dall’Italia e nel 285 a.C. perpetuarono un genocidio (uno dei primi nella storia) nei confronti dei Senoni, erigendo sul luogo Sina Gallica (Senigallia) e più a nord Rimini. Inizia, così, la conquista dell’ager gallicus, cioè le alte Marche. Di conseguenza i Galli della regione minacciata (Boi, Senoni, Taurisci, Insubri) si alleano con gli Etruschi e marciano su Roma. Nel 283 a.C., presso il lago Vadimone, i Romani li massacrano, tingendo di rosso le acque del Tevere. Si racconta in proposito che i cittadini dell’Urbe appresero dalla notizia vittoriosa vedendo il colore delle acque, ancora prima che facessero ritorno i soldati.

Successivamente i mercenari celtici si alleano ad Asdrubale in Spagna. Questi però firma il trattato dell’Ebro (226 a.C.), con il quale Cartaginesi e Romani si spartiscono la Spagna e riconoscono i Celti come comuni nemici. Questo trattato fu la fine per i punici che non capirono che solo alleandosi con le tribù locali potevano battere Roma.

Nel 225 a.C. i Celti (50.000 fanti e 25.000 cavalieri, come racconta Polibio), aiutati dagli Etruschi, sono sconfitti a Talamone dai Romani. Nella circostanza vengono sottomessi anche i Liguri, popolazione italica, abile nella pesca e nella navigazione marittima, che aveva frequenti commerci con i Celti ed i greci di Marsiglia. Dopo questo episodio, Roma si rende conto che le tribù celtiche si possono sconfiggere con un esercito addestrato e organizzato.

Nel 222 a.C., dopo la vittoria di Clastidium, la Valle Padana viene conquistata agli Insubri (Milano, loro capitale, distrutta) e alcune roccaforti celtiche, già città etrusche, vengono prese: Piacenza, città dei Boi; Cremona, città degli Insubri; Aquileia. Tra il 189 a.C. ed il 183 a.C. sarà la volta delle città dei Boi di Parma, Modena e Bologna.
I Celti appoggiano Annibale che cala in Italia, uscendone di nuovo sconfitti. In particolare il loro impeto bellico si rivelava dannoso per le battaglie del generale cartaginese, come successe nella battaglia sul fiume Trebbia. In Gallia Cisalpina continua la guerriglia celtica fino al 175 a.C., data in cui l’Italia settentrionale è romana.

Tra il 123 a.C. ed il 121 a.C. i consoli Caio Sestio Calvino, Domizio Adenobardo e Quinto Fabio Massimo conquistano la Gallia Narbonese.
Nel 113 a.C. i Celti si ripresentano ai Romani al di là delle Alpi (parola di origine celtica) a Noreia, l’odierna Klagenfurt, dove Norici e Taurisci, in una fase di migrazione verso il nordeuropa sconfiggono le truppe di Papinio Cambone.
Nel 109 a.C., presso Arausio (odierna Orange), sempre in una fase di migrazione, i Cimbri e i Cimmerri, popolo celtoscita, apportano una nuova sconfitta ai soldati romani. Dunque, i Celti diventano di nuovo uno spettro per la città capitolina. Si può osservare che in questo periodo si assiste a diverse fasi di migrazioni celtiche, con influenze sia germaniche che orientali, nessuna però valica le Alpi. Nel 107 a.C. gli Elvezi ed alcune tribù germaniche sconfiggono presso Agen truppe romane al comando di Longino.

Per allontanare definitivamente la paura celtica i Romani devono attendere l’avvento di Mario, terzo eroe di Roma dopo Furio Camillo e Romolo. Questi identifica subito il punto debole dei Celti nel furore del primo assalto ed addestra con una rigida disciplina le truppe romane, facendole diventare una perfetta macchina da guerra. Così nel 102 e 101 a.C. prima ad Aquae Sextiae (odierna Aix en Provence) e poi a Vercelli furono massacrati migliaia di Cimbri e Teutoni. In entrambe le circostanze, durante le battaglie, Mario fece attendere le sue truppe in zone fortificate, in modo che i soldati si abituassero alle urla ed all’aspetto terrorizzante dei Celti. Una volta diminuito il furore bellico, i soldati romani assalirono i nemici, ormai esausti e indeboliti. Il pericolo celtico era cessato e Roma poteva dedicarsi ad una espansione in Europa.

La politica di conquista estera dei Romani si basava sul concetto di eliminare eventuali pericoli che li potessero minacciare. Per questo motivo presero la Gallia Cisalpina che era abitata da popolazioni celtiche che potavano minacciarli, poi la penisola iberica, che aveva delle fortificazioni cartaginesi e, successivamente, la Gallia Narbonese come territorio di collegamento tra i due conquistati.
Gallia e Germania

Cesare racconta della Gallia nel suo "De Bello Gallico" ed in modo grossolano la presenta come una terra divisa tra tre popoli: gli Aquitani a sud-ovest, i Belgi a nord-est ed i Galli nel resto. A queste tre parti viene aggiunta quella dei Germani per puri scopi propagandistici, al fine di isolare le varie tribù tra loro, richiamando l’antica rivalità che c’era tra i Celti ed i Germani.
Secondo Plutarco, Cesare, in dieci anni di campagne militari, distrusse 800 città e villaggi, uccise e rese schiavi 3.000.000 di persone.

La guerra di conquista gallica dei Romani, basata sulla politica del "dividi et impera", iniziò nel 58 a.C. quando gli Elvezi (nel numero di 360.000), spaventati dall’invasione dei Suebi dalla Germania, migrarono dalla Svizzera, distruggendo tutti i loro villaggi per non lasciarli al nemico.

A tale proposito, ricordiamo che numerosi ritrovamenti archeologici testimoniano che nel basso palatinato esisteva una linea difensiva eretta dai Celti nei confronti dei Germani. Nel caso dei Suebi, si dimostrò che questi ultimi avevano sfondato la linea difensiva. Inoltre, nel 60 a.C. Daci e Traci, popoli della Pannonia, distrussero Bratislava, capitale dei Boi e costrinsero alla migrazione la popolazione celtica locale. Questo dimostra che i Celti si sentivano continuamente minacciati dai Romani, dai Germani e dalle popolazioni dell’europa orientale. A tale proposito ricordiamo che nel 16 a.C. i Marcomanni invasero il territorio dei Boi.

Cesare prese a pretesto l’episodio dei Suebi per far sentire minacciata la Gallia Narbonese ed in particolare gli Edui con cui aveva stretto alleanza. Inseguì ed affrontò gli Elvezi nella Gallia non romana a Bibratte e Lugdunum, sconfiggendoli e ricacciandoli indietro, uccidendone circa 250.000.

E’ opportuno precisare che il senato romano non era favorevole a questa guerra, perché si trattava di questioni tra "selvaggi", ma Cesare era interessato perché aveva bisogno di denaro: la sua corsa alla dittatura rischiava di farlo indebitare con Crasso. Cesare aveva anche fatto una politica denigratoria dei Germani nei confronti dei Galli, sottolineando le differenze tra i due popoli (in realtà erano minori), finchè sempre nel 58 a.C. a Mulhausen sconfisse i Suebi di Ariovisto, lasciando truppe romane in territorio germanico. Per tutto ciò Cesare ottenne a Roma un giorno di fasti.

Nel 57 a.C., con una politica di propaganda, Cesare sconfigge una ad una tutte le tribù dei Belgi che era riuscito a dividere (Suessoni, Bellovaci, Ambiani, Aduatuci, Nervii), facendole di nuovo apparire come un pericolo per gli Edui.
Successivamente furono occupate Normandia e Bretagna, anche se i Gesati si difesero bene. Scoppiarono varie rivolte e Cesare fu costretto a correre per tutta la Gallia. Annientò gli Aquitani, sconfisse i Veneti in Bretagna con una flotta leggera allestita per contrastare l’impeto dell’Atlantico. Sconfisse ed inseguì oltre il Reno Tenteri e Usipeti, allestendo con i suoi genieri un ponte di legno lasciato intatto a metà come monito di un eventuale ritorno. In tutte queste rappresaglie, come esempio, distruggeva villaggi e compiva stragi.

Al ritorno dalla seconda spedizione in Britannia, Cesare affronta e sconfigge prima Induziomaro capo dei Treviri, che aveva assediato un campo romano, e poi Ambiorige capo degli Eburoni, che, sotto il segno di una Gallia comune, aveva sopraffatto con l’inganno i luogotenenti Sabino e Cotta. La strategia cesariana di re contro re stava tramontando. Entrambi i capi furono uccisi nel 53 a.C. dai Romani, ma i due avevano innescato una guerra civile: erano i rappresentanti di nuove classi sociali, composte da una discreta popolazione, che volevano soppiantare le vecchie filoromane, esigue come popolazione. Si trattava di gruppi non organizzati militarmente che volevano affrontare la potente macchina bellica eretta da Cesare.

Nel 52 a.C. fu la volta di Vercingetorige, capo degli Alverni.
E’ opportuno precisare che molti nomi di re celtici, non sono reali. Essi richiamano il nome del popolo da cui provengono questi personaggi e fanno direttamente riferimento al concetto di vigore e di forza tipico della filosofia di vita celtica. Vercingetorige ne è un esempio tipico: ver: super, cinget: guerriero, rix: re.
Fu il fautore della "terra bruciata" e distrusse villaggi gallici, facendo trasferire popolazioni e beni. Questa politica si fermò ad Avaricum, città dei Biturigi che per la sua bellezza non fu distrutta, che fu assediata da Cesare, il quale, tra la fame e gli stenti dei suoi soldati frutto della politica del re alverno, in 25 giorni eresse un rampa fino alle mura di cinta della città. Vercingetorige non attaccò e si ritirò nelle vicine paludi. I Romani massacrarono la popolazione. Il capo alverno aveva dimostrato che era inutile affrontare i romani direttamente e difendere le città da assedi. In questo modo ebbe credito presso i popoli gallici.
Successivamente fu la volta di Gergovia, capitale degli Alverni, dove i Romani subirono la prima sconfitta. Si trattava di una città circondata da montagne, ben fortificata, dove Cesare attuò un’azione da commando che andò a vuoto, per l’intervento delle milizie di Vercingetorige : morirono 700 soldati e 46 centurioni.

Cesare meditava il ritiro dalla Gallia Narbonese, ma gli Allobrogi bloccavano i passi alpini. I Romani sconfissero i Galli che anziché usare una tattica prudente, si richiamarono al loro furore bellico, e decisero di puntare verso Alesia, città sacra dei Mandubi ove risiedeva il capo alverno. Qui Cesare fece costruire delle doppie mura di assedio alte tre metri tutte attorno, con trappole e fossati di acqua di sette metri. La cavalleria di Vercingetorige andò a chiamare aiuto, lasciando 80.000 Galli nella città, e si presentarono attorno ai Romani 240.000 fanti e 8.000 cavalieri. La popolazione alesiana non adatta alla guerra (vecchi, bambini, donne) che costituiva bocche da sfamare fu risparmiata al cannibalismo e mandata verso i Romani che li lasciarono nella terra di nessuno a morire di fame. Cominciarono gli attacchi gallici sia dall’esterno che all’interno che i Romani respinsero bene.

Alla fine, stremati dalla fame gli alesiani consegnarono Vercingetorige ai Romani che lo condussero a Roma ove, nel corso dei fasti fu ucciso nel 46 a.C.. Due anni dopo morirà anche Cesare. Piccole rivolte successive furono sedate: la Gallia era sottomessa. Il risultato di tutto ciò fu la comparsa della città di Hradiste in Boemia, abitata dagli ex abitanti Gergovia, Alesia, Bibratte e la migrazione di popoli celtici verso quelli germanici. Inoltre i Romani proibirono il culto della religione celtica. La cosa fu nuova perché generalmente ai vinti era lasciata la professione della propria religione. Anche questo faceva parte di una strategia tendente a distruggere la cultura celtica che si era opposta strenuamente a quella romana (come fu per l’etrusca, la sannita, la cartaginese). Tuttavia Caracalla, Diocleziano e Massimino si inginocchiarono davanti a divinità celtiche e lo stesso Costantino ebbe la sua famosa visione in un tempio celtico.

Augusto, il successore di Cesare, consolidò l’opera di conquista della Gallia. Per diverso tempo abitò ad Aquileia, per seguire la situazione più da vicino. Stabilì a Lione il centro delle operazioni, da cui partirono le diverse spedizioni militari, affidate prima al suo genero Vipsiano Agrippa, poi ai suoi figliastri Tiberio e Druso. Questi ultimi, tra il 15 ed il 14 a.C., si spingono verso l’Illiria, oltre il Danubio, distruggendo Manching, e fondano tra il Danubio ed il versante meridionale delle Alpi le province romane della Rezia e del Norico. In questo modo si impiantò e si sfruttò una rete di commercio con l’Europa centrale, nonché i suoi metalli.

Successivamente l’attività bellica si concentrò soprattutto contro i Germani, ma, dopo alcuni successi di Tiberio (5 d.C.), le truppe romane, coordinate da Germanico, figlio di Druso, non riuscirono ad avanzare in un terreno così impervio ed in un clima ostile. Nel 9 d.C. 20.000 soldati, al comando di L.Q. Varo, furono uccisi nella battaglia di Teutoburgo. Fu l’epilogo della conquista germanica, nonostante le operazioni di Germanico, che, nel 15 d.C., durante il regno di Tiberio, navigò lungo il Reno dal Mar del Nord. I Romani decisero di non avanzare più e si attestarono lungo il Reno, su una linea difensiva che alcuni secoli dopo sarà distrutta dalle invasioni barbariche. L’attività espansionistica, guidata sempre da Germanico, si spostò in Illiria e Pannonia.

Britannia

Nel 55 a.C. Cesare esplorò la Britannia per pochi giorni, attraversando la Manica in modo avventuroso. Entrò in contatto con le popolazioni locali e studiò il territorio, trovandolo ricco di stagno e di altri minerali. La cosa a Roma ebbe grande successo, al punto che, per festeggiare anche le vittorie galliche, gli furono attribuiti venti giorni di fasti. Nel 54 a.C. Cesare ritorna in Britannia in modo più stabile e sconfigge Cassivellauno che gli si era opposto, fondando un protettorato in tutta fretta, dovendo tornare subito in Gallia, per sedare le rivolte.
La Britannia appare subito più arretrata della Gallia: non esistono città, ma solo villaggi di capanne; è presente solo qualche oppida e la struttura sociale si basa sulla divisione tra aristocratici e popolani.

Fino al 40 d.C. i Romani non avvisteranno più le coste britanniche. Dopo la conquista di Cesare, i Britanni sviluppano un’intensa attività piratesca, al punto che Caligola teme uno sbarco sulle coste inglesi. Successivamente dal 43 al 47 d.C., il governatore Aulo Plauzio, per incarico dell’imperatore Claudio, occupa la parte meridionale dell’Inghilterra (Kent, valle del Tamigi e Colchester, capitale dei Trinovanti). Lo stesso Claudio venne a ricevere un giuramento di fedeltà dei re locali.

Successivamente, dal 47 al 52 d.C., fu la volta del governatore Ostorio Scapula che conquistò l’ovest, spingendosi nel Galles, e con l’aiuto della regina Cartimandua, sottomise i Briganti. La regina, invaghitasi del giovane Vellocato, si unì ai Romani per eliminare suo marito Venuzio. Questo episodio dimostra il valore delle donne presso le popolazioni celtiche: pronte a tutto per ottenere un risultato e di forte carisma, al punto da muovere tutta una popolazione.
I Briganti, alla fine, si rifiutarono di seguire la regina, si unirono a Venunzio e lottarono contro i Romani.

Nel 59 d.C. Claudio venne avvelenato e fu la volta di Nerone che concluse nel modo più amaro la dinastia julio-claudia. Nuovo governatore della Britannia, sede di continue rivolte, era Svetonio Paolino che (secondo Livio, per cui da verificare) nel 61 d.C. conquista l’isola sacra dei Druidi di Mona, l’odierna Anglesey, perdendo 70.000 uomini, e reprime nel sangue la rivolta degli Iceni guidati dalla regina Boudicca.
Di nuovo compare una donna nella storia inglese: stavolta esprime coraggio e risentimento popolare. La ferocia della repressione fece così effetto al senato romano che fu destituito il governatore e furono nominati al suo posto prima Petronio Turpiliano e poi Trebellio Massimo (62 – 69 d.C.), che con estremo successo "romanizzano" la Britannia, affievolendo il vigore dei Celti: Londinum (Londra) è sede di un grande foro, vengono costruite città e strade, i costumi romani vengono ripresi dalle diverse tribù locali.
Con l’avvento della dinastia dei Flavi a Roma, Vespasiano, riprende la conquista romana in Britannia. Tra il 71 e il 78 d.C. Petilio Ceriale e Frontino sottomettono Briganti e Siluri e conquistano definitivamente il Galles, luogo di estrema resistenza, e parte del nord dell’Inghilterra, fondando la città di Eburacum (odierna York).
Tra il 60 ed l’84 d.C. Giulio Agricola, marsigliese di nascita e dunque conoscitore dei Celti, ricevette diversi incarichi in Britannia, dapprima come funzionario, poi come legato ed infine come governatore (con una breve parentesi di governatorato in Aquitania). Vide passare davanti a se vari imperatori, mostrandosi sempre dalla parte del più forte al momento giusto: da Nerone a Galba, da Vespasiano a Domiziano che lo estromise. Era suocero di Tacito ed ebbe una forte propaganda.
Riconquista l’isola Mona, che in precedenza Livio aveva data per romana; guida sette spedizioni verso il nord, erigendo forti su tutta la linea del Forth-Clyde. La Caledonia era nel frattempo divenuta luogo di accoglienza per chi era antiromano ed era stato costretto alla fuga. Nelle battaglie impiegò molti Celti locali: combattevano britanni contro altri britanni (questo fu un risultato della romanizzazione attivata in precedenza). Presso il Monte Garupio, vicino Aberdeen, sconfisse Calgaco, re dei Pitti, compì una spedizione esplorativa sulle isole Orcadi, ma dovette fermare la sua avanzata, perché richiamato da Domiziano. Questi riteneva la Caledonia una terra aspra e desolata, che non offriva ricchezze, per cui troppo costosa da mantenere. Il successo di Giulio Agricola finisce con le spedizioni in Caledonia.
Nel 120 d.C. Adriano, adotta una politica attendista e fa erigere il famoso Vallo Adriano, lungo circa 100 km, composto da fortini e protetto da guarnigioni. L’imperatore lo etichettò con il termine "necessitas". Ora la Britannia si divideva in due provincie: Britannia Superiore, con capitale Cester nel Galles e Britannia Inferiore, con capitale Londra.

Intorno al 145 d.C., con l’ascesa al potere di Antonino Pio, i Romani avanzarono in Britannia, erigendo sopra Edimburgo, sulla linea Forth-Clyde, il Vallo Antonino.




Nel 208 d.C., con l’avvento della dinastia dei Severi a Roma, Settimio Severo in persona si recò a York, dove perse la vita, per sedare una rivolta britannica. La linea di confine arretrò di nuovo al Vallo Adriano. Dopo il 211 d.C. Caracalla tolse le guarnigioni romane dal Vallo e vi pose quelle locali: cominciò l’abbandono della Britannia. Fino al 360 d.C. ci furono diverse rivolte delle tribù locali e Carausio si proclama re di Britannia, fino a quando il cesare Costanzo Cloro riconquista l’isola per il suo augusto Massimino, collega di Diocleziano. Nel 367 d.C. Pitti, Scotti, Sassoni e Angli (due tribù germaniche) invasero la Britannia e alcuni Britanni si stanziarono in Cornovaglia e Galles, altri migrarono in Bretagna. Magno Massimo respinge l’attacco e si proclama imperatore, finendo ucciso ad Aquileia.
Nel 410 d.C. l’imperatore Onorio, prima della sua sconfitta e capitolazione ad opera dei Goti, comunica alla Britannia che non è più romana. Infine Costantino scelse la religione cristiana e la croce cristiana (XP- Christos Rho – in greco) prese il sopravvento su quella celtica.
https://cronologia.leonardo.it/mondo16a.htm

La cultura religiosa celtica considerava il mondo, la natura e le sue manifestazioni viventi, immersi in un fluido eterico invisibile nel quale esseri inimmaginabili e senza dimensione –quali déi o demoni- vivevano una eterea esistenza che a pochi mortali era dato cogliere e percepire. Il mondo delle foreste, dei boschi cupi ed impenetrabili, risonanti di echi lontani; il fulgore della vegetazione rigogliosa pervasa dai raggi solari, i misteriosi baratri fra rocche di pietra ed absidi di basalto erano, per i Celti, il più grande tempio vivente che ospitava la forza magica immanente del creato e dei suoi innumerevoli esseri. Leggende solari, cupe e terribili superstizioni, saghe arcaiche tinte di terrori e di sangue, lontane gesta d’eroi e di sacerdoti misteriosi testimoniano questa antica fede naturale radicata nel cuore tenace della più avita e misteriosa cultura d’Europa, soffocata dal mondo moderno ma mai doma e sconfitta.

Pressoché impossibile è ricostruire il corpus di dottrine che davano senso e significato a queste antiche tradizioni:

 il mistero celtico, tramandato solo oralmente e mai per iscritto, è stato suggellato dal silenzio al quale furono ridotti gli sconfitti sacerdoti celti; queste tradizioni parlano, ormai, solo il linguaggio senza tempo ed evanescente delle leggende più antiche. Dietro il gran manto del mistero è però possibile cogliere frammenti dell’antica sapienza druidica (druid, è radice sanscrita che significa “vedere”, come nel latino “videre”). Un primo caposaldo della convinzione magica della Natura presso i Celti è dato dalla convinzione dei nostri antichi progenitori dell’esistenza di esseri e forze profonde celate agli uomini: un Pantheon di divinità maggiori e minori che hanno dato vita alle immaginifiche ed affascinanti leggende del Piccolo Popolo di gnomi, fate, streghe, elfi, trolls e coboldi.


Per i Celti esistevano luoghi sacri ove queste presenze misteriose eppur reali avevano la possibilità di manifestarsi con un vigore insospettato. Ogni località che desse segni dai quali intuire che la Natura fosse ammantata di forze misteriose ed affascinanti –soprattutto tra valli, forre, boschi e radure campestri- era il luogo di elezione di queste magiche presenze.


 Il sacerdote celta era in grado di localizzare questa energia occulta del mondo naturale, di accumularla e di orientarla verso luoghi ed obbiettivi precisi –nel bene e nel male- a favore del proprio popolo ed a rovina dei nemici e in ciò la tradizione celtica si avvicina fin quasi all'identificazione con fedi e credenze presenti in altri popoli tradizionali. Questa forza occulta e magnetica della Natura era considerata presente in ogni specie vivente, tenendo ben presente che per i Celti ogni presenza naturale era dotata di oscura vitalità: piante, pietre, fulmini, tempeste, esseri animali ed umani erano pervasi da questa sorta di anima magica che rappresentava il doppio sottile della loro esistenza fisica proiettato nella dimensione parallela dell’universo di Faerie. Nei luoghi sacri l’esorbitante e sovrabbondante presenza di tali energie magnetico-sottili permetteva l’affiorare di fenomeni magici ai quali i Celti consacravano i loro riti più vivi e partecipi: la natura si animava allora di una vita arcana e misteriosa che poteva essere volta a vantaggio dell’uomo oppure a suo danno inesorabile. Le leggende celtiche sono più chiare di quanto non sembri ad una prima lettura –basta decifrarle con una lettura criptica e simbolica- ed allora il segreto dei druidi fa trapelare la grandezza terribile che lo ammanta poiché, come sostiene a ragione Elide, tutto il Sacro è pervaso dal senso di sgomento della grandiosità terribile del sovrannaturale.


Non a caso, i templi celtici erano siti in foreste o sulla cima incontaminata di monti sacri, laddove le forze spirituali primigenie avevano eletto il luogo della manifestazione privilegiata. La magia druidica consisteva essenzialmente nella conoscenza di queste forze e nella capacità di governarle attraverso la ritualità gestuale e, soprattutto, attraverso l'elaborazione di mantras magici in grado di “incantare” tali disincarnate entità, al pari di quanto conosciuto nelle più occulte ed inaccessibili dottrine del buddismo mahaianico tibetano: dimostrazione palese dell’unità primordiale delle tradizioni indo-ariane. 

Tali energie, attraverso il rito consacrato nei luoghi misterici del culto celtico, nel maestoso silenzio delle foreste di querce, grazie all’incontro con una natura ancora giovane e non contaminata dal progresso, si manifestavano, imprigionate dalla forza evocatrice del mago-druida in oggetti sacri costituenti il simbolo e la forza sacra delle singole comunità celtiche. Una leggenda viva nelle valli del Friuli nord-orientale narra che, ponendo in croce due rami tagliati di fresco da un albero, si possa sentire un sibilo lieve ma oscuramente inquietante: la leggenda, di chiara matrice celtica con contaminazioni cristiane, dice che il sibilo è la voce dell’anima di un defunto che si lamenta di essere stata imprigionata da demoni maligni attraverso i rami posti nella forma rituale di croce. Spira da questa leggenda malinconica la percezione di una Natura vivente attraversata da spiriti malevoli e benigni, perfidi e tristi, molteplici proiezioni dell’anima magica dei popoli dell’antica Europa. Simili a questa sono le numerose saghe e le leggende che descrivono le anime dannate imprigionate in granitiche pareti di montagne misteriose, anime costrette dal loro Fato, in notti infernali di tregenda, ad uscire dalla loro tombale prigione per darsi a ridde demoniache ed agghiaccianti.


Anche queste saghe, comunissime in tutto l'arco alpino, nascono tutte dalle brume sperdute della spiritualità celtica. Riecheggia, sempre, la sacralità del mondo boschivo alpestre che per i Celti era mondo sacro per eccellenza. Tutte le tradizioni d'Europa hanno identificato in siti arcani e forestali i luoghi più profondi di manifestazione dell'Oltremondo pagano, laddove le forse spirituali sottili avrebbero avuto –quasi magica porta sull'invisibile- possibilità di manifestarsi nel caduco mondo terreno.

 Le tradizioni celtiche, attraverso le leggende, ci tramandano quasi una mappa di questa geografia sacra di località magiche arcaiche. Luoghi simili sono ancora conosciuti del Country Wicklow in Irlanda, nella Scozia Settentrionale, come pure in tutta l’Europa e fino a Roma ed oltre. In questi luoghi si narrava si manifestasse con gran facilità l’antico popolo di Faerie per festeggiare con danze eliche e riti campestri l’antica forza immanente della Natura, del Mundus Imaginalis. Lo scrittore, celta moderno, W.B. Yeats ha a lungo narrato nelle sue opere di apparizioni di esseri fatati (i Sidhe), nell'Irlanda, manifestando la convinzione dell'esistenza reale di località sature di forza magica in grado di favorire e di rendere possibile queste apparizioni dell'oltremondo celtico. Una di queste apparizioni ci è documentata da Yeats: “Ci fu dapprima uno splendore di luce e poi vidi che questa proveniva dal cuore di una figura alta con un corpo apparentemente formato da aria trasparente o fosforescente e attraverso il corpo scorrere un fuoco elettrico e radiante. Attorno a questa figura si espandeva un’aura lucente simile ad ali fiammeggianti”. La descrizione nelle foresti irlandesi di una immagine simile a quella degli Elfi delle leggende, appare molto simile a quanto esposto nelle dottrine segrete del Tibet circa la facoltà di alcuni monaci, attraverso lunghi esercizi di meditazione, di proiettare l’immagine del proprio doppio etereo o sottile al di fuori del corpo fisico, come nella saga di Milarepa (l’asceta dell’Himalaya) che, di notte, durante il sonno, si allontanava dal corpo fisico per presiedere convegni di spiriti delle montagne.

Al di là di saghe e leggente –che comunque mantengono un fondo di verosimiglianza difficilmente comprensibile per l’uomo moderno- abbiamo la concreta testimonianza di Evola nelle sue Meditazioni delle vette, dove ci descrive le inesauribili possibilità logiche dei monaci tibetani. Del resto, l’esperienza dell’esistenza di siti arcani del genere ove l’impossibile diviene realtà, ci è stata confermata dal grande alpinista Kurt Diemberger (4) che, nell'attraversare una misteriosa valle segreta del Tibet, giunse in una fortezza sconosciuta alla cartografia ufficiale, dove percepì forze energetiche sottili che gli permisero di coronare con successo un'ardita impresa alpinistica che sembrava impossibile. Di foreste magiche è piena la tradizione popolare.

Qualche volta, taluni di questi siti arcani vengono ricostruiti quasi come templi naturali, novelli nemeton celtici, come è accaduto durante il XV secolo nel bosco di Bomarzo, in Toscana (5), quando in una antica foresta vennero innalzati simboli esoterici e solari in prossimità dei punti di maggior energia naturale effusa dal Sacro Bosco:
tali simboli, scolpiti nella pietra, raffiguravano Mostri, Draghi (simbolo del fuoco), Divinità delle Acque (simbolo complementare a quello igneo).



E. Longo
BIBLIOGRAFIA:
1) W. Ewants, Cuchama and sacred mountains, USA 1983, pp. 160 e ss.
2) R. Domenigg, TRADIZIONI E LEGGENDE DELLA VALCANALE, vol. II° . d.
3) Citato in Ewants, op. cit.
4) Emilio Ferrari, l’artimista degli dei, in Rivista della Montagna, marzo 1992.
5) Dino Orlandi, Segreti e misteri del Sacro Bosco di Bomarzo, in Giornale dei Misteri, marzo 1992

Tratto dal sito il boschetto di Ylith
Significato del Cerchio
Significato e simbologia del Cerchio


Il Cerchio rappresenta la perfezione, la compiutezza, L'unione, ciò che non ha rottura e cesura. Emblema tradizionale di ciò che non ha inizio né fine, formato da una linea unica le cui estremità si ricongiungono per annullarsi l’una nell'altra.



Il Cerchio: la sostanza primordiale
Questa figura geometrica rappresenta lo stato della sostanza primordiale, impalpabile e trasparente, uniforme e indifferenziata. Infatti il Cerchio sprovvisto di angoli e di spigoli simboleggia l’armonia, che grazie all'assenza di opposizioni, come l’alto e il basso, ecc., traduce l’indifferenziato in un’uguaglianza di principi. È il simbolo dello spirito e dell’immaterialità dell’anima. Il simbolismo del Cerchio è duplice, sia magico sia celeste. Questa figura come cielo rappresenta la dimensione intellettuale e spirituale.

Infatti nella sua opposizione al Quadrato, questa figura geometrica incarna il cielo in rapporto alla terra, a tutto ciò che è materiale. Il Cerchio come cielo è collegato al il ciclo perenne della vita.
Questo concetto è ben espresso dalla circonferenza, figura geometrica nella quale non è dato distinguere il principio dalla fine, simbolo dell’eternità e quindi di perfezione. Il movimento circolare, che è anche quello del cielo, è perfetto, immutabile, senza inizio né fine, né variazione; questo fa si che esso possa rappresentare il tempo, il quale, a sua volta, può essere definito come una successione continua e invariabile di istanti tutti identici gli uni agli altri, e da qui il concetto di ciclicità. La circonferenza determina anche un limite separatore tra la superficie interna definita e quella esterna infinita.
Il Cerchio e il Centro

Il simbolismo del Cerchio è strettamente legato a quello del centro, in relazione all'unità primordiale. È il luogo sacro dove si concentrano tutte le energie materiali e spirituali.
Di questa circonferenza, i quattro elementi sono i raggi. Il centro, che è anche punto centrale della croce, è il punto dal quale i raggi si dipartono ma al qual peraltro convergono. È simbolo quindi del Principio da cui tutto trae origine e cui tutto ritorna.

Presso i popoli primitivi la circonferenza con il punto centrale è ancora la raffigurazione del Sole, il cui calore è associato all'amore, e la luce alla bellezza e alla verità.
Il Cerchio, come cerchio magico o sfera, è un tempio ben definito, pur non essendo uno spazio fisico. Il Cerchio magico ha origini antiche. Alcune sue forme erano utilizzate nell'antica magia babilonese.

I cerchi magici
Anche i maghi cerimoniali del medioevo e del rinascimento li utilizzavano. I Cerchi magici venivano usati dai maghi nelle cerimonie per proteggersi dalle forze evocate.


Nel mondo celtico, il Cerchio ha una funzione e un valore magico. Questa figura geometrica simboleggia dunque un limite magico invalicabile. Per i popoli nomadi il Santuario per la divinità era concepito circolare, come la loro tenda.
Per delimitare il Santuario essi fissavano un bastone nel terreno. Concepivano poi il bastone come asse del mondo.
Ogni punto della superficie terrestre era concepito, quindi, corrispondente a tale asse. Con un filo legato al bastone ruotando formavano il Cerchio, trasfigurazione del cielo e del cosmo.







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Sono le di

Le feste celtiche

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